Quando crei videogiochi, ma tanto è tutto merito di tuo marito - Speciale

Le mimose sono un gentile pensiero per l'8 marzo, ma volete paragonarle con il rispetto?

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a cura di Stefania Sperandio

Editor-in-chief

Ci sono tanti aspetti, che si sommano per andare a costituire l’esperienza data da un videogioco. L’interazione, la direzione artistica, la regia, il sonoro – ogni singola casella va a comporre un mosaico con un’immagine globale. È un lavoro che mi è sempre piaciuto e al quale mi sono dedicata volentieri, quando stava mettendo insieme delle idee e mio marito è venuto da me per chiedermi di realizzare una colonna sonora per il gioco.

Ho studiato, per questo. Dare voce alle immagini che vedi sullo schermo è sempre stata la mia vocazione. E l’idea di farlo per un videogioco, per un’opera interattiva – qualcosa di unico, rispetto al cinema e alla televisione – è più affascinante che mai.

L’ho fatto, ed è andata bene. È andata così bene, che io e lui abbiamo fondato la nostra software house, di cui sono co-creatrice e co-fondatrice. Le idee creative, ora, sono le nostre idee creative. I nostri brainstorming sono la nostra officina. E va a finire che – volete saperlo? Mi piace questa cosa di creare videogiochi.

Quando abbiamo trovato un publisher, un grosso publisher, eravamo dei veri vulcani di idee. Ho iniziato subito a ragionare su come mettere insieme quello che volevamo raccontare e il comparto sonoro. Avevo aspettative così alte che difficilmente le parole potrebbero riassumerle. Ero convinta che sarebbe stato il gioco della svolta. E lo è stato.

È stato il videogioco che mi ha fatto capire che non volevo più lavorare nell’industria dei videogiochi.

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Segretaria? Assistente personale? Moglie? Sicuramente, non game director

Ne ho fin sopra i capelli.

Lo sapevo che sarebbe stato difficile, quindi non è che sia stata presa alla sprovvista. Esprimersi creativamente, essendo una donna, in un’industria in cui perfino le altre ti dicono «lavori con i videogiochi? Non è una cosa da maschi?» non poteva essere facile. Doveva, in un mondo ideale, ma a quanto pare non poteva.

Ero convinta di essere testarda abbastanza, forte abbastanza da guidare la carica, da poter provare che attraverso il talento e il duro lavoro e la positività, le donne hanno un ruolo vitale da giocare – ma non è così. E mi sono stancata. Complice, forse, anche la mia salute precaria, o il fatto che avere un publisher richieda certi impegni, ma dovendo decidere cosa tagliare dalla mia vita per utilizzare le energie che mi rimangono, ecco, ho deciso di tagliare ciò a cui ho dedicato così tanto avendo indietro così poco: lavorare alla creazione di videogiochi.

Per quanto difficile sia da ammettere sia a me stessa che a tutti voi, questa è una battaglia che non vincerò. Lascio che siano altre persone, più giovani, più adatte di me, a farsi carico di questa crociata. Io non ne voglio più sapere, penso sia una battaglia persa in partenza. Avevo tanto da dire, certo, ma a chi vuoi che importi? A chi vuoi che importi, se sei la mente creativa insieme a tuo marito, ma i giornalisti pensano che io sia l’assistente personale di mio maritoA chi vuoi che importi se, anziché come co-director, vengo indicata come “la moglie di” nei loro articoli? A chi vuoi che importi di cosa io ho da dire e da creare, di cosa ho da offrire a questo universo videoludico, se i publisher, durante i primi incontri che abbiamo fatto, hanno automaticamente dedotto che mio marito fosse il mio capo solo per il fatto che lui è l’uomoa chi diavolo volete che importi, se una rivista ha indicato lui come leader dello studioomettendo del tutto me? Quando lui gli ha detto «veramente è lei a essere il cervello delle nostre operazioni»loro hanno riso sommessamente e gli hanno risposto che è carino che un marito dica cose così gentili di sua moglie.

