Recensione

Dragon Quest VI

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a cura di Gianluca Arena

Senior Editor

Vale la pena aspettare quasi sedici anni per giocare un titolo senza dover imparare da zero una lingua nuova e ostica (sebbene affascinante) come il giapponese? Ai posteri l’ardua sentenza. Ma quel manipolo di appassionati che aspettava da tre lustri di poter mettere le mani su Dragon Quest VI, ultimo capitolo della saga Enix, avrà gioito all’annuncio di una release occidentale di un remake per DS (e quale console, se no) di questo gioco, originariamente uscito in quella che è universalmente riconosciuta come l’epoca d’oro dei JRPG, ovvero la generazione a 16 bit. Andiamo a vedere nel dettaglio com’è invecchiato questo Dragon Quest VI.

Nel mondo dei sogniOgni cappello introduttivo, se non avete vissuto sotto una campana di vetro negli ultimi venticinque anni, è superfluo: Dragon Quest è una delle saghe fondanti del genere JRPG, una di quelle che meno si è piegata, nel tempo, ai gusti dei consumatori e alle tendenze del mercato (Final Fantasy, questa era per te!) e che, incurante dei pochi passi avanti fatti dai giochi di ruolo negli ultimi decenni, continua a riproporsi quasi uguale a se stessa nel tempo, mietendo ogni volta, quando più, quando meno, un successo di critica e soprattutto di pubblico entusiasmanti. Dopo i fuochi d’artificio del nono episodio, che ha saputo meritarsi un 8,6 sulle pagine di SpazioGames, Square Enix fa un passo indietro, proponendo al mondo un remake del sesto capitolo uscito su Super Famicom, e relegato ai soli confini nipponici fino al lancio europeo di oggi. Nulla è mutato, a livello di trama, da allora: sebbene la barriera linguistica e i tanti anni intercorsi potrebbero trarci in inganno, i personaggi ed il background narrativo sono stati approfonditi, ampliati, arricchiti, ma non stravolti. I viaggi tra due mondi, quello reale e quello del sogno, un eroe dai capelli blu e dalla spada pronta, un regno da salvare da un malvagio illusionista: gli ingredienti di quel successo ci sono tutti. I primi istanti di gioco richiamano subito al sogno, alla sua importanza nell’economia della storia ed inaspettatamente conducono, nel giro di un paio di schermate, ad un primo, e ovviamente non risolutivo, confronto con il nemico. Il copione che regge Dragon Quest VI è l’elemento che, più di ogni altro, svela le origini del gioco e la sua età, ma questo va letto come un complimento e non come un’offesa: a fronte della pochezza e della standardizzazione dell’offerta nel genere, la storyline principale risulterà ingenua, sognante, scritta senza paura di percorrere strade sin troppo affollate. All’epoca, la possibilità di viaggiare tra due mondi e il buon numero di personaggi reclutabili, il cui apporto modificava sensibilmente anche l’arco narrativo del gioco, fecero gridare al miracolo. Oggi stupiscono meno, ma si è portati ad essere indulgenti con un gioco che potrebbe sedersi in cattedra e tenere una lezione a parecchi prodotti recentemente usciti, per caratterizzazione dei personaggi, monster design e longevità.

Evolversi senza muovere un ditoDragon Quest ha tenuto a lungo testa alla saga ruolistica principe di Square, almeno se limitiamo la nostra analisi al Giappone, per il suo rimanere fedele a sè stessa, alle meccaniche che l’hanno resa grande e immediatamente riconoscibile, dote che, varcati i confini nipponici, si è fatalmente tramutata in un punto debole, perché il gusto occidentale in fatto di giochi di ruolo è radicalmente diverso e tende a privilegiare il fattore novità. Non è un caso che il nono capitolo abbia venduto, in proporzione, meglio in Europa e Stati Uniti di quanto pure non avesse fatto nel paese del Sol Levante: è quello che ha segnato il punto di svolta, che si è aperto al multiplayer e ad una certa modernizzazione dei contenuti. In questo titolo, fatta eccezione per una giocabilità altrettanto invitante, non vi sarà traccia di nulla di ciò: l’enfasi sarà nuovamente posta sui combattimenti, rigorosamente casuali e frequenti ai limiti della legalità, soprattutto durante la seconda parte del gioco, e il ritmo dungeon – città – dungeon tornerà a scandire il peregrinare del nostro party. Non abbiamo usato a caso il verbo peregrinare: come nell’ottavo episodio, la carovana rivestirà un ruolo fondamentale, sia perché gli sviluppatori hanno deciso di lasciare molta libertà esplorativa al giocatore, che corre anzi il rischio di perdersi nei due mondi di gioco, sia perché, dialogando con i gli altri membri del nostro party, potremo leggere tra le righe una dritta su dove dirigerci per progredire nella trama. Il giocatore più moderno, abituato ad essere portato per mano da giochi di ruolo assai indulgenti e logorroici, si troverà non di rado spaesato, senza una direzione precisa nella quale rivolgersi, se non presterà attenzione ai dialoghi con i personaggi non giocanti ed alla piega che la storia prenderà con il passare delle ore. Gli stessi combattimenti casuali si prefigurano più come una necessità che come una scocciatura: merito di un job system parente stretto di quello ammirato nell’eccellente terzo capitolo, che comprende la bellezza di 16 classi diverse (più due sbloccabili) e consente una personalizzazione del party virtualmente infinita. Comporre un quartetto formato da un mago che all’occorrenza sa anche menar le mani, un guerriero che non disdegna le arti curative, un esperto di arti marziali che padroneggia la magia nera e un saggio che brandisce una lancia non è fantascienza in Dragon Quest VI: cambiando classe ai personaggi, infatti, questi manterranno tutte le abilità già acquisite, dando vita a dei crossover che, seppure improbabili, rendono ogni party unico, e consentono al giocatore di arrivare al traguardo finale scegliendo la strada che predilige. Questo anche grazie ad un gran numero di quest secondarie disponibili nella trentina di villaggi che incontreremo sul cammino, alla possibilità di arruolare mostri tra le nostre fila (dai classici slime della serie fino a lucertoloni stupidi, ma tremendamente potenti) e ad una varietà incredibile di armi ed equipaggiamenti. Nella sua estrema classicità, l’ultima fatica Square Enix riesce nell’intento di offrire un’esperienza di gioco appagante, solida, old style nel senso migliore dell’accezione.

