Shinji Mikami è uno dei più grandi autori di videogiochi. Non occorrono che pochi fotogrammi per capire se un videogioco porta la firma del creativo giapponese, e il solo fatto che i primi quattro capitoli della serie Resident Evil portino la sua firma, è una prova sufficiente per definire Mikami una delle pietre miliari dello sviluppo videoludico. Ma, a quanto pare, Mikami non è un autore chiuso nella propria torre d’avorio: è un uomo che ascolta, che tiene in considerazione le preghiere dei propri fan. Nonostante le critiche mosse dai puristi a Resident Evil 4, è dai tempi del discusso quarto episodio che la serie sembra avere smarrito la via, e gli appassionati di questa saga bramano da tempo un videogioco che riporti in auge il gameplay, le atmosfere e il bilanciamento tra sopravvivenza e azione dei prodotti di Capcomn a firma Mikami. Così, il buon Shinji si è messo al lavoro su di un gioco chiamato The Evil Within, con la promessa di creare qualcosa che si avvicinasse ai tanto amati titoli usciti tra il 1996 e il 2005. E, ve lo diciamo subito, la promessa è stata in parte mantenuta.
La favola del brutto anatroccolo
Quando vedemmo The Evil Within per la prima volta, non ci piacque. Da un punto di vista tecnico il gioco presentava gravi lacune, e la scelta degli sviluppatori di proporre ai giornalisti un capitolo avanzato del gioco ci impedì di comprendere la trama e quello che ci stava avvenendo attorno. The Evil Within, in breve, sembrava l’ennesimo titolo in stile Saw, inutilmente violento e avvolto in un’atmosfera anonima e decisamente poco spaventosa. Le prove successive mostrarono qualche segno di miglioramento, ma il gioco faticava a lasciarci una buona sensazione.
Poi, finalmente, il gioco è arrivato nelle nostre mani. Confessiamo che, anche dopo i primi minuti, non avevamo un buon presentimento: The Evil Within è un gioco che inizia male, sia da un punto di vista narrativo che dal lato del gameplay. Non vi è alcun preambolo: nei panni del detective Sebastian Castellanos si viene catapultati in una situazione critica, nella quale un ospedale psichiatrico è pieno di cadaveri. Ben presto si comprende che dietro gli omicidi c’è una sorta di entità soprannaturale, che gli inservienti superstiti del nosocomio sembrano identificare con un certo Ruvik. Dopo il primo fortuito (e quasi letale) incontro con Ruvik, il gioco si trasforma istantaneamente in un incubo: ci ritroviamo intrappolati nei sotterranei dell’ospedale, dove un gigante armato di motosega ci insegue nel tentativo di farci a pezzi. Il gioco, in questo frangente, mostra un gameplay piuttosto banale, fatto di stealth e fughe rocambolesche, che fa eco a decine di titoli horror usciti nel corso degli ultimi mesi. Al termine di questa prima sequenza, scopriamo che l’ospedale è l’epicentro di un vero e proprio cataclisma, che sta sgretolando la città e sta trasformando i suoi abitanti in creature mostruose e sanguinarie.
Da questo momento in poi, il gioco è un lento ma costante crescendo: la storia inizia ad ingranare, i personaggi prendono spessore e i risvolti psicologici della trama si fanno gradualmente più inquietanti. E, ovviamente, lo strano ma banale gioco stealth del prologo lascia il posto a un gameplay che fa eco a Resident Evil 4 ma che, grazie al cielo, si rinnova con alcuni elementi decisamente più moderni. In sintesi: The Evil Within è un gioco che è migliorato visibilmente nel corso del suo sviluppo, e che migliora nel corso dell’avventura stessa.
