Ogni volta che ve la prendete con la protagonista di un videogioco fate male solo a voi stessi

Di come i videogiochi si stiano allontanando dagli stereotipi di genere sia maschili che femminili e di come questo a qualcuno non piaccia.

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a cura di Stefania Sperandio

Editor-in-chief

Oltre un anno fa, sulle pagine di SpazioGames pubblicammo una riflessione in cui, partendo da una storia personale ma che scoprii, senza un grammo di sorpresa, essere condivisa da tante altre appassionate, facevamo notare i passi in avanti fatti dal videogioco in termini di rappresentazione.

L’articolo, nemmeno a dirlo, scatenò ire di ogni sorta, per due motivi precisi: il primo motivo è che  leggere oltre la seconda riga un testo altrui è molto meno soddisfacente che perdere tempo a scrivere un commento che lamenta cose che nel pezzo non sono state mai dette – ma tu non lo sai, perché leggere e generalmente ascoltare, prima rispettivamente di scrivere e parlare, sono notoriamente una perdita di tempo concessa ai deboli e a chi non ha certezze che porta immutate con sé dalla culla alla tomba.

Il secondo motivo è che, a quanto pare, l’idea che le protagoniste femminili di oggi facciano sentire meno fuori posto le bambine, rispetto a quelle di ieri che i videogiochi dovevano scroccarli ai fratelli, offende qualcuno. Non si sa bene perché o per come, ma è fastidioso. Lede qualcosa, una presunta maestà accordata da nessuno che ci vorrebbe ancora fermi, anche per gli eroi maschili, agli (stilosi, va detto) Duke Nukem figli degli eroi action anni ’80. Solo che dagli anni ’80 sono passati quarant’anni.

Lo scorso anno, tuttavia, si è evidenziata una tendenza interessante: molte produzioni da vetrina, di rilievo, si sono presentate sul mercato mettendo in copertina una protagonista giocabile. E, in diversi casi, si è trattato di protagoniste lontane dai canoni di oggettificazione che, beninteso, non sono propri solo del videogioco, ma hanno radici molto più profonde nei nostri media – che a loro volta le hanno prese di peso dalle nostre ancore sociali.

È vero, che stiamo vedendo più protagoniste? Perché c’è qualcosa di strano e, soprattutto, a chi dovrebbe importare qualcosa? La risposta che spero di leggere il prima possibile a quest’ultimo quesito, da persona che videogioca da prima di imparare a leggere, è letteralmente «a nessuno». Perché quando non importerà più a nessuno che il protagonista di un gioco sia un uomo, una donna o una persona non binaria, significherà che avremo abbattuto pareti che oggi richiedono ancora pazienti, ma costanti, martellate.

E in un mondo ipermediale e iperconnesso che sotto la sua patina digitale, invece, continua a ragionare su muri, invisibili e non, da erigere qua e là per tenere ognuno al suo posto (qual è il “suo posto” di ciascuno?), prendere il protagonista di un videogioco per quello che è, proprio come facciamo per i film, i romanzi o le serie TV, sarebbe un enorme traguardo.

Ma c'è ancora della strada da fare. E, che ci crediate o no, c'è tanto per le videogiocatrici, quanto per i videogiocatori.

Il token di presenza, le protagoniste che non vendono e altri 98 modi per rimanere uguali a se stessi

Probabilmente ve ne siete accorti, ma c’è una buona parte di noi che è, semplicemente, molto arrabbiata. Sì, inserite qui una originalissima battuta sessista su specifiche settimane del mese femminile o sull’eventualità di non avere abbastanza partner sessuali, così se siete tra quelli che per motivi a me ignoti si sono sentiti offesi dal pezzo di agosto scorso potete sentirvi a vostro agio – a patto che stavolta abbiate letto fino a qui.

Sarebbe quasi superfluo spiegare perché. Il caso relativo ad Activision Blizzard, in tutta la miopia di chi non ci vede alcun problema semplicemente perché è il problema, è da settimane sulla bocca di tutti.

Non è nemmeno una questione di Activision Blizzard in sé: è recentissimo il nuovo report di Eurogamer.net su Paradox Interactive, dove una sviluppatrice è stata invitata a stare zitta durante un brainstorming perché era stata assunta come «gettone di presenza femminile» e non per parlare.

