Ogni anno come un orologio svizzero, cascasse il mondo, non può mancare all’appuntamento delle uscite novembrine il grande classico degli sparatutto moderni: ovviamente stiamo parlando dell’inossidabile Call of Duty. Non sto nemmeno a contare il numero di iterazioni che ci hanno accompagnato dal primo, oramai lontano, capitolo della serie e ci hanno condotto qui, nel 2016, a giocare Infinite Warfare targato Infinity Ward. Sembra ovvio intuirlo, l’obiettivo è sempre stato quello di cercare di raccontare la guerriglia ogni volta in maniera diversa, secondo declinazioni temporali differenti. Il tempo è quindi il cardine che ha scandito questa divisione, tra la guerriglia storica, moderna e futura. Non è la prima volta che, nella serie, si getta uno sguardo avanti per ipotizzare cosa ne sarà dei combattimenti e delle armi nei prossimi anni. Il futuro lascia margini di manovra notevoli dal momento in cui, in casa Activision, si è deciso di bloccare gunplay e motore di gioco, per evolversi più nella forma che nelle meccaniche, luogo dove tutto ciò che era stato reputato vincente nei precedenti capitoli non poteva andare a perdersi. Il risultato sono anni di giochi, che continuano a cambiare, ma che in realtà non sono poi così diversi; il cuore rimane quando tutto il resto attorno si adatta alle richieste del mercato. In fin dei conti quando giochiamo a Call of Duty cerchiamo un divertimento immediato, facile, ma che possa costantemente trovare il modo di tenerci, volenti e nolenti, attaccati allo schermo. Siamo dunque volati a Londra per una full immersion nel gioco, con un contatore di ore su tre giorni di evento da far rabbrividire chiunque, ma che finalmente è riuscita a dirci tutto quello che volevamo sapere sul gioco.
La campagna:
Partiamo dall’elemento meno importante del gioco, ma ancora il primo sull’elenco dei menù di questo Call of Duty: stiamo parlando della campagna. Certo, chi gioca a questo genere di sparatutto non lo fa per il single-player, e su quello non ci piove. Quello che però è inevitabile considerare è che qualche ora di divertimento in più, guidata da una narrativa coinvolgente e ritmata, è un’incredibile ventata di aria fresca per i veterani e una simpatica introduzione per i neofiti.
Da ben più di qualche anno, gli studi di Activision hanno cercato di proporre una struttura della campagna, che desse un maggiore grado di rigiocabilità al titolo e delle diramazioni durante lo svolgersi degli eventi in grado di prolungare il tempo necessario a portare a termine questa modalità. La struttura si è oramai diffusa e consolidata tra i vari team di sviluppo, che con cadenza triennale si alternano al comando dei titoli del franchise, quest’anno in mano a Infinity Ward.
La storia di Call of Duty Infinite Warfare ci colloca in un futuro in cui gli abitanti delle colonie del Sistema Solare hanno deciso che è giunto il momento di riunirsi sotto l’unica bandiera degli SDF (Settlement Defense Front) e combattere per l’indipendenza da coloro che, stando sulla terra, hanno goduto da sempre di maggiori privilegi. In quello che avrebbe dovuto essere il giorno più patriottico dell’anno, con la parata delle forze armate a Ginevra, parte quindi l’attacco, con un’invasione degna di tal nome. Per fortuna il Capitano Reyes assieme alla sua squadra riesce a fuggire e a tornare all’unica nave operativa rimasta: la Retribution. Il resto della storia, così come l’incipit, cita e richiama molti altri film futuristici che chi ama la cultura pop moderna non può fare a meno di notarlo. Tutto poi filerà via liscio in circa sei ore, con una storia che, per quanto mai sia stata in grado di esaltarci particolarmente, verso il finale, un po’ di frizzantezza in più nello svolgersi degli eventi l’ha resa di certo più godibile. Fanno la loro comparsa Hamilton, con un cameo che non si comprende appieno, ma che perlomeno riesce a strappare un sorriso a più riprese per la stranezza della situazione, e un non pienamente convincente Kit Harrington (Jon Snow, per capirsi) nella parte del cattivo, che all’atto pratico rimane di poco impatto se non solamente un pretesto per farci correre a destra e a manca a combattere. Ovviamente script e corridoi sono all’ordine del giorno nel design dei livelli; non ci aspettavamo niente di diverso e onestamente non abbiamo nemmeno sentito la mancanza di una particolare innovazione, data la tradizione che la serie si porta dietro da tempo.