L’incubo di Sebastian
Appare evidente sin da subito l’intenzione di Mikami di creare una storia capace di attingere sia dagli stilemi dell’horror più classico che da quelli del thriller psicologico. The Evil Within è un gioco che ci porta costantemente ad avere a che fare con allucinazioni, inganni della mente e personaggi fondamentalmente folli. I temi della pazzia e della cura avvolgono costantemente la vicenda, tanto che il giocatore si trova più volte costretto a dubitare della sanità mentale del proprio alter ego. Non si capisce bene se quello che stiamo vivendo sia reale o parte di un incubo, e i pezzi del puzzle gettati a caso da Mikami iniziano a combaciare solo dopo quattro ore, pari a un terzo del gioco. L’inquietudine ci assale, e quando crediamo di avere toccato il fondo, c’è qualcosa di ancora più inquietante ad attenderci dietro l’angolo. A tal proposito, preferiamo chiarire sin da subito un fatto, che per molti lettori potrebbe risultare cruciale: The Evil Within non è un gioco spaventoso. Fatta eccezione per qualche jump scare del tutto gratuito (e, talvolta, prevedibile), The Evil Within è un gioco che mira a causare disagio nel giocatore, sia attraverso i temi trattati che attraverso un continuo uso del “gore”, con il sangue che scorre a ettolitri in numerose sequenze del gioco.
Azione, stealth e morte
Il bilanciamento nel gameplay adottato da Mikami combina in maniera sapiente tre pilastri: l’azione, lo stealth e il puzzle solving. L’azione è una soluzione adottabile solo in alcune circostanze, ed è spesso accompagata da una fornitura di proiettili adatta a superare la sezione, che viene elargita poco prima dell’evento a cui si sta per prendere parte. In tutto il resto dell’avventura, i proiettili sono forniti con estrema parsimonia. Lo shooting, nelle fasi iniziali, è altamente impreciso e poco efficace: un colpo alla testa con la pistola non è quasi mai sufficiente per uccidere il nemico, e il reticolo di mira è praticamente inutilizzabile mentre si cammina. In generale, le armi da fuoco in The Evil Within non lasciano una buona sensazione, e ci siamo trovati a sprecare inutilmente proiettili a causa delle hitbox dei nemici non sempre ben calcolate. Il corpo a corpo è l’ultima spiaggia, ed è pressoché impossibile pensare di prendere a pugni un nemico senza subire almeno uno o due colpi, senza contare che molti mostri sono armati e possono colpirci anche da lontano. Quando il nemico cade, non è detto che sia morto: spesso i cadaveri si risvegliano, e l’unico modo per eliminarli in maniera permanente è dare loro fuoco con i fiammiferi, anch’essi in numero estremamente limitato. Talvolta si possono incendiare più nemici con un solo fiammifero, e in alcuni casi questa meccanica è necessaria per superare indenni alcune sezioni di livello. La varietà delle armi è scarsa, ma vi è la possibilità di usare una balestra con dardi esplosivi, accecanti, elettrici o penetranti che si rivelano necessari nelle situazioni più calde o in alcune boss fight basate sulla forza bruta.
In generale, l’ago della bilancia del gameplay di The Evil Within pende verso lo stealth: avvicinarsi ai nemici senza farsi notare non è una passeggiata, ma con un colpo silenzioso da dietro è possibile eliminare definitivamente un mostro. Si passa molto tempo accucciati, nell’ombra, lanciando bottiglie per distrarre i nemici e ucciderli, o aggirarli. In altri casi, è necessario fuggire a gambe levate, il tutto evitando le svariate trappole disseminate in ogni livello, che possono essere disinnescate per ottenere preziosi pezzi necessari per fabbricarsi proiettili in un semplice sistema di crafting. Questo ha un’evidente ricaduta sul ritmo di alcune sequenze di gioco, che in alcuni capitoli è risultato eccessivamente prolisso.
Infine, nel gioco vi sono numerosi puzzle, che tuttavia non ci hanno mai sorpreso in quanto a varietà od originalità. Tutto si può risolvere semplicemente osservando l’ambiente, fatta eccezione per alcuni puzzle attivati in maniera del tutto estemporanea, che danno luogo a qualcosa di estremamente simile ai QTE che, in caso di fallimento, porta a morte certa. In questi casi, il gioco introduce alcune meccaniche trial-and-error che non hanno mancato di farci arrabbiare, e che abbiamo trovato decisamente fuori luogo in un’avventura capace altrimenti di reggere il ritmo. Molto meglio i puzzle ambientali legati ad alcuni boss, invulnerabili alle armi da fuoco ma sensibili all’ambiente circostante, che ci ha spinto a tentare di spremere le meningi in una situazione di panico totale.