Prima di loro c’era stato il caso di Ubisoft con l’impegno in prima persona di Yves Guillemot che speriamo ancora dia i suoi frutti, dopo che il gigante francese aveva cestinato l’idea di protagoniste femminili nei suoi Assassin’s Creed perché «le donne non vendono».

Praticamente, via via che ti volti lungo l’industria, nelle sue rappresentazioni, nelle sue rappresentanze, vedi che abbiamo ancora tanta strada da fare un po’ in tutti i settori. Ellie ed Abby fanno arrabbiare qualcuno, la nuova Lara Croft è una ragazzetta atletica che si è dimenticata i suoi talenti da maggiorata, le streamer #cirubanoillavoro rispondendo con la loro offerta a una domanda che sospetto in larga parte non venga da altre giocatrici e le sviluppatrici per qualcuno sono gettoni di presenza preferibilmente muti da esibire nei fogli statistici sulla parità di genere.

Eppure, anche se dall’introduzione potrebbe non sembrarvi, questo è un articolo positivo. Capiamoci, “positivo” non nel senso che ci si accontenta della situazione così com’è: positivo perché c’è un bicchiere pieno almeno per 1/4 di cui parlare.

Guardandoci intorno ci rendiamo conto che ci sono tantissimi passi ancora da fare, ma per capire quanti ne abbiamo già fatto c’è da fare una cosa fondamentale: guardare indietro e darci un po’ di contesto.

Not your kind of people

Per darci il suddetto contesto, bisogna tornare a un concetto espresso poco sopra: questa non è nemmeno una questione legata solo ai videogiochi. Semplicemente, per svariati motivi, i videogiochi ci si sono sentiti a casa molto più di altri mezzi di comunicazione.

Possiamo capirci, semplicemente, così:

Una giovane donna mi raccontava di ricordare ancora perfettamente l’acuto senso di colpa provato quando, a sette anni, aveva sorpreso sua madre lamentarsi con un’amica che lei non amava giocare con le bambole; da quel momento in poi si sforzò di farlo, desiderosa com’era di corrispondere ad ogni costo alle aspettative della madre, di essere approvata da lei e di piacerle, ma aveva continuato a preferire i giochi di movimento.

Aggiungiamo anche:

Ho avuto occasione di osservare spesso, nei nidi dove viene lasciata al bambino la libera scelta tra giochi, oggetti e attività, che le bambine giocano quanto i bambini con automobili, aeroplani, navi, ecc. fino ai tre anni circa. Ho visto bambine di diciotto-venti mesi passare ore e ore a togliere da un sacchetto di tela una serie di automobiline, aerei, elicotteri, navi, trenini, allinearli su un tappeto e spostarli con lo stesso piacere e la stessa concentrazione dei maschietti. Allo stesso modo, si possono osservare bambini che passano la mattinata a fare il bucato, lavare tavolini, lucidare scarpe.

Scrive così Elena Gianini Belotti nel suo “Dalla parte delle bambine” (Universale Economica Feltrinelli, Milano, 1973) a proposito di come si comportino i bambini, nella scelta dell’attività ludica a loro più congeniale, prima di interiorizzare schemi sociali che arrivano dall’esterno e non dall’interno.

Lungo il volume, la studiosa evidenzia – in una lettura attuale in modo disarmante – come di per sé non sia nel genere del bambino la scelta di questa o quella predilezione per un dato gioco, ma arrivi da condizionamenti che vanno di pari passo con la norma sociale. Una palla è sempre una palla, ma se per qualche motivo una palla ha dei pentagoni neri qua e là, allora è scostumato che ci giochi una bambina, perché “il calcio non è un gioco da femmine”, essendo ritenuto privo di grazia e votato all’agone.

Appare abbastanza evidente che in questo calderone, che coinvolge tutti gli aspetti dell’educazione alla vita, compresa l’attività ludica, sia finito anche il videogioco. Identificato erroneamente come qualcosa di puramente competitivo come poteva essere alle origini, quando si “sfidava un punteggio”, si sparava ai demoni o si simulava una partita di calcio, questo tipo di gioco è scivolato rapidamente nello spazio dei “giochi per maschietti”, mentre per le femminucce ci sono altre cose. Non è questa la sede adatta per discutere del fatto che spesso in quelle altre cose ci fossero ferri da stiro e fornelli in miniatura, ma lo sapete già.

