Ready Player One, esplorando OASIS nella recensione del film
a cura di Marcello Paolillo
Senior Staff Writer
Steven Spielberg non è solo un semplice regista. A lui dobbiamo infatti capolavori del calibro de Lo Squalo, Jurassic Park, Duel, Salvate il Soldato Ryan. E ancora, Indiana Jones (l’intera quadrilogia), Hook – Capitan Uncino e i meno noti (ma altrettanto magnifici) A.I. – Intelligenza Artificiale e Minority Report. La lista, tuttavia, potrebbe continuare ancora per decine di righe o giù di lì, tanti e tali sono i film realizzati da uno dei cineasti più famosi di sempre, forse uno dei più amati dai ragazzi cresciuti a cavallo tra gli anni 80 e i 90, un periodo particolarmente florido per il grande schermo: erano gli anni dei primi tentativi di CGI, un’epoca in cui sperimentare poteva significare cambiare per sempre le sorti del cinema nella sua interezza. E Spielberg, al netto di un buonismo che ha forse pervaso gran parte delle sue pellicole più celebri, ha sempre arricchito la settima arte con le sue opere, prodotti in grado di lasciare un segno indelebile negli occhi (e nel cuore) dello spettatore. Ora, anno 2018, il cinema è cambiato profondamente: è sempre più difficile trovare l’originalità una volta seduti in sala, travolti da una miriade di film tratti dai fumetti (i cosiddetti cinecomic) e vari riavvii di franchise più o meno noti (e più o meno validi). C’è ancora spazio, nel panorama cinematografico odierno, per un cantastorie d’altri tempi come Spielberg?
Tratto dal best-seller di Ernest Cline, Ready Player One è un enorme calderone in cui Spielberg ha deciso di riversare tutto se stesso, tra riferimenti, citazioni e un vero e proprio tributo alla pop culture che ha coniato quello che oggi possiamo chiamare come “nerd”, il tutto in veste estetica dirompente, capace da sola di valere il prezzo del biglietto. Questo perché RPO è innanzitutto un tradizionale film spielberghiano, di quelli che raccontano una storia incentrata sulla fase di passaggio dalla giovinezza all’età adulta: anno 2045. La terra è un ammasso di desolazione e povertà. Per sfuggire a tutto ciò, Wade Watts (Tye Sheridan) decide di lanciarsi nel mondo virtuale di OASIS, un universo ispirato agli intramontabili anni ottanta e creato dal filantropo James Donovan Halliday (Mark Rylance). Come ultimo lascito prima di passare a miglior vita, Halliday lancia una frenetica caccia al tesoro del valore di svariati miliardi di dollari. Il “Gioco di Anorak”, grazie al quale tre Easter Egg daranno ai fortunati possessori la possibilità di diventare i legittimi proprietari di OASIS. Wade – aiutato da Art3mis (Olivia Cooke) – proverà quindi ad aggiudicarsi il premio in palio, preparandosi a fare i conti con una multinazionale senza scrupoli chiama IOI e, soprattutto, con un nutrito numero di contendenti decisi a fargli la pelle, all’interno dell’universo digitale da cui sarà realmente difficile fuggire.Se il film, come accennato poche righe più in alto, è tratto dal romanzo di Ernest Cline, va però sottolineato come in realtà la narrazione prenda seriamente le distanze dall’opera omonima. Concettualmente, il Ready Player One di Spielberg è quasi una “seconda visione” di ciò che è stato scritto nel libro, nonostante si tratti sempre e comunque di un’operazione commerciale onesta e cristallina, visto che lo stesso Cline ha partecipato alla stesura della sceneggiatura, assieme a Zak Penn. Il risultato è un prodotto che ha deciso di abbandonare gran parte dei riferimenti letterari, al fine di abbracciare uno tsunami di citazioni, strizzatine d’occhio, cammei e chi più ne ha più ne metta, relativamente a un vero e proprio universo (quello dei dorati anni 80 e 90) caratterizzato da film, videogiochi, board game e lungometraggi animati. Attenzione, però: non stiamo parlando di un calderone di Easter Egg gettati alla rinfusa per creare il cosiddetto “effetto Straner Things”. Ogni elemento estraneo è inserito con estrema cognizione di causa e mai lasciato al caso, per tutti e 140 i minuti del film.
Il Gigante di Ferro, la DeLorean di Ritorno al Futuro, Gundam, Mad Max, Akira e una miriade di altri franchise sono qui omaggiati con estremo rispetto, visto e considerato che Steven Spielberg sa bene come andare a toccare le giuste corde emozionali (dopotutto, lo ha fatto per un intero ventennio di film), evitando di scadere nel banale cliché. Poiché, a conti fatti, Ready Player One è in primis proprio questo: una Wikipedia sincera ed estremamente accurata di tutto ciò che ha plasmato la cultura nerd e geek degli ultimi trent’anni, a trecentosessanta gradi. Spielberg tuttavia non guarda solo al passato, prendendo come base proprio la Realtà Virtuale che da poco sta entrando nelle nostre case, fantasticando sulle sue potenzialità e i pericoli di un’immersione forzata (poiché non dimentichiamoci mai che la vita reale è tutta un’altra cosa). RPO tenderà a farsi apprezzare quindi sia dalle vecchie generazioni tanto quanto dalle nuove, facendo leva sull’effetto nostalgia in egual misura alla sua prorompente capacità di mostrare uno spettacolo visivo unico, stordente e a tratti memorabile (cosa questa che lo rende con molta probabilità una spanna superiore al romanzo da cui trae ispirazione).A voler essere onesti (e a mente fredda) dubitiamo però che il film possa entrare col tempo tra le fila degli immortali, forse proprio a causa del fatto che gran parte dei suoi pregi sono mossi inevitabilmente dal nostro vissuto e dalla nostra esperienza personale. Ciononostante, Ready Player One è la dimostrazione pratica che Steven Spielberg, con una sceneggiatura vibrante tra le mani, è ancora in grado di essere l’eterno ragazzo sognatore che ci ha donato alcune delle più grandi storie di tutti i tempi. Che sia sulla terra o su OASIS, non è importante.
Visivamente e registicamente mozzafiato.
Un inno alla pop culture anni 80 e 90.
Potrebbe far storcere il naso ai fondamentalisti del romanzo omonimo.
8.0
Meglio sottolinearlo ancora una volta: chi ha letto e amato il libro potrebbe non gradire l’ultima pellicola di Spielberg, il quale più che migrare il romanzo sul grande schermo ha preferito plasmarlo e trasformarlo al suo volere, in maniera del tutto inaspettata. Il risultato, al netto dei cambiamenti, è una piccola gemma. Che non solo ha l’indiscusso pregio di omaggiare un intero ventennio di film e storie che hanno cresciuto una (o più) generazioni di ragazzi, bensì riesce a essere anche e soprattutto un film bilanciato alla perfezione, senza tempi morti e con alcune (eccelse) dimostrazioni di stile. Perché se Steven Spielberg è sicuramente un “matusa” del mondo del cinema, ciò non toglie che non sia ancora in grado di farci sognare come pochi al mondo. E anche solo per questo, c’è da essergli immensamente grati.