Ad orchestrare il tutto saremo noi, una volta diventati comandanti della Retribution, dal ponte di comando. Una volta infatti terminata la prima parte della campagna, avremo accesso all’hub delle missioni, primarie e secondarie. Le prime ci porteranno avanti nella storia, mentre le seconde ci faranno sbloccare dei trofei e saranno a loro volta di due tipi: Ship Assault e Jackal Assault. La prima prevede una sezione a bordo del jackal, una sullo scafo dell’incrociatore nemico a zero-g e infine una a piedi all’interno della nave. L’ordine delle tre sezioni è vario così che l’una non sia direttamente identica all’altra. La seconda invece è composta dalla sola sezione a bordo del Jackal con obiettivi sempre differenti, ma che rientrano tutti nel “distruggi una serie di navi”. Inutile dire che sono divertenti, ma sia per il numero (9 in totale) che per la durata (10 min ciascuna) non possono certo considerarsi delle alternative in grado di stravolgere il giudizio sulla campagna.
E’ chiaro come queste siano state fatte per apprezzare un po’ di più le reali novità al gameplay, che sono il dogfighting a bordo del Jackal e le passeggiate in Zero-G. Infatti queste non vedranno la luce nel multiplayer, che come diremo dopo è forse l’elemento che ha dimostrato meno coraggio nella spinta innovativa del titolo.
Per fortuna, a sollevare le sorti della campagna e offrire qualcosa di realmente innovativo c’è una difficoltà che si sbloccherà al termine dei titoli di coda dal nome specialista, a cui poi seguirà la sua versione ancora più impegnativa dal nome YOLO (You Only Live Once, quindi con l’aggiunta del permadeath). In pratica riinizieremo il gioco, anche se in realtà sarà come affrontare una battaglia totalmente diversa. Non ci sarà la rigenerazione della vita, ma saranno presenti i medikit, ogni colpo subito andrà a danneggiare in maniera diversa il giocatore impedendogli di compiere azioni con gli oggetti equipaggiati. Un proiettile sull’arma ce la farà scappare via dalle mani e dovremo recuperarla con un QTE, una ferita sulla mano sinistra non ci renderà possibile usare l’equipaggiamento tattico e così via. Tutta una serie di aggiunte che, riadattate ad una difficoltà inferiore e innestate nel gameplay, avrebbero potuto imporre una rivoluzione nel mondo degli sparatutto, che anche questa volta purtroppo non ci sarà.
Cercando di fare una valutazione riassuntiva della campagna, si può dire che essa sia senza lode e senza infamia. Piuttosto lineare nella narrazione, i cui unici bivi sono dovuti alla scelta o meno di missioni secondarie che comunque non andranno a impattare sulla qualità generale della storia. Zero-G, Jackal e Specialista sono le tre novità che avrebbero potuto dare la giusta spinta al titolo, ma la scarsa fiducia degli sviluppatori le ha fatte relegare ad elementi marginali e di contorno: divertenti dunque, ma che passano quasi inosservate a coloro che giocheranno a Call of Duty con lo stesso atteggiamento di sempre.
Multiplayer:
Passiamo a scrivere della componente più importante di Call of Duty, ovvero il multiplayer.
E’ fin da subito necessario avvertire il giocatore che l’ambiente della recensione era controllato e non ci sono stati problemi tecnici di rete, che potrebbero invece presentarsi una volta lanciato il gioco sul mercato. Cercheremo quindi di concentrarci sui contenuti e sulle modalità, lasciando a futuri approfondimenti questo tipo di questioni.
Il trend degli ultimi tempi ci conferma quanto, in termine di engagement, un titolo online che possa tenere incollato il giocatore per molte ore, sia decisamente preferibile rispetto ad uno single-player. D’accordo o no, la stragrande maggioranza delle produzioni ibride ha deciso quindi di buttarsi molto di più su questa strada, tralasciando o comunque mettendo in secondo piano l’altra. Quest’anno Call of Duty arriva con la solita modalità multiplayer competitiva, abbinata in maniera sempre più consueta a quella cooperativa, stavolta sottoforma di Zombies in Spaceland. Partiamo però dalla prima. Come con gli specialisti del precedente capitolo, anche qui avremo a che fare con delle classi dedicate ai vari combattenti, queste si chiamano Rigs e definiscono delle caratteristiche basilari di ciascun personaggio. Nella nostra prova siamo riusciti a vestire i panni del Warfighter, la classe più bilanciata fra la sei e quella più comoda per gestire gli scontri a media distanza, del Merc, più resistente e perfetto per sostenere l’avanzata della squadra dalla prima linea, del Synaptic, votato al melee e al combattimento a corto raggio, e solo per una o due partite del FTL, una classe rapida in grado di eseguire spostamenti alla velocità della luce e quindi di sorprendere i nemici arrivando da corta distanza. Non aspettatevi, come già avete potuto vedere