Questa concezione è andata a braccetto anche con l’idea, a sua volta socialmente normata, che tutto quello che concerne l’elettronica, e in un più ampio spettro la matematica, le scienze informatiche, la programmazione, sia appannaggio maschile. Sommandoci quindi la visione per cui il videogioco sia in sé competizione e si svolga oltretutto su mezzi elettronici, ecco confezionata l’idea che ci sia ben poco di femminile nell’andare in giro nei panni di un personaggio che non esiste, in un mondo che non esiste, ad ammazzare demoni che non esistono con proiettili che non esistono.

Il videogioco, e non è un j’accuse, non ha fatto niente per impedirlo. In una costruzione sociale che, atavicamente, per qualche motivo vuole scovare il modo di impedire il più possibile alle persone di raggiungere la loro felicità entro quell’ottantina di anni sull’eternità che hanno a disposizione per trovarla, ecco che il genere diventa non solo la scatoletta dove richiudere lo stereotipo della vita quotidiana reale, ma perfino dell’attività virtuale.

L’uomo non può piangere e non deve mostrare le sue emozioni. Deve guidare gli altri ed essere sicuro, avere sempre una risposta rassicurante – anche quando vorrebbe in realtà chiedere aiuto anche lui – lavorare per portare sulle spalle la responsabilità di tutti gli altri. Non rientri in questi schemi? Allora, prima che finalmente ci si svegliasse da un torpore che ha recato danni alla psiche e all’autostima di milioni di persone, con quale coraggio ti definisci "uomo"?

Lo stesso, all’opposto, vale ovviamente per le donne – gentili, premurose, remissive, servizievoli, composte, aggraziate, educate, disciplinate, madri potenziali o effettive da 0-99 anni, e che sicuramente, cascasse il mondo, non giocano ai videogiochi.

Se invece succedeva che tu non solo non eri aggraziata e composta, ma magari giocavi perfino ai videogiochi, la cosa era vista come una stramberia, una deviazione dallo schema. Se anziché al bambolotto anelando di diventare madre (ma un “chi se ne frega” a nove anni non ce lo mettiamo?) ti stringevi al controller perché volevi fermare i terroristi a Shadow Moses o la compressione temporale di Artemisia, che razza di donna saresti mai potuta diventare un giorno? Potresti perfino essere peggio, che ne so, di un maschietto che gioca con le Barbie.

I videogiochi sono stati permeati da questa stessa concezione: resisi conto di parlare a un pubblico prevalentemente maschile, non tanto per imposizione del pubblico stesso in sé, ma per inquadramento sociale, hanno via via inglobato tutti i pattern degli altri medium che riducono l’utente maschile, in modo altrettanto stereotipico, a un concentrato di aggressività da sfogare nella competizione e di libido che non conosce riposo. Perché così è più facile vendersi, perché è più facile attirare l’attenzione, e perché nemmeno ci si rendeva conto della cosa, in realtà, tanto era radicata e “automatica”.

Così radicata, per capirci, che sono molti di quegli stessi giocatori uomini – che in realtà vengono offesi nelle loro complessità, nella loro ricchezza, da questo stereotipo – a difendere strenuamente la concezione desolante del «fatemi giocare con Joel, quella lesbica di Ellie ha rotto le palle».

Scrive il filosofo Lorenzo Gasparrini che «l’uomo deve essere sicuro di sé, autorevole, non deve mai manifestare emozioni e debolezza, fa quello che vuole senza dover chiedere mai, altrimenti non è un uomo. Ma esistono molti modi di essere uomo e sono tutti migliori di questo» (da “Perché il femminismo serve anche agli uomini”, edizioni Eris, Torino, 2020).

Lo stereotipo è uno stereotipo e non fa che appiattire. E dopo aver detto a uomini e donne chi dovevano essere e, sulla base di questo, cosa potevano e dovevano fare nella vita reale, ha finito con il dirgli anche cosa potevano e dovevano fare in quella digitale.

