Quando i videogiochi ci insegnano che andrà tutto bene – Speciale
Le lezioni che abbiamo imparato, quelle che abbiamo trasmesso, e la capacità oltre i nostri limiti
a cura di Paolo Sirio
Facciamo che per un attimo svesto i panni dell’esperto e smetto di propinarvi analisi del mercato, anteprime e recensioni per parlarvi un po’ di me. Che è parlarvi un po’ di voi, a pensarci bene: condividiamo, noi che ci occupiamo di SpazioGames e tutti i nostri lettori, la passione per i videogiochi e le decine di migliaia di ore che ci abbiamo trascorso insieme.
Questo favorisce la creazione di un background comune, un terreno fertilissimo di esperienze che abbiamo bene o male vissuto tutti, per cui sono certo che vi ritroverete in molte delle cose che sto per raccontarvi.
Un aspetto che mi ha sempre affascinato particolarmente dei videogiochi è la loro capacità di stimolare riflessioni: pensate che questo articolo è nato come una recensione di Shinsekai, il metroidvania di Capcom appena pubblicato, dopo un rapido passaggio in esclusiva su Apple Arcade, per Nintendo Switch.
Un determinato momento del gioco mi ha sollecitato un’osservazione, e questo seme ha partorito un discorso molto più ampio che abbiamo pensato sarebbe stato il caso di proporvi in una fase storica così delicata e che, ne parleremo più avanti con un maggiore approfondimento, cerca – dopo averlo guardato sempre con una certa diffidenza – un appiglio nel mondo del gaming.
Forza – Shinsekai
Stavo giocando a Shinsekai: Into the Depths per la recensione di SpazioGames della versione per Nintendo Switch, che arriverà domani, quando mi sono imbattuto in una sezione dell’avventura che mi ha rubato l’occhio – o meglio, mi ha spinto a fermarmi un attimo e scendere dal flusso che mi stava portando, spedito, dall’inizio alla fine della storia per poterne scrivere su queste pagine.
In quell’attimo, mi sono domandato cosa stessi facendo: io che non so nuotare e che avrei il terrore di infilarmi in una lunga, profonda buca, stavo compiendo esattamente quelle azioni, sebbene in un videogioco. Shinsekai è un metroidvania ambientato negli abissi più profondi del mare, e ancora adesso non so bene perché mi sia proposto spontaneamente per la recensione: logica vorrebbe che, da persona che si trova tutt’altro che a suo agio nell’acqua, avrei dovuto volerlo evitare ad ogni costo.
Eppure, quest’esperienza ci dice molto non solo di come ragioni il sottoscritto, ma anche del potere dei videogiochi: un gioco può aiutarci ad esorcizzare una paura, com’è evidente da questo breve tratto della produzione di Capcom, e di darci la forza di superarla; domani non mi infilerò in una buca profondissima e lontano dalla riva, chiaramente, ma il fatto che un alter ego abbia compiuto quest’azione attraverso di me è già abbastanza significativo.
I videogiochi, insomma, mi danno la forza di fare cose che nella vita reale non farei mai; non parliamo, è evidente, di semplice escapismo, com’è stato osservato in un periodo nel quale siamo costretti a rimanere a casa e che per pura coincidenza è coinciso con l’uscita di Animal Crossing: New Horizons, nuovo capitolo di una serie che dell’escapismo ha fatto storicamente il proprio selling point.
Parliamo di qualcosa che, paradossalmente, è più vicino alla mano del chirurgo che si insinua nel corpo del paziente da distanze siderali grazie alla rete del 5G in uno spot di un noto operatore italiano delle telecomunicazioni; è come se io mi stessi preparando a compiere un gesto iterandolo e reiterandolo attraverso una simulazione e, per quanto non stiamo parlando della realtà ma appunto soltanto di una simulazione, la reiterazione di un comportamento ha un effetto calmante nei riguardi della sua esecuzione.
Tale osservazione è stata mossa esclusivamente a proposito di gesti negativi come quelli che siamo abituati a vedere eseguiti in un videogioco violento, purtroppo, e questo ha oscurato il valore positivo del compiere, attraverso una personalità almeno all’apparenza terza, delle azioni che non saremmo in grado di compiere nel mondo reale; di andare, de facto, oltre le proprie capacità.
