Recensione

Homeworld: Deserts of Kharak

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a cura di Pregianza

Per un appassionato di strategia Homeworld è un nome sacro, uno di quelli che non andrebbero mai toccati, per non rischiare di incrinare un marchio che nel genere è messo da alcuni giocatori sullo stesso piano dei capolavori più noti. 
Eppure un seguito lo vorrebbero un po’ tutti. Vuoi perché ormai manca da anni, vuoi perché di rts di alto livello dotati di movimento davvero tridimensionale non se ne vedon più da un’eternità.
Ora, dopo eoni, le cose hanno cominciato finalmente a muoversi: i Gearbox hanno acquistato i diritti della serie grazie al crollo di THQ, e dopo aver recuperato gli asset necessari han fatto spuntare una Remastered Collection di tutto rispetto, che ha riaperto le ghiandole salivari di un sacco di appassionati. E adesso, finalmente, esce un nuovo capitolo della serie ad opera dei Blackbird Interactive, uno studio di sviluppo composto in larga parte da ex Relic che hanno avuto a che fare con lo sviluppo degli originali.
La tensione era alle stelle, in larga parte per la storia recente non proprio cristallina di Gearbox e parzialmente per l’ambientazione più classica, nata anche dal fatto che inizialmente il titolo doveva chiamarsi Shipbreakers ed essere solo un successore “spirituale”. E invece si è trasformato in una collaborazione diretta tra le due software house, e in un prequel al primo Homeworld, ambientato sul pianeta Kharak da cui tutto ha avuto origine. Il risultato? Ottimo e abbondante, nonostante alcuni significativi cambiamenti.
Zona calda
Se avete giocato ai capitoli principali, saprete già più o meno dove va a parare la trama di Deserts of Kharak. Come detto, è un prequel, ambientato un secolo prima degli eventi di Homeworld su un pianeta sabbioso diviso dalla guerra tra clan. Voi prenderete il comando dei popoli del nord, impegnati in un conflitto su larga scala causato della scoperta di un misterioso oggetto, l’Anomalia Primaria, scoperto da un satellite al centro del deserto. L’artefatto potrebbe essere la chiave per la sopravvivenza della popolazione di Kharak, un luogo ormai quasi completamente desertico e privo di risorse, ma il popolo dei Gaalsien, estremamente religioso e convinto che una fuga nello spazio sarebbe sacrilegio per la propria divinità, non ha la minima intenzione di far arrivare la vostra armata a destinazione. 
Come detto, i veterani della serie sanno già cosa si trova al centro del deserto, e per loro questo sarà solo un dettagliato resoconto di come gli abitanti del pianeta Kharak vi sono arrivati. La storia, tuttavia, funziona comunque benone, poiché non manca di strizzare l’occhio ai giocatori con continui rimandi al passato (come il nome della protagonista femminile, Rachel S’Jet) e scorre con grazia, narrata da cutscene di gran classe disegnate e animate con molta cura. Insomma, Deserts of Kharak mantiene la forte componente narrativa degli Homeworld originali nonostante una semplificazione generale della trama, un fattore che non andava assolutamente trascurato e siamo lieti di aver potuto confermare. A cambiare, seppur meno del previsto, è stato il gameplay.
Il mutamento principale, dopotutto, è evidentissimo fin dai primissimi secondi: non siamo nello spazio. Deserts of Kharak è ambientato su un pianeta, nel deserto, senza movimento libero in tre dimensioni, e con meccaniche di spostamento delle unità nettamente più vicine a quelle di altri strategici. Eppure la sua struttura è vicinissima a quella degli Homeworld spaziali, per una serie di interessanti trovate nella gestione del terreno e di un riciclo di alcune delle meccaniche più riuscite della serie.
