Pubblicato qualche giorno fa quasi a sorpresa, senza alcuna spinta pubblicitaria e solamente in versione digitale (quantomeno per quanto concerne il mercato europeo), Shiren the Wanderer: The Tower of Fortune and the Dice of Fate (da adesso in poi solo Shiren the Wanderer, per brevità) è il remake del titolo visto su Nintendo DS nel 2010, quinto episodio della serie regolare di uno dei roguelike più longevi ed amati nel paese del Sol Levante.
A quanto pare, dopo mesi di naftalina, Playstation Vita sta vivendo un 2016 inaspettatamente vivace, e il prodotto Spike Chunsoft si aggiunge alla lista dei titoli da provare. Dopo decine di ore di gioco (e di parolacce, a dirla tutta), eccovi la nostra recensione.
Aiutare il prossimo
Coloro i quali hanno avuto a che fare con almeno un titolo della serie Mystery Dungeon, su qualsiasi piattaforma, sapranno benissimo cosa aspettarsi dall’ultima fatica Spike Chunsoft, ma un veloce riepilogo potrebbe essere utile a tutti i neofiti: parliamo di un roguelike di stampo classico dalla difficoltà decisamente elevata, con svariati elementi ruolistici, generazione casuale dei dungeon e un protagonista di poche parole (per usare un eufemismo).
Con qualche eccezione, la serie non ha mai fatto registrare vendite entusiasmanti in occidente, dove l’alto livello di difficoltà, la ripetitività insita nel gameplay e la pazienza richiesta per avere la meglio sui diabolici labirinti hanno scoraggiato moltissimi utenti potenziali. Cionondimeno, Aksys Games ha scommesso sul prodotto, ritenendolo meritevole di una traduzione e di una distribuzione anche negli Stati Uniti e in Europa: col senno di poi, la scommessa è vinta, perché il prodotto, oltre che profondo e ben sviluppato, si rivela maggiormente accessibile, rendendo meno frustrante l’esplorazione della torre, senza annacquare eccessivamente l’esperienza di gioco.
A livello narrativo, invece, gli sforzi compiuti sono stati minimi, come da tradizione della serie: Shiren, avventuriero dal cuore tenero, visita il villaggio di Inori durante uno dei suoi viaggi, solo per imbattersi in una sfortunata coppia di amanti, Oyu e Jirokichi. Alla prima, colpita da una maledizione, non restano che poche settimane di vita; mentre il secondo, suo fidanzato, tenta l’impossibile per salvarla, e cioè scalare la Tower of Fate del titolo, in cima alla quale, secondo la leggenda, risiede Reeva, la Dea del Fato capace di esaudire un desiderio e cambiare le sorti del destino.
Non avendo nulla di meglio da fare, Shiren si offre di condividere l’epica impresa con Jirokichi, dall’alto della sua esperienza nell’esplorazione di dungeon pericolosissimi: difficile aspettarsi un plot più sensato da un titolo dove il protagonista si porta in giro un furetto (visone?) parlante di nome Koppa e una delle possibili compagne di viaggio è vestita con un completo da panda.
Andando oltre le tipiche stramberie nipponiche, comunque, ci si imbatte in dinamiche di gioco complesse e a tratti brutali, in stridente contrasto con l’estetica e lo humour che caratterizzano il prodotto.
Un piano in più
La struttura ludica di Shiren the Wanderer aderisce perfettamente ai canoni classici dei roguelike basati sui dungeon, con un gameplay a turni che si innesta su mappe casuali, gremite di nemici che non aspettano altro che fare la pelle al giocatore.
Il nocciolo della questione è rappresentato dal bilanciamento tra il desiderio di spingersi sempre più in là, alla ricerca delle scale che conducono al piano superiore della torre, e la paura costante di perdere tutto (o quasi), in caso di morte: come da tradizione, esaurite le energie, Shiren si ritroverà privo di tutti gli oggetti e l’esperienza accumulati, di nuovo di livello 1.
Un po’ come la serie dei Souls, l’esperienza acquisita non va persa, però, e si rivela fondamentale per tentare una nuora ascesa: imparare a riconoscere i pattern d’attacco dei nemici, le loro debolezze, la tendenza di alcuni a fuggire e di altri a tendere veri e propri agguati può segnare la differenza tra la vita e la morte.
Il prodotto Spike Chunsoft viene incontro ai giocatori meno esperti introducendo diversi elementi di gameplay che rendono utili anche le sconfitte, giovando molto al senso di progressione generale: è possibile “taggare” i migliori pezzi di equipaggiamento rinvenuti nella Torre, così da poterli acquistare nuovamente anche dopo la dipartita del personaggio, acquistare licenze (invero molto costose) per evitare che determinate tipologie di nemici ci attacchino a vista, e anche conservare al sicuro oggetti particolarmente preziosi e somme di denaro, cosicché non vadano persi all’ennesima morte.
La più grande vittoria del team di sviluppo, a nostro avviso, consiste proprio nell’aver mantenuto il bilanciamento del titolo a dispetto dell’introduzione di questi elementi, perché Shiren the Wanderer non è né meno impegnativo né meno avvincente dei migliori esponenti della categoria, per non parlare dei precedenti episodi del franchise.