Insegnamento – SEGA GT 2002 e Animal Crossing
Nel corso della mia carriera da giocatore, ho vissuto il gaming anche come un momento di formazione e apprendimento, dal momento che si tratta di uno strumento capace – probabilmente con una forza maggiore rispetto agli altri media – di trasmettere valori con esempi concreti di causa ed effetto, oltre a banalmente conferire una manualità del gesto che potremmo andare a compiere nella vita reale.
Per entrambi i casi ho due nomi, tra i mille che mi vengono in mente. SEGA GT 2002, per dirne uno, ha sfamato la mia curiosità quando, dodicenne sulla prima Xbox, cominciavo a chiedermi cosa fosse quello strano e naturale meccanismo degli adulti di mettere una mano sul cambio e mandarlo avanti o indietro a seconda della velocità dell’auto – insomma, di cambiare la marcia.
Quello è stato probabilmente il primo racing game su cui ho giocato con il cambio manuale, sia perché quella è l’età in cui vuoi replicare la gestualità degli adulti, ad atteggiarti a più grande e capace di quanto tu non sia davvero, sia perché ero realmente curioso di capire perché ci si comportasse in un certo modo e come ci si sentisse a farlo.
Potrei, ancora molto banalmente, sottolineare il valore d’insegnamento che questo tipo di esperienza ha avuto su di me: sono arrivato all’età in cui, giocoforza, si inizia ad interessarsi al mondo delle auto magari non “pronto” ma preparato sul perché e sul come una macchina del genere funzionasse in quella maniera.
E a quel gioco è legata un’altra sfaccettatura di significato che mi è rimasta sempre impressa che conferma come l’insegnamento sia un’autostrada a doppio senso, lungo la quale si dà come si riceve: in uno dei rari momenti di condivisione dei videogiochi con i miei genitori, ricordo che mio padre – un po’ perché incuriosito dal nuovo acquisto, un po’ perché squattrinato fanatico Mercedes – volle provare una corsa, e si ritrovò a pararsi il viso con le mani terrorizzato da un imminente frontale e dal fatto di non avere ancora sviluppato i mezzi cognitivi che gli avrebbero permesso di distinguere la finzione dal gioco, un incidente reale da uno virtuale.
Con quel racing per Xbox, insomma, non soltanto avevo imparato qualcosa del mondo reale, ma anche mio padre aveva appreso qualcosa di quello virtuale. Un auspicio che mi è venuto in mente proprio di recente, giocando come immagino tanti tra voi Animal Crossing: New Horizons per Nintendo Switch.
Mi sono dato una regola: per ogni frutto che vendo, ne pianto altri due. Per il momento la sto applicando soltanto ai frutti esotici, quelli cioè che non appartengono nativamente alla mia isola, per una pura questione di spazio. Di contro, ci sono rimasto malissimo quando, ignorando le conseguenze della mia azione, mi sono dotato di un’ascia finalmente non fragile e l’ho usata per colpire un albero, pensando che così facendo avrei soltanto estratto la legna di cui avevo bisogno senza danneggiare lo strumento; invece, avevo appena abbattuto per sempre un albero, e per questa cosa ci sono rimasto malissimo.
Ora, pensate che tipo di lezione potrebbe derivare da un comportamento del genere nel momento in cui quell’autostrada a due sensi si mettesse in moto. Ovvero, se questa gestualità – questo pensiero ecologico, se vogliamo renderlo ancora più alto – si traducesse in una controparte di qualunque genere nel mondo reale, in un’attenzione verso un atteggiamento che abbiamo “da quest’altra parte” grazie alla capacità dei videogiochi di trasmettere messaggi positivi e buone condotte di comportamento.
Sorpresa – Kentucky Route Zero, Atto V
Nel mondo dei videogiochi possono accadere cose che in quello reale non potrebbero succedere, e materialmente non è un caso che creatori del cinema stiano approcciandosi sempre di più a questo ramo dell’intrattenimento per dare vita alle loro visioni più sfrenate – pensate ai molteplici tentativi del povero Guillermo del Toro, per fare un nome.
Una prerogativa del gaming come strumento capace di creare quello che non esiste è l’abilità di sorprendere: quando valutiamo un gioco, del resto, lo facciamo spesso premiandone l’estensione di quanto vada oltre quello che già abbiamo visto in titoli precedenti. Un lavoro per quanto ben fatto difficilmente raggiungerà vette di eccellenza, se riproporrà, pur con grandissima qualità, qualcosa che abbiamo apprezzato come dirompente in un altro che l’ha preceduto – pensate alla dinamica del rapporto padre-figlio di God of War, ad esempio, e misuratela con il sapore di “prima volta” vissuto in The Last of Us.