dalla beta, un modo di giocare completamente diverso a seconda di quella scelta, il loadout infatti è indipendente da tutto quanto. Cambiano il payload o “arsenale” in italiano, che è da scegliere tra tre ed è un’abilità attivabile una volta riempita la corrispettiva barra, e gli attributi, sempre da scegliere tra tre e rappresentanti dei perk passivi del personaggio. Le bocche da fuoco, per quanto varie e ben studiate, sono davvero poche e purtroppo si finirà come al solito ad utilizzare quelle tre o quattro che ci permettono di destreggiarci sia negli scontri a breve distanza sia in quelli a lunga. Le mappe tendono ad essere molto chiuse e concentrano gli scontri in aree precise, così da rendere sempre frenetico e immediato il combattimento. In questo modo vengono premiati maggiormente i riflessi del giocatore più rapido, piuttosto che l’abilità di un altro nello studio delle mappe. Quelle che abbiamo avuto modo di affrontare, presentano le stesse possibilità di movimento che abbiamo conosciuto dalle EXO in poi, due o tre lane, wallrun ai lati della mappa e solitamente due piani verticali di sviluppo. Mantenendo così le dinamiche degli scontri, è impossibile pensare ad un cambiamento della struttura delle mappe, che per il momento (variazioni a parte) può dirsi aver raggiunto lo stato dell’arte. Si percepisce chiaramente in questo ennesimo Call of Duty come l’interesse principale sia rivolto proprio agli e-sports: la velocità degli scontri è come al solito impressionante, e il time-to-kill è ridotto agli sgoccioli, come a voler spingere ad un continuo miglioramento del giocatore, tentativo dopo tentativo.
Tutto pur non essendo da denotare come un problema, in quanto reazione naturale allo sviluppo della scena competitiva degli sparatutto, favorisce solo un particolare tipo di utenza, ma senza dubbio allontana sia il giocatore casual, che quello che apprezzerebbe uno shooting più ragionato.
La struttura a livelli, standard per la serie, viene mantenuta anche in questo capitolo; ogni arma viene sbloccata ad un certo livello e ciascuna ha degli equipaggiamenti anch’essi ottenibili una volta raggiunto un suo determinato livello.
La grande innovazione che accompagna Infinite Warfare è costituita dal crafting delle armi. Una volta sbloccato un determinato ferro, di questo sarà possibile utilizzare la sua versione comune, rara, leggendaria o epica, a patto di averla costruita con dei pezzi di ricambio o averla trovata nei bauli acquistabili tramite una valuta a forma di chiave. Entrambe le monete di scambio possono essere trovate giocando partite sia in modalità zombie sia in quella multiplayer, ma anche spendendo soldi veri e propri. Questo è forse l’elemento che ci ha fatto più storcere il naso. I potenziamenti delle armi, infatti, sono in grado di fornire dei miglioramenti paragonabili a quelli dell’equipaggiamento aggiuntivo, senza il bisogno di occupare uno slot del loadout destinabile ad altro. Un elemento che di certo non rende bravi i giocatori inesperti, ma a parità di esperienza favorisce decisamente quelli meglio equipaggiati. Si constata comunque che per riuscire ad avere un buon equipaggiamento ci vuole un numero di ore, che i giocatori di Call of Duty passeranno senza dubbio sul titolo, ma un po’ di rammarico per questa scelta rimane comunque. Soprattutto se si va a considerare gente che si approccia al gioco in un secondo tempo rispetto agli altri.
A onor del vero, questa non è una novità nel vero senso della parola, perché la struttura a livelli, anche precedentemente, precludeva l’ottenimento delle armi e dell’equipaggiamento migliori a chi aveva appena iniziato a giocare.
Per ampliare ancora di più questi elementi, passatemi il termine, “GDR” dell’esperienza di Call of Duty sono state aggiunte delle Missioni Squadra. Ci sono ben 4 Squadre in cui entrare, ciascuna prevede degli obiettivi e qualora questi vengano raggiunti, si otterrebbero delle ricompense di diverso tipo, tra cui infine l’arma leggendaria dedicata. Insomma tanti elementi che, se presi in considerazione, allungano certamente la nostra esperienza con il titolo, ma rimangono funzioni a parte, accessorie, come si suol dire. Per quanto riguarda le modalità, segnaliamo che rimane gran parte di quelle classiche (15 per la precisione), più altre due tra cui Defenders è forse la più interessante, ma comunque non particolarmente innovativa dato che consiste in una rivisitazione di Uplink e Cattura la Bandiera, dove al posto di dover segnare in una porta, bisogna mantenere la palla per più tempo possibile nelle proprie mani. Rimane anche stavolta la divisione tra le partite “normali” e quelle dedicate alla GWL, che vedono due team di quattro giocatori sfidarsi nelle stesse discipline che vediamo svolgersi nel corso della World League.