Uomini e donne, giochi e facce da copertina

Un interessante studio condotto da Xeniya Kondrat per il Journal of Comparative Research in Anthropology and Sociology (Gender and video games: How is female gender generally represented in various genres of video games? ) nel 2015 ha evidenziato alcuni pensieri molto interessanti dei videogiocatori in merito all’uso degli stereotipi di genere all’interno dei videogiochi.

Un campione di 234 videogiocatori (di cui 51 si identificavano come donne) si è così espresso:

  • I personaggi femminili sono stereotipati secondo il 78,4% delle donne;
  • I personaggi femminili sono stereotipati secondo il 76,4% degli uomini.

Tuttavia, il dato si fa ancora più interessante quando leggiamo:

La maggior parte dei rispondenti si rende conto che ci sono ancora degli stereotipi negativi nei videogiochi e richiede un cambiamento. Questo non concerne unicamente la rappresentazione del genere femminile, ma anche di quello maschile. Molti dei rispondenti concordano sul fatto che gli stereotipi femminili nei videogiochi vengono inseriti perché il pubblico target è in prevalenza maschile, sebbene il numero di giocatrici sia in crescita.

Le compagnie che creano videogiochi vogliono vendere il più possibile e, pertanto, hanno una buona leva per il marketing nel proporre personaggi femminili denudati o vestiti in modo provocante, che peraltro alla fine potrebbero non essere nemmeno inclusi davvero nel gioco.

Questo si ricollega a quanto detto in precedenza, in merito alla necessità di attirare un pubblico identificato come prevalenza maschile, che a quanto pare per i publisher si può (poteva) attirare solo in un modo.

Lo riassume benissimo la trattazione di Anqi Liu del 2019 per la Northeastern University, che semplicemente cita: «lo scopo dei personaggi femminili era quello di attirare più giocatori maschili».

Niente rappresentazione, niente di niente: un orpello, in linea con lo stereotipo già ampiamente discusso che permea la nostra società fin dagli albori, di un bell’angelo del focolare. Sulla stessa linea, fa notare Liu, i personaggi femminili all’interno dei videogiochi sono di solito meno abili delle controparti maschili, hanno bisogno che qualcuno venga loro in soccorso (è il classico tropo letterario della “damigella in pericolo” ampiamente discusso) e contano su un armadio tra il tragicomico e il cattivo gusto.

Nella sua analisi, Liu scrive che:

Quegli stereotipi esistevano nelle menti dei designer e dei giocatori. I designer, pertanto, non volevano dare ai personaggi femminili le stesse abilità di quelli maschili, perché non avevano la certezza che i giocatori avrebbero apprezzato.

È praticamente una situazione da cane che si morde la coda, sotto lo stesso ombrello: forse al giocatore quel tipo di personaggio donna non piace, e allora lo sviluppatore deve tenerne conto e in realtà forse pensa anche lui che una donna così non sia davvero una donna, e in fondo forse un po’ lo pensa anche il publisher.

E diciamoci la verità, lo pensa anche l’investitore, che deve pagare per far uscire Remember Me e, maledetta sia la miseria, i conti non torneranno non perché magari il gioco sia migliorabile in molteplici aspetti, ma perché con questa tizia giocabile chi vuoi che se lo compri?

La scelta di un protagonista di un certo tipo o una protagonista di un altro tipo è sempre stata così centrale, nei videogiochi, da influenzare anche le copertine. Sappiamo tutti che, nonostante quello che si dice, molti giudicano e comprano il “libro” solo dalla copertina, ed avere una fanciulla in déshabillé che ammicca al giocatore maschile era ritenuto da molte etichette un ottimo modo per portare l’attenzione sul proprio prodotto e magari spingere verso l’acquisto.

Uno studio di Cristopher E. Near per PubMed nel 2012 prendeva in analisi le copertine di 399 videogiochi: aveva notato che nel 33,83% dei casi era presente almeno una donna in copertina. Nel 18,55% dei casi questa figura femminile era centrale e suggeriva di essere in una posizione di leadership, nel 20,80% la figura era sessualizzata nelle proporzioni del corpo o nell’abbigliamento.

