Uno degli aspetti positivi della massificazione del mercato e dell’allargamento del bacino di pubblico è rappresentato dal fiorire di piccoli sviluppatori indipendenti, che spesso riescono ad arrivare alla pubblicazione dei loro progetti tramite strade diverse (Kickstarter, fondi statali, grossi publisher) e riescono a ritagliarsi una fetta di mercato a seconda della bontà del loro lavoro.
Sebbene ci sarebbe molto da discutere sull’opportunità di lanciare il proprio titolo in uno dei periodi migliori da quando l’attuale generazione di console si è affacciata sul mercato, con il rischio di passare quasi inosservati, il team canadese Parabole propone al grande pubblico, dopo oltre un anno di early access su Steam, Kona, primo di una serie di giochi che condivideranno l’ambientazione e le tematiche.
Lo abbiamo giocato nella sua versione PS4, e quello che segue è il racconto del nostro viaggio tra le inquietanti nevi del Quebec.
Back to ’70s
Kona mette i giocatori nei panni di Carl Faubert, un investigatore privato che nell’autunno del 1970 si reca con il suo pick-up Chevrolet nel cuore del Quebec, la parte più settentrionale del Canada, per incontrare il suo datore di lavoro, il ricco industriale William Hamilton.
Quest’ultimo ha ingaggiato Faubert per indagare su una serie di strani atti vandalici perpetrati contro la sua tenuta di caccia, situata a nord di un piccolo villaggio sulle rive del lago Atamipek: l’incontro è fissato all’emporio del paese, unico esercizio commerciale in zona e punto di ritrovo per la popolazione locale.
Chilometro dopo chilometro, il paesaggio si fa però sempre più glaciale ed inospitale, e, nonostante il gioco sia ambientato ad ottobre, le condizioni meteorologiche sembrano quelle tipiche dei periodi più freddi dei lunghissimi inverni canadesi, tanto da prendere Carl alla sprovvista, visto che non ha portato con sé un cappotto.
L’accoglienza che il villaggio riserva a Carl al suo arrivo, però, non è delle migliori: una vettura procede in maniera spedita nella direzione opposta, il ghiaccio fa perdere il controllo al conducente…e l’incidente è servito: il nostro si risveglia dopo ore sul suo clacson, ferito non gravemente, ma non trova nessuno nella vettura abbandonata a pochi metri di distanza.
E non c’è nessuno nemmeno al suo arrivo all’emporio, ad eccezione di un cadavere, che lo guarda con occhi vitrei appena varcata la soglia…
Dilungarsi ulteriormente vorrebbe dire togliere al giocatore il piacere di vivere in prima persona il mistero dietro la vicenda, e sarebbe un delitto doppio perché l’intero comparto narrativo, pur poggiando solamente sulla voce di un narratore onnisciente e su una efficiente narrativa ambientale, rappresenta sicuramente il versante più riuscito della produzione.
Il team di sviluppo ha lavorato duramente per dare alla scrittura un sapore genuino, che racchiudesse tanto numerosi riferimenti alla cultura e al modo di vivere locale quanto messaggi universali, che possono essere recepiti da ogni tipo di pubblico, grazie anche ad una sottotitolazione italiana di sorprendente qualità, che non disdegna giochi di parole e anche qualche finezza linguistica.
Se avete amato titoli come Firewatch (cui il team di sviluppo è evidentemente debitore), apprezzerete tanto la gelida ambientazione quanto il dosato miscuglio di elementi investigativi e soprannaturali: il potenziale per dare vita ad una serie di giochi di grande impatto narrativo c’è tutto.
In particolare, gli sceneggiatori si dimostrano bravissimi nel veicolare le sensazioni di solitudine e di inquietudine che derivano dal non incontrare anima viva (con una sola, e per nulla amichevole, eccezione) e dal non sapere che fine abbiano fatto tutti gli abitanti delle numerose abitazioni vuote nelle quali sarà possibile ficcare il naso.