Discorso simile per la possibilità di arruolare e portarsi dietro dei companion (anche due contemporaneamente), utili ad attirare l’attenzione dei nemici e ad aggiungere potenza di fuoco al giocatore: non solo questi manterranno i livelli di esperienza guadagnati, a differenza di Shiren, ma ognuno di essi sarà caratterizzato da comportamenti sensibilmente diversi, tra chi si getta sui nemici non appena li vede e chi, invece, tende a rimanere al fianco del giocatore.
Il sistema di combattimento è abbastanza canonico per il genere, decisamente meno complesso di titoli come quelli della saga di Etrian Odyssey, giusto per citare un esempio noto, ma non meno soddisfacente, grazie soprattutto alla grande quantità di armi e armature disponibili e allo spessore tattico garantito dalla presenza di un indicatore per la fame, spesso più severo e intransigente di quello della salute.
A complicare ulteriormente la vita al giocatore c’è anche un ciclo giorno-notte completo, con molte tipologie di nemici che si fanno più aggressivi nottetempo, e la necessità di portare una torcia (occupando una mano) per non brancolare, letteralmente, nel buio.
Gli unici problemi riscontrati durante le ore trascorse in compagnia di Shiren the Wanderer sono rappresentati dall’aderenza, forse eccessiva, a canoni consolidati e longevi, che non lascia spazio a novità di rilievo, e la frustrazione connessa alla generazione casuale dei livelli, che alterna delle run apparentemente ingiuste ad altre in cui si finisce con il sentirsi un semidio.
Problemi minori, in ogni caso, ed imputabili a molti congeneri, a dire il vero.
2D rules
Il comparto tecnico parla per sé, non lasciando molto da analizzare: la strada percorsa è quella della nostalgia, con sprite bidimensionali deliziosamente animati, che richiamano tanto i tempi del Super Nintendo quando quelli del DS, su cui, come detto, il titolo era stato originariamente pubblicato.
Molti potrebbero storcere il naso dinanzi alla completa assenza di poligoni, laddove molti altri (noi compresi) potrebbero rimanere estasiati dinanzi alla pulizia grafica, al certosino lavoro sui dettagli e sulle animazioni, dal movimento del mantello di Shiren durante le sue escursioni alla triste piroetta con cui tira le cuoia, poco prima di risvegliarsi al villaggio.
Rispetto al titolo originale, i programmatori hanno tentato di offrire una maggiore varietà visiva all’interno della torre stessa, differenziando i set di piani in maniera apprezzabile, sebbene non sempre impeccabile: come visto anche per la giocabilità, la ripetitività rappresenta probabilmente il maggior nemico di questa produzione (e dei roguelike in generale), ma Shiren the Wanderer sa farsi perdonare qualche nemico riciclato con altrettanti molto originali, come gatti saltellanti e piante animate.
La colonna sonora è zeppa di motivi tipicamente giapponesi, che ci hanno richiamato alla mente alcune delle musiche della saga di Ganbare Goemon! (The Legend of Mystical Ninja in Europa), e questo, per coloro tra i nostri lettori che non avessero giocato nemmeno un capitolo della succitata, è decisamente un complimento: i motivetti, i fischi e i buffi effetti sonori si sposano perfettamente con il gameplay proposto e con la vena umoristica che pervade il prodotto.
La struttura di gioco rende virtualmente impossibile quantificare una durata media, visto che questa dipende in maniera diretta dal numero di tentativi necessari e dal quantitativo di morti in cui il giocatore incapperà: il nostro counter si è fermato a circa trentatré ore totali, ma, se va detto che ce la siamo presa comoda per provare più feature possibili, è altrettanto vero che un neofita potrebbe impiegare anche una manciata di ore in più per giungere in cima alla Tower of Fate.
– Tende una mano ai neofiti
– Livello di sfida comunque molto stimolante
– Può generare dipendenza, soprattutto se giocato a piccole dosi
– Buona durata complessiva e buona rigiocabilità
– Molto, forse troppo classico nello svolgimento
– Comunque non per tutti
Probabilmente non convertirà al genere coloro i quali se ne sono sempre tenuti a debita distanza, e non vincerà alcun premio come titolo dell’anno per Playstation Vita, eppure Shiren the Wanderer: The Tower of Fortune and the Dice of Fate va a posizionarsi sul podio dei roguelike disponibili per la piccola di casa Sony, insieme a Spelunky (che comunque consta di una struttura parzialmente differente) e del geniale Crypt of the Necrodancer.
Va dato atto al team di sviluppo di essere riuscito ad ammorbidire l’esperienza di gioco, favorendo l’ingresso nel mondo di Shiren ai neofiti, senza aver snaturato l’essenza del prodotto, che rimane impegnativo e punitivo, soprattutto per i giocatori meno pazienti.
Se vi piace il genere e possedete Vita, vi consigliamo di dare a esso una possibilità: l’unica cosa di cui potreste pentirvi è l’assenza di una versione fisica del gioco.