A cura di Antonio Maria Abate
«È il suono!». In una delle prime sequenze del film l’inquadratura indugia sulla prima pagina di un quotidiano mossa dal vento, che appunto titola quanto appena riportato. L’esordiente John Krasinski apre il suo A Quiet Place – Un Posto Tranquillo da regista quasi navigato: mostra ma non svela, desta curiosità ma non ci fa capire perché. Siamo in un supermarket dei sobborghi, vuoto, saccheggiato, mentre alcune persone si servono senza alcuna agitazione, anzi, misurati nelle movenze, silenziosi, attenti in maniera sospetta. Solo allora, quando la scena oramai ha fatto il suo, ecco il titolo di giornale. In un’epoca in cui di un film, qualunque film, sappiamo tutto prima ancora che le luci si spengano e partano i titoli di testa, un’introduzione del genere riesce comunque ad avere un impatto.
In pratica delle strane creature antropomorfe, i cui tratti ricordano molto da vicino quelli dei mostri di Dead Space, sono attirati dal rumore: si avventano sulla fonte e, devastanti come sono… insomma, avete capito. La prima domanda, quella che in fin dei conti ci trasciniamo sino alla fine è, appunto, come sia possibile (soprav)vivere in un ambiente del genere. Non mancano le scorciatoie, al contrario. Una delle scene più anticipate, un parto, per semplificarsi la vita il tutto viene stranamente omesso, malgrado fino a quel punto lo si sia preparato con una certa cura, o almeno così pare; e noi che si aspetta il momento in cui si vorrà capire come, tra doglie e vagiti, si possa fare a meno di attirare l’attenzione della minaccia.
Protagonista è una famiglia: padre, madre incinta e tre figli. A Quiet Place vive inevitabilmente la schizofrenia di quei prodotti svezzati sotto l’egida di una major, di quelli che devono incassare, poco importa che si muovano nell’ambito del genere, da tempo considerato rischioso agli occhi del grande pubblico, non c’è Blumhouse che tenga. Tale consapevolezza ha delle innegabili ricadute, in parte incarnate dalle scorciatoie di cui sopra, in parte da una struttura non del tutto bilanciata. Ad una prima parte pressoché impeccabile, infatti, il film oppone una seconda parte (in particolare il terzo atto) in cui emerge l’esigenza di correre all’impazzata per chiudere un discorso che diversamente ci perderebbe.
Ci sono alcune intuizioni felici, come il senso d’isolamento dato dal fatto che per tutto il tempo noi seguiamo solo questa famiglia e nessun altro, senza incappare in altre persone (più o meno). Scelta che si rivela fondata soprattutto in funzione di una delle componenti chiave del progetto, ovvero ridurre all’osso, quasi a zero il parlato. Fra di loro i componenti della famiglia comunicano a gesti, e Krasinski risolve la cosa inserendo una bambina sordomuta, per cui ecco servito il motivo per il quale in famiglia si conosce tale linguaggio. Ed inevitabilmente si tratta della sfida più interessante, la componente più intrigante in A Quiet Place.
Chi ha parlato di film muto non dice però esattamente il vero, dato che la colonna sonora non è meno incalzante rispetto ad altri lavori, né, viene da pensare, sarebbe potuto essere diversamente. Non si può però sorvolare sul tentativo di fare qualcosa di diverso, d’inoltrarsi nei meandri di un territorio poco battuto, specie in relazione alla filmografia horror recente, che di rischi non ne vede tanti, praticamente nessuno se ci si rivolge al mainstream. Al di là delle implicazioni teoriche, infatti, su cui a breve schematicamente diremo, il coefficiente si alza se si pensa che ci si rivolge ad un pubblico non necessariamente di appassionati, bensì si cerca di avvicinare i meno avvezzi, un pubblico di persone tendenzialmente aduse ad un format che fa per lo più leva sul jump scare quale espediente tipico.
Lungi da me fornire una mappa anche solo approssimativa dell’horror seppur recente, ma è evidente che un tale escamotage abbia finito col prendere prepotentemente il sopravvento, ed infatti il lavoro sul sonoro non di rado si limita nello spingere estemporaneamente il volume di certi effetti sonori per generare quella reazione che paga giusto nell’arco di quei pochi secondi. Come anticipato, una descrizione tutt’altro che esaustiva, ma poiché è di un film rivolto al grande pubblico che parliamo, non è poi così infondato tirare in ballo una dinamica così abusata.
La parte interessante sta proprio in questo spostamento di sensi, dalla pervasiva e dominante vista al più bistrattato udito, passaggio di testimone che richiede specifici accorgimenti, che in A Quiet Place Krasinski in più occasioni adotta, anche perché a certe condizioni l’azione più banale dà adito a situazioni dal potenziale notevole. Si tratta di un territorio, così per come ci viene sottoposto, per lo più inesplorato, in parte, va detto, penalizzato dall’immancabile patina, che vuole i personaggi ordinatissimi, puliti e profumati, così come pulitino è un po’ tutto, a dispetto dell’evidenza che quello che abbiamo dinanzi sia un mondo post-apocalittico. E la domanda alla quale non si resiste è certo quella: quanto avrebbe beneficiato un soggetto del genere da una maggiore ristrettezza di mezzi, da una produzione più povera, “sporca”, possibilmente “realistica”?
Già un The Road, dato che Cormac McCarthy è stato immancabilmente scomodato, anela a una maggiore verosimiglianza, uno statuto che pone il film su un altro livello rispetto a questo debutto di Krasinski, quantunque peraltro i due film operino su piani diversi anche rispetto a certe premesse narrative. Perciò si viene attanagliati da quel dilemma che fa capolino ogni qualvolta un horror di fantascienza come questo offre spunti interessanti pur inseriti in un contesto che mette a dura prova la propria sospensione d’incredulità; per esempio rispetto alla già menzionata seconda parte, in cui accade di tutto, e si tratta di un tipo d’azione troppo costruita, eccessivamente artificiosa, da un lato spiegabile con la necessità, anch’essa accennata, di dover tirare le somme entro un limite di tempo accettabile, dall’altro responsabile per via di quel senso di spaesamento che si avverte rispetto ad una trama che per metà procede in modo più armonioso – e non si tratta semplicemente di velocità, per chi se lo stesse chiedendo.
– Intrigante variazione sul tema dalle notevoli implicazioni
– Scommessa implicita nel rivolgersi al grande pubblico risparmiando quasi del tutto dialoghi e background
– L’ineludibile patina appare a più riprese di troppo
– Tanto competente la prima mezz’ora quanto sbilanciata l’ultima o giù di lì
– Immaginario che rielabora elementi classici senza particolare mordente
A Quiet Place ha tuttavia il merito di sperimentare in maniera intelligente nella misura in cui, appunto, avverte questa esigenza di addentrarsi in territori meno sicuri. L’essere un’opera prima è ragione poi tanto dei pregi quanto dei difetti: tra i primi evidenziamo la freschezza, tra i secondi la mancata compattezza, il non aver saputo tirare le fila senza alcuna discontinuità dall’inizio alla fine. Ciò che non è consigliabile è invece fare le pulci a certe chiare incongruenze, strada che non ci sentiamo di percorrere poiché, per l’appunto, non è raro che in certi contesti il registro di verosimiglianza venga sacrificato sull’altare dell’intrattenimento, ambizione rispetto alla quale in larga parte il film ottempera, offrendo anche qualche spunto circa la necessità di cambiare prospettiva, specie tra i confini di un genere concepito per cambiare continuamente pelle.