Se dovessimo andare a recuperare la partita più divertente che abbiamo effettuatto, dobbiamo ammettere che l’abbiamo comunque passata in modalità Dominazione nella mappa Frontier, che, data la sua estensione limitata e i suoi corridoi che non lasciavano vie di fuga, ha reso tutto estremamente concitato e caoticamente divertente. Per il resto senza stare a ripercorrere tutta l’esperienza, si può dire che, all’atto pratico, le differenze del gun-play e delle meccaniche di movimento siano davvero minime rispetto l’anno scorso e chi ha giocato molto ai precedenti capitoli potrebbe anche annoiarsi di fronte alla mancata innovazione. E’ un peccato, perché le novità interessanti ci sarebbero anche state pensando alla campagna, ma per una mancanza di coraggio, non sono state inserite nel multiplayer: dogfighting a bordo dei Jackal, così come sezioni in Zero-G, che avrebbero potuto farci staccare un po’ dalle solite modalità e intrattenerci maggiormente.
Modalità Zombie:
Chiamati per un provino, quattro ragazzi vengono convinti dal grandissimo produttore di film horror Willard Wyler, in voga negli anni ’80, a entrare sul set della sua ultima grande opera. Ovviamente una fama così grande non è stata frutto della casualità, ma dell’utilizzo in scena del trucco cinematografico migliore di tutti: la ripresa di scene reali. Dunque quello che doveva essere semplicemente un set, inizia a prendere vita e sarà nostro compito riempire di piombo gli zombie che si parranno di fronte a noi per riuscire a sopravvivere nelle diverse ondate che si susseguiranno. Un parco dei divertimenti pieno di insegne a led, camei inaspettati, easter egg e tanto umorismo è la ricetta che Zombies in Spaceland vuole sfruttare per questa nuova modalità cooperativa. Lo shooting è il solito, con armi sia classiche sia futuristiche, le quali sono comunque perfettamente integrate nella follia del contesto. Abbattendo mostri si ottengono crediti utili ad acquistare nuove armi e sbloccare nuove sezioni della mappa. Oltre a ciò potremo accedere, grazie ai ticket che si ottengono con le attrazioni, ad armi ancora più folli o ad altri consumabili.
Per arricchire le possibilità del gameplay è stato introdotto un ulteriore sistema di carte chiamate Fate & fortune. A inizio partita si scelgono cinque carte da quelle precedentemente sbloccate, una volta riempita la barra, sarà poi possibile scegliere quale utilizzare e attivare così il momentaneo potenziamento. La differenza tra le Fate e le Fortune è che le prime sono riutilizzabili mentre le seconde si consumano dopo l’utilizzo. Per sbloccare quelle nuove, esattamente come nel multi, si potranno aprire i bauli con le stesse monete di scambio. Tirando le somme, per quanto fine a se stessa, Zombies in Spaceland è la modalità più divertente e coinvolgente del pacchetto. Gli unici punti deboli per il momento risiedono nella monotonia del dover rigiocare sempre la stessa mappa, almeno fino a che un DLC non ne sblocchi altre e questa sembra proprio la direzione che si vuole intraprendere.
Uno sguardo tecnico:
Tecnicamente il gioco mantiene l’engine vecchio e fa quel che può per migliorare la grafica, anche se i passi avanti sono da riscontrare soprattutto nella nuova fisica utilizzata per le sezioni Zero-G e nei combattimenti fra Jackal: quindi niente di realmente tangibile per quanto riguarda modelli e texture. Anche in questo capitolo dunque, la grafica permane buona ma non eccezionale, con gli fps fissi a 60nella stragrande maggioranza delle situazioni. Può capitare però che vi troviate a stretto contatto con texture in bassissima definizione, anche in bella vista, e lì non c’è nulla da fare se non chiudere un occhio o forse due. Musicalmente siamo di fronte alla solita qualità di Call of Duty, eccellente, con musiche pregevoli al momento giusto, orchestrali ed epiche durante la campagna, elettroniche e frenetiche nel multiplayer, per non parlare della colonna sonora anni ’80 che ci accompagna durante le ondate di Zombies in Spaceland. Vorremmo anche parlarvi del doppiaggio italiano, ma purtroppo la build disponibile offriva solo inglese e francese per cui ci affidiamo alla bontà dei precedenti lavori per supporre quella di questo. Infine facciamo un brevissimo accenno alla versione per PS4 PRO, in attesa di una prova più intensa, che abbiamo avuto modo di provare per un quarto d’ora su un televisore 4K. In poche parole è doveroso dire che la differenza c’è e si vede, con miglioramenti generali tangibili, riscontrabili sopratutto in una maggiore definizione delle texture, che non sembrano avere in questo caso alcuna sbavatura.