Di contro, nel 68,67% di queste copertine era presente almeno un uomo, nel 66,17% dei casi in una posizione dominante e di leadership.

La copertina può vendere il gioco (ancora di più nel 2012, quando i negozi retail andavano per la maggiore) ed ecco che anche in questo caso si ricorre allo stesso schema con cui perdiamo tutti: l’uomo leader per forza e la donna legata inscindibilmente non al suo essere una persona di sesso femminile, ma un oggetto del desiderio.

Sappiamo tutti che nei videogiochi, ancora più che per la sorpresa di scoprire che Samus Aran era donna, c’è un prima e un dopo Lara Croft: il cosiddetto “Lara Phenomenon” che scosse gli anni Novanta portò a un proliferare delle eroine al femminile, ma anche a una maggior sessualizzazione dei loro caratteri estetici.

Ancora una volta, quindi, la svolta era stata vista non nel fatto che potesse aver senso raccontare storie a partire dall’altra metà o più dell’umanità, ma si era trovata una chiave che apriva la porta del successo commerciale nel rivolgersi più che altro al giocatore maschile – tanto che la generosità del corpo di Lara nacque per scherzo e oggi abbiamo un fenomeno di estremizzazione assurdamente opposto a questa tendenza, per cui sembra che una donna dal corpo procace offenda non si sa bene chi.

Non avevi detto che era un articolo positivo?

Il contesto, insomma, è sempre stato questo. Da qualche tempo, però, i videogiochi, forti del fatto che come evidenzia anche IIDEA sul mercato italiano il 53% dei giocatori siano uomini e il 47% siano donne, si sono sbloccati.

Abbiamo visto più protagoniste, protagoniste tenaci che non devono essere salvate da nessuno e che in alcuni casi sfidano anche un altro vecchio stereotipo del gaming: non sono completamente positive. Di solito, un personaggio femminile, se centrale, era praticamente immacolato dal punto di vista morale. Ora, stanno comparendo molti più grigi: rimangono protagoniste con le buone intenzioni nella maggior parte dei casi, ma se pensiamo ad esempi come quelli di The Last of Us - Parte II, la sfumatura è completamente diversa.

Questo va di pari passo anche con uno sfumarsi delle rappresentazioni stereotipiche maschili: l’eroe tutto muscoli e infallibilità è molto più raro, perfino Kratos è preso dai suoi tormenti paterni, Solid Snake è diventato un anziano spinto dalla forza di volontà e non dalla forza bruta ed essendo più sfaccettati gli eroi maschili ammettono, semplicemente, di essere molto più reali.

Incredibilmente, possono perfino piangere e manifestare emozioni senza che questo leda in alcun modo la loro virilità. A tal proposito, discutemmo in un approfondimento dedicato dell’idea del protagonista videoludico che, allontanandosi dall’idea dell’essere umano ideale e perfetto, si avvicinasse di più a quella di essere specchio delle imperfezioni del giocatore, che può così sentirsi capito – e rappresentato.

Tuttavia, il fioccare delle Ellie, delle Jesse Faden, delle Senua, delle Kena, delle Selene, delle Aloy (continuate la lista a piacere, finalmente può venire lunghetta) ha spinto gli offesi citati in apertura all’articolo a vedere «una invasione del mondo dei videogiochi» da parte delle eroine.

Immaginate andare davanti al cinema e, scegliendo la pellicola, lamentare una invasione delle protagoniste femminili delle pellicole. Andare in libreria, chiudere l’ennesimo libro dopo aver letto la quarta di copertina e dire scocciati «ancora storie con donne? Ma basta».

A fronte di questa invasione, il blog specializzato Feminist Frequency e la rivista Wired hanno preso in analisi i numeri, rilevando che è vero che c’è stata una impennata delle protagoniste nel 2020, ma come immaginerete non è stato “soverchiato” nessun ordine costituito.