Di recente, un gioco in particolare ha risposto a questa “esigenza” intrinseca del mezzo (sempre più spesso dimenticata sull’altare dei valori tripla-A, ma non siamo nella sede giusta per parlarne), ovvero l’Atto V che ha posto fine alla lunghissima epopea di Kentucky Route Zero. Vi raccomando di non leggere oltre se non volete spoiler sull’ultimo appuntamento con la serie episodica di Cardboard Games.
Lo sviluppatore indipendente americano ha di fatto dedicato un intero episodio ad un funerale; non soltanto al funerale in sé e per sé, quanto alla preparazione che viene fatta direttamente dal giocatore attraverso alcune semplici operazioni come mettersi in contatto con un abitante o ascoltare una storia.
In una comunità rurale dalla quale tutti se ne stanno andando a causa di un’inondazione, si decide di celebrare il funerale di alcuni animali morti annegati; si tratta di una necessità impellente e inderogabile, perché quel funerale sarà simbolicamente pure della comunità, smembrata da un evento catastrofico come dalla volontà dei suoi abitanti di lasciarsi semplicemente il passato alle spalle.
Alla fine dell’episodio, il giocatore assiste effettivamente al funerale, durante il quale un personaggio canta una bellissima canzone accompagnata da un certo punto anche dai partecipanti (o meglio, dalle loro ombre). La sorpresa di questo momento mi ha commosso, perché dopo tanti anni tutto mi sarei aspettato fuorché di partecipare ad un funerale alla fine della famigerata Route Zero, e la sorpresa di quello che c’è stato dopo è stata forse persino più grande: assolutamente niente, persone che si incamminavano ciascuna nella direzione che aveva stabilito e un silenzio tombale.
Ecco, ricordando il valore della sorpresa e la capacità intrinseca dei videogiochi di generarla, in quanto mezzo che ha dentro di sé la forza di creare cose che non esistono, potremmo sottolineare come ci siamo così tanto abituati a titoli più grandi e con più cose da fare da rimanere interdetti di fronte alla sottrazione; e come fare di meno potrebbe dare una mano ai grandi dello sviluppo a ritrovare una delle finalità fondamentali del loro lavoro.
E, adesso, “fuori” se ne accorgono
Nel fine settimana abbiamo riportato dell’invito dell’OMS ad utilizzare i videogiochi come metodo per passare più serenamente il periodo di quarantena dovuto al COVID-19, e alla richiesta ai giganti dell’industria a favorire – con condizioni di accesso migliori, ad esempio, o eventi aggregativi – la fruizione dei loro contenuti.
Questa richiesta ha chiaramente destato una certa sorpresa: l’abuso di gaming è stato classificato tra mille polemiche come una dipendenza dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, e ha quantomeno stonato il fatto che un ente che fosse arrivato ad una sentenza simile – per quanto, appunto, si parli di dipendenza in associazione all’abuso del consumo di contenuti videoludici – si stesse adesso rivolgendo a quello stesso medium.
Da parte nostra, ed è l’invito che estendiamo anche a voi lettori, c’è soltanto piacere nel constatare che adesso anche “fuori” si accorgano di tutti i valori che i videogiochi sono capaci di esprimere e che abbiamo sottolineato in questo articolo; come dicevo in apertura, le cose di cui abbiamo parlato sono cose di cui siete ben a conoscenza, ma che evidentemente fuori dalla nostra bolla fanno fatica a filtrare.
Le lezioni che abbiamo imparato – e non parliamo di banalità anche un po’ becere come il saper sopravvivere ad un’apocalisse zombie – e quelle che abbiamo impartito ci insegnano che andrà tutto bene: perché negli anni abbiamo acquisito gli strumenti per superare i nostri limiti, e ora che ne abbiamo bisogno dobbiamo tirare fuori tutto il buono che ci è stato (e abbiamo) trasmesso.
Adesso che siamo in una situazione di male comune, in un momento surreale delle nostre vite, non possiamo che prestare queste nostre conoscenze a persone che si avvicinano per la prima volta a questo mondo – o comunque per la prima volta “seriamente” – e sperare se non altro che, quando tutto sarà finito, la si smetta di pensare al gaming come al figlio di un dio minore, come ad una realtà socialmente meno accettata rispetto al consumo di altri tipi di intrattenimento quali serie TV e cinema. Perché, per quello che ha nel suo DNA, il discorso è forse diametralmente l’opposto.