Non ho abbastanza carta per mettere per iscritto tutta l’indignazione che ho dovuto affrontare. E in parte è colpa mia. A me non piace parlare, lui ci va a nozze – quindi è diventato automaticamente il nostro volto pubblico. Le persone hanno dedotto automaticamente che fosse lui la forza creativa dietro la nostra compagnia, e io non volevo sembrare egoista e ho lasciato che andasse così.

Lo scorso anno ho avuto una splendida idea. Lui è andato a LA e mentre era lì ne ha parlato con il publisher. Quando è tornato gli ho chiesto “cosa ti hanno detto?”. Lui ha ammesso di aver descritto l’idea come quella di uno dei membri del nostro team, e non come la mia. “Che differenza fa a chi andranno i meriti?”.Non fa differenza solo se sei quello che prende in automatico i meriti.

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Ecco perché ho deciso di lasciare quest’industria. Perché non importa quante buone idee io abbia, quanto creativa io sia, quanto abbia da esprimere: sarà sempre merito degli uomini che lavorano con me. Non può semplicemente essere il mio.

Andrò a dire quello che ho da dire altrove, lontana dai videogiochi. Nella speranza che, chissà, magari un giorno questa comunità imparerà che non è questione di essere uomo o donna – è puramente questione di idee. Di metterle insieme e farle funzionare.

Non ce l’ho affatto con mio marito: lui è pieno di talento, intelligente, ha un’anima meravigliosa. Ce l’ho con la società. Una società che non è in grado di accettare il fatto che una donna possa essere tanto talentuosa quanto l’uomo con il quale ha deciso di condividere la sua vita.

«Quanto sono stata fortunata ad aver avuto qualcosa che ha reso così difficile riuscire a dirle addio.» –A.A. Milne


Questo articolo è liberamente ispirato all’addio all’industria dei videogiochi di Jessica Curry, di The Chinese Room, autrice di Everybody’s Gone to the Rapture insieme a suo marito Dan Pinchbeck. Tutti i testi riportati in grassetto e corsivo sono citazioni dirette della lettera di addio all’industria che pubblicò nel 2015, chiudendosi malinconicamente alle spalle la porta del videogioco. Sbarrandosi una possibilità, qualcosa in cui era brava e per cui aveva una vocazione, perché non quel pubblico senza volto con il quale è tanto facile prendersela, ma direttamente gli addetti ai lavori non erano in grado di prenderla sul serio come creativa. Perché? Perché aveva la colpa di essere una donna.

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La stessa colpa della giocatrice discriminata anni addietro a una competizione competitiva di picchiaduro, la colpa delle giocatrici che devono fingere di essere uomini durante le partite online. La colpa delle giocatrici che, quando parlano della loro passione, si trovano poi di fronte a un interrogatorio coatto per vedere se è vero che conosci i videogiochi o no.

La colpa delle giornaliste che trattano videogiochi prese poco sul serio perché la competenza ed eventualmente – perché no – una laurea magistrale specifica non bastano a controbilanciare il demerito di essere una donna.La colpa delle sviluppatrici che «devono imparare a stare agli scherzi, sono solo battute», che «chissà com’è che hai fatto carriera», la colpa delle studentesse talentuose che hanno la loro vocazione nel videogioco e nell’informatica, ma sono state scoraggiate nel seguire questi studi da una società che per decenni le ha considerate essere eccezioni [Cassell J., Jenkins H., From Barbie to Mortal Kombat: Gender and Computer Games, MIT Press, Massachusetts 1998, p. 72 e Mou Y., Peng W., Gender and Racial Stereotypes in Popular Video Games, IGI Global, 2009, p. 931], in un circolo vizioso in cui meno professioniste ci sono oggi, più fuori posto rischieremo di far sentire le aspiranti tali del domani.

Lascio che siano altre persone, più giovani, più adatte di me, a farsi carico di questa crociata.

Partiremo anche in svantaggio per la diffidenza di molti e molte, ma meno di qualche anno fa. E oltretutto per noi non è mai stata questione di arrivare prime: è stata sempre questione di poter partire in santa pace.

Buon 8 marzo a chi ha deciso di chiudere la sua porta perché non ne poteva più e a chi sta lottando, donne e uomini, nonostante tutto e tutti, per aprire le loro.I chilometri sono fatti di millimetri.

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