Peccato, allora, che il finale lasci un po’ di amaro in bocca: Kona eccelle nel creare il climax che porta alle sequenze conclusive, per poi scivolare su una buccia di banana proprio sul più bello, con un epilogo affrettato e poco soddisfacente.
Jack of all trades
Probabilmente spaventati dalle numerose critiche che una parte di pubblico riserva ai cosiddetti “walking simulator”, o nel tentativo di diversificare la loro creatura da prodotti all’apparenza affini come il già citato Firewatch, Everybody’s Gone to the Rapture o Gone Home, i ragazzi di Parabole hanno inserito elementi survival e finanche brevi sezioni di combattimento all’interno della loro storia.
Questa mossa, a nostro avviso, genera tanto effetti positivi quanto altri negativi, diversificando, da un lato, l’offerta ludica ma finendo anche col non soddisfare pienamente in nessuno dei campi esplorati: in più momenti durante le nostre ore di test siamo stati quasi disturbati da certe dinamiche, che hanno interrotto ciò che Kona dimostra di saper fare meglio, ovvero raccontare una storia con l’aiuto determinante del giocatore, del quale vengono valorizzati l’intuito e la capacità di osservazione.
Gli elementi survival del titolo si esplicitano prevalentemente tramite i tre indicatori costantemente a schermo, ovvero quello della salute, quello della temperatura corporea e quello dello stress, peraltro collegati tra loro, visto che l’abbassamento eccessivo di uno dei tre ha effetti negativi anche su uno degli altri (quando non entrambi).
Se l’idea, sulla carta, è buona, la realizzazione si dimostra poco coraggiosa, com’era anche naturale che fosse visto che Kona è primariamente un titolo basato sulla narrativa e sull’investigazione: per rimpinguare l’indicatore della salute basterà cibarsi o assumere kit di pronto soccorso, per scaldarsi sarà sufficiente accendere un fuoco (che funge anche da save point) e per diminuire lo stress è possibile fumare una sigaretta, bere dell’acqua, riscaldarsi o prendere degli antidolorifici.
Sin dalle primissime battute dell’avventura, il giocatore più coscienzioso nel curiosare all’interno delle ambientazioni sarà letteralmente inondato di oggetti, che non lo faranno mai sentire davvero in pericolo durante i suoi viaggi in riva al lago Atamipek; le stesse bufere di neve, molto ben rese, possono essere affrontate portandosi dietro l’occorrente per accendere un fuoco in natura o procurandosi, già nelle prime battute dell’avventura, un cappotto invernale, che l’unico NPC presente scambierà con una buona bottiglia di liquore.
Allo stesso modo, gli sporadici (ed evitabili) combattimenti contro i lupi, gli unici a minacciare davvero l’integrità di Carl, sono lenti e poco entusiasmanti, senza una fisica dei colpi che li sorregga, senza sangue e senza animazioni dedicate.
Quando, invece, Kona si limita a fare ciò per cui era stato originariamente pensato, riserva al giocatore sezioni molto godibili, divise tra esplorazione, lettura di documenti che aiutano a ricostruire le piccole storie di una comunità molto più turbolenta di quanto si potesse immaginare e risoluzione di puzzle intelligenti, talvolta anche impegnativi, ma mai eccessivamente proibitivi.
Al giocatore viene peraltro lasciata libertà di esplorare a piacimento, senza imporgli un ordine prestabilito degli eventi ma vincolandolo solamente in prossimità di determinate svolte legate alla trama principale, le cui condizioni è necessario soddisfare per progredire.
Ogni progresso è racchiuso nel diario, scritto in italiano ed utilissimo nel direzionare le indagini senza prendere troppo per mano il giocatore, ed accompagnato da una voce narrante calda e spiritosa, che a tratti ci ha ricordato l’ineffabile narratore onnisciente di The Stanley Parable.