Le dune, ad esempio, portano le unità ad avere vantaggi sensibili in combattimento. Da una posizione sopraelevata le unità sono più precise e fanno danni maggiori, mentre un rialzo potrebbe letteralmente bloccare la linea di tiro di certe truppe. Gli spostamenti sono meno complessi dunque, ma in generale il feeling è molto simile, con pattern delle unità che ricordano i movimenti delle navi, e una struttura delle armate diversificata ma non in modo eccessivamente complesso. C’è chiaramente la microgestione delle unità ma, essendo gli spostamenti lentini e le abilità attive relativamente poche e semplici da attivare, è chiaro che il fulcro sta ancora una volta nella gestione dell’insieme, e in particolare ci si concentra parecchio sul recupero delle scarse risorse sparse per le mappe (da recuperare a volte con vere e proprie “demolizioni” di relitti antichi). D’altronde è stato mantenuto anche il sistema di “sopravvivenza” delle truppe, con la propria armata che si mantiene la stessa di missione in missione. Questa scelta ragionata alza enormemente la tensione durante le battaglie, visto che una vittoria di Pirro porterebbe ad avere enormi difficoltà nella mappa successiva.
Odissea nella sabbia
Anche a livello di interfaccia le similarità al recente Remaster sono evidenti, così come è rimasta la base della “nave madre” per la produzione delle unità, qui sostituita da una sorta di portaerei con le ruote a cui sono affidate anche le scoperte ingegneristiche e la raccolta di materiali tramite unità di lavoro. 
La campagna, però, è sensibilmente diversa da quella degli originali, perché con la nuova location sono arrivate anche situazioni più limitate e pericolose, dovute a zone non percorribili dal nostro quartier generale mobile o a situazioni di attacco da più lati dove ci si può ritrovare praticamente circondati. È un gioco più teso in parole povere, non altrettanto innovativo, ma indubbiamente in grado di dire la sua in un genere sempre più desertificato come quello degli rts. 
Molto piacevoli anche le sottili differenze che si notano quando si controlla la razza dei Gaalsien, dotati di unità più mobili e con variazioni marginali ma percettibili. Gli avversari sono utilizzabili solo in schermaglia o online, modalità dove l’offerta non è propriamente elevatissima, eppure l’interesse resta piuttosto elevato, poiché anche con due sole fazioni simili la modalità “recupero artefatti” si è rivelata originale e divertente quel tanto che basta a giustificare un po’ di partitelle in rete. Sia chiaro, Deserts of Kharak rimane un titolo pensato per il singleplayer, la cosa è piuttosto ovvia.
Persino tecnicamente c’è poco di cui lamentarsi. Ok, Kharak non è esattamente il più vario dei pianeti, ma le sue dune sono di ottima fattura e le mappe si lasciano guardare. Il conteggio poligonale delle unità non è a sua volta molto alto, eppure le animazioni, davvero molto curate, donano gran personalità al tutto, dalle Dune Buggy che gironzolano tra la sabbia agli hover tank dei Gaalsien, senza cadute di stile. Notevoli anche gli effetti particellari delle esplosioni e la transizione istantanea alla mappa tattica, anch’essa ripresa dagli originali e comodissima per avere una visione d’insieme più ampia durante l’azione. I Blackbird Interactive han fatto davvero un ottimo lavoro.
Discreta infine la longevità. La campagna non è titanica, ma vi terrà occupati per 7-8 ore, specialmente se la affrontate alla difficoltà massima. 

– Campagna pregevole e ben strutturata, con forte componente narrativa

– Sistema di controllo vicino a quello degli Homeworld originali, nonostante il cambio di setting

– Ha stile ed è graficamente piacevole

– Poche fazioni e modalità limitano l’appeal del multiplayer

– La campagna non è particolarmente longeva, né all’altezza dei quelle originali

8.0

Deserts of Kharak non ha la carica innovativa degli Homeworld originali, né raggiunge il culmine degli rts, ma resta indubbiamente un prodotto di qualità elevata, perfettamente in grado di intrattenere fan della serie e non, e capace di farci venire ancor più voglia di un seguito diretto. Il lato positivo è che ora questa chance è concreta, perché il titolo dei Blackbird è indubbiamente un ottimo primo passo per un roseo futuro.

Voto Recensione di Homeworld: Deserts of Kharak - Recensione


8

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