Con Song of the Deep, la camaleontica Insomniac dimostra ancora una volta di saper passare con gran disinvoltura da un genere all’altro. Dalle piattaforme di Ratchet & Clank all’epopea in prima persona di Resistance, da Sunset Overdrive allo stile metroidvania di Song of the Deep, fino ad arrivare all’ambizioso progetto dedicato all’Uomo-Ragno tutto in divenire, la software house di Burbank non si è mai posta alcun limite creativo.
Grazie a un accordo di distribuzione con Gametrust – nata dall’iniziativa di una tra più note catene di vendita di videogiochi – l’ultima opera di Insomniac a tema sottomarino giunge in punta di piedi nel periodo meno affollato dell’anno. Si tratta chiaramente di un progetto minore, lontano dai budget a disposizione delle serie più di rilievo, che ha dunque la dimensione di quello che potremmo definire un “indie di lusso”.
Asleep in the Deep
Quella di Song of the Deep è una storia semplice e dai tratti fiabeschi, che si dispiega davanti al giocatore coi giusti ritmi, inserendosi tra le trame dell’avventura tramite gli interventi di un narratore onnisciente che sottolinea i momenti clou e accompagna con armonia l’incedere della piccola Merryn. La protagonista, che trascorre una vita d’indigenza assieme al padre pescatore, tutti i giorni lo accompagna con lo sguardo da sopra una scogliera; di sera ascolta invece le sue fantasiose storie prima di addormentarsi, fin quando, un dì funesto, l’uomo non fa più ritorno. Merryn decide dunque di costruire un trabiccolo che prende la forma di un sottomarino e si immerge in mare alla disperata ricerca di suo padre, partendo per un’avventura non troppo diversa dalle favole che ascoltava prima di un abbandono improvviso e non previsto.
Nelle profondità marine, la conduzione di gioco si adagia sugli schemi classici dei metroidvania, con una mappa (sempre consultabile tramite trackpad, su PS4) strutturata ad aree che vanno opportunamente “sbloccate” dopo aver acquisito alcuni specifici potenziamenti o dopo aver superato degli enigmi ambientali o basati sulla fisica. Come si conviene al genere, l’accento è naturalmente posto sull’esplorazione; forse fin troppo, se consideriamo quanto le altre meccaniche di gioco siano poco sviluppate, quasi come se fossero accessorie. Alcune funzionalità del sottomarino, sbloccabili nel corso dell’avventura, rimangono invece un po’ in ombra e concedono spesso al giocatore uno sfruttamento solo circostanziale. È possibile potenziarle nei pressi di un grosso paguro che, in cambio delle monete trovate lungo gli scenari, concede delle migliorie agli strumenti che Merryn utilizza.
Oltre a una pinza magnetica – utile non solo per interagire con oggetti e parti metalliche, ma anche per contrastare i nemici che minacciano la vostra incolumità negli abissi – è possibile usare dei siluri, accendere dei potenti fari per fendere il buio e disperdere banchi di meduse che ostruiscono i passaggi, sfruttare i propulsori per ribellarsi alle correnti marine o accelerare per brevi lassi di tempo, utilizzare un efficiente sonar che farà la felicità dei cosiddetti “completisti”.
Seasons in the Abyss
Il backtracking non è troppo invasivo ed è strutturato in modo intelligente, con la presenza di alcuni portali utili a raggiungere con rapidità le aree visitate in precedenza, non dando dunque adito a una diluizione della durata, che si attesta attorno alle otto ore.
La risoluzione degli enigmi è legata all’uso delle funzionalità del sottomarino e si basa spesso sulla fisica, ma va ammesso che alcune manovre risultano essere più farraginose del solito, in special modo quando bisogna trasportare delle bombe per aprire dei passaggi o quando, nell’ultima metà di gioco, si nota un’impennata nella difficoltà media che può infastidire i meno pazienti; in generale, alcuni rompicapo appaiono un po’ artefatti.
Gli scontri coi nemici sono invece sin troppo semplici e un po’ approssimativi: le creature sottomarine hanno pattern basilari che non mettono mai in difficoltà e risultano essere il più delle volte degli ostacoli di poco conto. La critica si estende anche alle boss fight, che sono poche, piuttosto anonime e deludenti. Benché lo stile di gioco sia evidente sin dall’inizio e privilegi in modo chiaro quelle che sono le linee guida del genere, sarebbe stato opportuno sviluppare in modo più articolato alcune caratteristiche, anche alla luce del fatto che – a parte l’ambientazione particolare – Song of the Deep non è esattamente il più originale e complesso tra i metroidvania.
Il mondo di gioco è coeso, ha una propria coerenza artistica e contenutistica, e si avvantaggia del riuscito mix tra 2D e 3D per offrire all’utente un’immagine incantata e fanciullesca dell’ecosistema sottomarino, coadiuvato da una narrazione semplice, universale e adatta a diverse tipologie di pubblico. Si notano tuttavia delle sporadiche imperfezioni tecniche, come qualche compenetrazione o dei singhiozzi nella fluidità anche quando su schermo la mole poligonale non è imponente. Considerando il periodo povero di uscite, Song of the Deep può essere un buon passatempo, a patto che non vi aspettiate da Insomniac la stessa qualità delle loro opere più popolari.
– Un metroidvania ben strutturato
– Buona atmosfera
– Il tocco di Insomniac dà solidità al gameplay…
-… Che non si prende alcun rischio ed è poco articolato
– Alcuni enigmi artificiosi
– Scontri sin troppo elementari
– Rari rallentamenti e qualche compenetrazione
L’esperienza di Insomniac pesa positivamente su Song of the Deep più della qualità stessa dell’offerta, che non presenta novità di rilievo in un genere che ne avrebbe invece bisogno. Sebbene la solidità di gioco sia garantita dell’esperto team di sviluppo, diversi elementi di base sono poco approfonditi e viene lasciato sin troppo spazio all’esplorazione senza creare reali difficoltà. Nonostante si tratti di un titolo minore, ci si aspettava insomma uno sforzo creativo maggiore; così com’è, Song of the Deep è “solo” un buon gioco che diverte ma non entusiasma.