Al termine della nostra run, che si è chiusa, purtroppo, con un finale poco soddisfacente ed un po’ affrettato, sebbene ricco di pathos, sapevamo molti più dettagli della piccola comunità lacustre di quanti ce ne servissero effettivamente per portare a termine il gioco, e questo è indice del piacere provato nel frugare tra le cose altrui, nel cogliere brandelli di storie, nel fare le pulci alle vite di personaggi ben delineati.
Qualche alto e tanti bassi
L’aspetto tecnico, anche se c’era da aspettarselo visto il budget e le dimensioni del team di sviluppo, rappresenta la parte più debole dell’offerta di Kona, quantomeno nella versione PS4 da noi testata: ad un colpo d’occhio gradevole, che fotografa benissimo le fredde lande del Quebec, fanno da contraltare animazioni legnose, esplosioni che fanno molto prima ondata di giochi PS2 e una mole poligonale decisamente ridotta che mortifica la buona direzione artistica, che sarebbe altrimenti riuscita a rendere perfettamente l’approssimazione e l’essenzialità di un villaggio sperduto in mezzo al nulla.
Estremamente inelegante, poi, viste le scarse pretese grafiche del titolo, il fatto che il motore di gioco stoppi l’azione di quando in quando (soprattutto durante i viaggi nel nostro fido pick-up) per caricare aree della mappa nelle quali stiamo entrando, con un’attesa che varia dai cinque agli otto secondi, a seconda di quale supporto di memoria abbiate scelto per memorizzare il gioco (ovviamente sull’hard disk interno di PS4 le cose vanno meglio).
Non aiutano, in ultimo, una serie di piccoli glitch ed imperfezioni che siamo sicuri il team di sviluppo sistemerà con una rapida patch: certi oggetti (nel nostro caso anche uno fondamentale per progredire con la trama) non mostrano l’icona di interazione se non perfettamente centrati, con dinamiche da pixel hunting che ci hanno ricordato i peggiori momenti delle avventure anni ’90, e che su console, senza un mouse, possono nuocere all’esperienza di gioco.
C’è però anche un’ancora di salvezza in mezzo a tanta mediocrità: la colonna sonora.
Firmata dal gruppo folk canadese CureLabel (che io stesso non conoscevo e che sono prontamente andato a recuperare), consta di soli cinque o sei motivi in tutto, ma così belli e così adatti all’atmosfera generale da essere capaci, da soli, di aumentare a dismisura l’immersione nel mondo di gioco e generare, a seconda della situazione, sensazioni di angoscia, fiducia e smarrimento.
Per quanto la durata sia molto relativa in titoli del genere, per completezza citiamo che una run può richiedere da un minimo di cinque ore ad un massimo di anche otto, a seconda della curiosità e della voglia del giocatore di cercare, rivoltare, “ficcanasare”.
– Ambientazione ansiogena
– Narrativa ben congegnata
– Stimola le capacità deduttive del giocatore
– Cerca di fare troppo in modo generico
– Comparto tecnico decisamente essenziale
– Finale affrettato
Tra qualche peccato di gioventù e una realizzazione tecnica balbettante, Kona nasconde un’insospettabile esperienza investigativa, che metterà il giocatore nelle condizioni di rovistare nel passato e nel presente di un’intera comunità, di rinvenire prove ed indizi e di unire i puntini, fino a sciogliere i misteri di questo angolo sperduto del Quebec.
Se gli elementi survival, appena accennati, lasciano il tempo che trovano, la narrativa che sottende all’esperienza di gioco è coinvolgente, così come lo sono il modo in cui questa viene esposta e l’ambientazione, che speriamo vivamente di rivivere nei prossimi giochi della serie, già annunciati.
Imperfetto e un po’ acerbo, Kona rimane comunque consigliato per gli amanti dello storytelling di qualità e per quanti sono cresciuti con le avventure punta e clicca di qualche decennio fa.