Arte in PiazzaCome già successo in occasione delle due precedenti iterazioni sulla sua piccola grande console portatile, Nintendo ha affidato lo sviluppo ai ragazzi di ArtePiazza, autori, anche stavolta, di un ottimo lavoro: la presentazione a due schermi è colorata, avvolgente, coniuga con classe elementi bidimensionali e tridimensionali, a formare dei piccoli quadri pastello in continuo movimento, che rendono giustizia allo splendore visivo che accompagnò l’uscita del titolo originale su Super Famicom. La cosmesi di Dragon Quest VI sta alle ultime produzioni poligonali come un’auto d’epoca, con la sua linea elegante e d’altri tempi, starebbe alla più recente delle berline: il paragone è improponibile, e la diversità non implica necessariamente un giudizio di valore. La grafica del gioco che ci troviamo tra le mani è perfetta per il suo scopo, e siamo sicuri che delizierà gli occhi dei fan della serie, mai sazi, nonostante una certa sovraesposizione mediatica dovuta più che altro alla serie di Dragon Ball, del tratto del maestro Toriyama. Discorso virtualmente identico per i motivi che accompagneranno il giocatore lungo le oltre 50 ore di gioco necessarie al completamento del filone principale della storia: di certo i deboli speaker del DS hanno riprodotto di meglio, e pensiamo, così su due piedi, alle melodie di Chrono Trigger (non a caso altro remake dell’epoca) o alla fantastica colonna sonora di The World Ends With You, ma crediamo che la nutrita schiera di appassionati si accontenterà dello storico main theme e di note mai sopra le righe, quasi ossequiose nei confronti di una saga tanto carismatica. Ci permettiamo di bollare come superato, anche in considerazione della natura portatile della console ospite, solo il sistema di salvataggio, delegato ancora alle chiese, che in alcuni frangenti costringe l’utente a non poter salvare i propri progressi prima di un’oretta o più, un lasso di tempo decisamente troppo lungo in caso di spostamenti veloci o di batteria scarica.

– Due mondi da esplorare

– L’ultimo capitolo della saga inedito in Occidente sui vostri schermi

– Sistema di combattimento profondo

– Buon remake a livello tecnico

– Salvataggi scomodi

– Incontri casuali

8.2

Non crediamo che sia l’aver vissuto l’epoca d’oro dei 16 bit e dei JRPG a spingerci a promuovere a pieni voti l’approdo dell’ultimo Dragon Quest sul glorioso DS: anche valutato con i canoni odierni, che poi non differiscono molto da quelli di allora vista la stagnazione del genere di riferimento: il prodotto Square Enix supera a pieni voti tanto l’esame giocabilità, grazie ad un combat system snello e flessibile, quanto quello longevità, considerando che, dedicandosi ad alcune delle quest opzionali non si faticherà a raggiungere le 70 ore complessive di gioco.

Certo, la grande quantità di combattimenti da sostenere, perlopiù casuali, ed un sistema di salvataggio non propriamente dei più comodi, come il fatto che il titolo non conduca per mano il giocatore come sembra ormai essere prassi comune, potrebbero costituire un deterrente all’acquisto per chi è cresciuto con altri standard, ma d’altronde, a parte la parentesi costituita da Sentinelle del Cielo, questo è quello che questa storica serie ha sempre proposto.

Prendere o lasciare.

Voto Recensione di Dragon Quest VI - Recensione


8.2

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