Nello specifico, spiega Wired, i numeri sono quelli che seguono:

  • 2015
    • 46% dei giochi proponeva scelta libera del sesso
    • 32% dei giochi proponeva protagonista maschile
    • 9% dei giochi proponeva protagonista femminile

  • 2016
    • 49% dei giochi proponeva scelta libera del sesso
    • 41% dei giochi proponeva protagonista maschile
    • 2% dei giochi proponeva protagonista femminile

  • 2017
    • 52% dei giochi proponeva scelta libera del genere
    • 26% dei giochi proponeva protagonista maschile
    • 7% dei giochi proponeva protagonista femminile

  • 2018
    • 50% dei giochi proponeva scelta libera del genere
    • 24% dei giochi proponeva protagonista maschile
    • 8% dei giochi proponeva protagonista femminile
    • 5% dei giochi proponeva protagonista di sesso non specificato o non binario

  • 2019
    • 66% dei giochi proponeva scelta libera del genere
    • 21% dei giochi proponeva protagonista maschile
    • 5% dei giochi proponeva protagonista femminile
    • 2% dei giochi proponeva protagonista di sesso non specificato o non binario

  • 2020
    • 54% dei giochi proponeva scelta libera del genere
    • 23% dei giochi proponeva protagonista maschile
    • 18% dei giochi proponeva protagonista femminile
    • 3% dei giochi proponeva protagonista di sesso non specificato o non binario.

L’invasione di cui sopra si traduce, nei numeri, in un 18% dei videogiochi che proponeva una protagonista femminile. È effettivamente un boom, se consideriamo che nel 2019 c’erano stati ben il 5% dei titoli a far vestire i panni di una donna.

Quello che è fondamentale dedurre, da questi dati, è che le storie ci influenzano, da qualsiasi medium arrivino. Interiorizziamo quello che scopriamo dai libri, dai film, dall’arte in genere e dai videogiochi. Questo, sommato agli schemi che ci vengono normalmente imposti, può mettere in discussione o rafforzare ulteriormente concetti che ci vengono radicati – come i ruoli privi di smussature che uomini e donne devono ricoprire.

Passare dal 5% di protagoniste al 18% da alcuni è letto come un’invasione, ma è semplicemente un modo di mostrarsi consapevoli che il pubblico, la società stessa e le ragazze che si avvicinano ai videogiochi oggi non possono e non devono avere le risposte o i dubbi che avevano trent’anni fa.

Davvero Horizon: Zero Dawn avrebbe venduto di più se avessimo avuto un Aloy al posto di un’Aloy? Siamo ancora fermi a questo punto e ne rimaniamo convinti come lo era Ubisoft che faceva i suoi conti prima di Assassin’s Creed Origins e defenestrava Aya in favore di Bayek?

I mezzi di comunicazione sono liquidi: solitamente, prendono la forma del recipiente. Significa che sono espressione e cassa di risonanza delle storie reali e questo ci dice in qualche modo che, anche se abbiamo ancora tantissima strada da fare per le rappresentazioni stereotipiche che molti difendono con le unghie e con i denti come unico modello valido, già tanta ne è stata fatta.

In sintesi, insomma, un videogioco che si apre a più rappresentazioni, che matura e racconta le storie dei personaggi che vuole narrare, senza l'orrore che i videogiocatori trovino repellente questo o quel protagonista, fa bene non solo alle giocatrici, ma a tutti i videogiocatori. Allontana dagli stereotipi, fa il possibile per non rafforzarli, e apre le porte alla possibilità che nessuno osi più dirvi che siete "meno uomo" di chi si attiene allo stereotipo – e poi magari si divora interiormente senza darlo a vedere. Esattamente come noialtre in fondo abbiamo sempre saputo di non essere "sbagliate" come donne perché, testardamente, abbiamo giocato con quello che ci pareva, che fosse dando una pedata a un pallone o mettendoci davanti a un videogioco che però spesso ci rispondeva che da sola non ti salvi.

Come sempre, in questi casi, è un percorso da fare insieme. Lo fanno insieme i videogiocatori, tutti, e la società che li circonda. Dal momento che non possiamo lasciarci indietro nessuno, nemmeno chi è offeso dalle guance di Aloy, sappiate che possiamo andare avanti rapidamente tanto quanto riesce ad avanzare il più lento di noi. Ma andremo avanti. Lo abbiamo già fatto – e i videogiochi ci dimostrano che è stata la cosa migliore per tutti. Anche per chi non se n’è ancora accorto.

Bibliografia e fonti

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