Nel gioco è piuttosto facile morire a causa dei propri errori, e The Evil Within ci viene incontro con un sistema che mescola checkpoint e stanze di salvataggio. I checkpoint sono distribuiti in maniera intelligente nelle lunghe sezioni prive di luoghi dove salvare, mentre in prossimità di una stanza di salvataggio (riconoscibile da una suadente musica d’altri tempi) è pressoché obbligatorio salvare i propri progressi, poiché sta per accadere qualcosa di molto brutto. Questo è uno dei tanti elementi di The Evil Within che mescolano modernità e tradizione: i checkpoint impediscono la frustrazione, mentre l’uso delle stanze di salvataggio diventa provvidenziale prima dello scontro con un boss o prima di una sezione scriptata.
Infine, è degno di nota il sistema di upgrade del proprio personaggio: le stanze di salvataggio ci portano in una sorta di mondo parallelo, un’ospedale psichiatrico (con annesso obitorio) nel quale il nostro alter ego viene sottoposto all’elettroshock. Con questa tortura infernale (una cura, forse?) si acquisiscono le abilità, al costo di una strana melma verde che raccogliamo uccidendo i nemici ed esplorando i luoghi più reconditi del gioco.
Crossgen
Il reparto artistico di The Evil Within, come detto, fa largo uso di location inquietanti che, a tratti, ricordano più lo stile di Silent Hill che quello di Resident Evil. Lunghi corridoi con pareti sangunanti, piscine piene di cadaveri, degrado e abbandono: alcune sezioni di gioco sono così claustrofobiche e luride che l’odore della putrefazione pare uscire dallo schermo. Il motore di gioco, pensato per offrire una buona esperienza visiva sia su current gen che sulle console di vecchia generazione, compie il suo lavoro in maniera più che discreta. Il character design dei protagonisti si avvicina in maniera prepotente a quello delle precedenti opere di Mikami, e i mostri risultano variegati e terrificanti. Alcune texture sono in bassa risolzione, e i toni bui di gran parte degli ambienti di gioco contribuiscono a nascondere un reparto tecnico che non fa certo cadere la mascella. Grazie al comparto artistico, però, il risultato visivo di The Evil Within si attesta su livelli più che buoni, e in alcuni frangenti gli scorci offerti ci hanno sorpreso positivamente.
Il sonoro è eccellente, con un doppiaggio in italiano di buona fattura ed effetti sonori che aiutano molto a calarci nell’atmosfera. Le musiche, spesso ovattate in un flanger che emula i grammofoni, attingono da un repertorio classico e cameristico di tutto rispetto, con brani di JS Bach suonati dall’Academy of St. Martin in the Fields che fanno da contraltare alle atmosfere cupe che pervadono il gioco.
– Ottimo bilanciamento tra azione e stealth
– Realizzazione artistica di ottimo livello
– Reparto sonoro eccellente
– Vecchio e nuovo combinati in maniera saggia
– Alti e bassi nella realizzazione tecnica
– Inserimento di meccaniche trial-and-error frustranti
– Qualche momento morto
Partito male e con lo spettro del fallimento emerso dopo le prime prove, The Evil Within è un gioco che ha saputo sorprenderci. La commistione di vecchio e nuovo funziona, e ancora una volta dimostra l’abilità di Mikami nel saper creare prodotti equilibrati e capaci di divertire senza straniare troppo un gameplay classico. La trama, sebbene non stellare e non priva di momenti morti, riesce ad intrattenere e a spingere il giocatore a proseguire il suo viaggio verso la sopravvivenza. Il terrore latita, ma l’inquietudine ci cattura dopo poche ore di gioco. Se non fosse per una realizzazione tecnica vistosamente crossgen e qualche elemento trial-and-error inserito per prolungare un’avventura di tredici o quattordici ore, il gioco avrebbe potuto ambire all’eccellenza. In ogni caso, se aspettavate da anni un gioco degno di Resident Evil 4, The Evil Within è la vostra risposta.