I videogiochi sono un’industria più grande che mai, in questo momento. Sappiamo che il gaming fattura numeri da capogiro, così come sappiamo che ci sono sempre più produzioni indie che sperimentano con meccaniche e comparti narrativi unici, capaci di distinguersi e di osare. Cose che, di recente, sta cominciando a tentare anche l’industria AAA, prendendosi dei rischi e dando maggior equilibrio alle necessità del gameplay e della storia, anziché sbilanciarsi prepotentemente verso il primo.
Cosa succede, infatti, quando il gameplay prende il sopravvento su quello che si vuole raccontare? Si crea una dissonanza ludonarrativa. Si tratta di un tema che abbiamo già trattato sulle nostre pagine, e un caso particolarmente famoso fu quello del reboot di Tomb Raider: all’idea della scrittrice Rhianna Pratchett di una giovane Lara che aveva appena concluso gli studi e affrontava i suoi primi traumi (e il primo omicidio) sull’isola di Yamatai si legavano, infatti, le necessità del sistema di gameplay scelto da Crystal Dynamics, in cui nel giro di qualche minuto la giovane archeologa si trasformava in una macchina da guerra capace di uccidere centinaia di nemici.
Si tratta di un problema che, secondo Bruce Straley, si è presentato anche in Uncharted, e che Naughty Dog – software house in cui è stato co-director e che ha lasciato di recente – ha risolto con il successivo The Last of Us.
La dissonanza ludonarrativa secondo Naughty Dog
Intervistato dai colleghi di GamesIndustry, Straley ha spiegato che, sebbene Nathan Drake venga introdotto come un uomo tranquillo che va in cerca delle sue avventure, nel corso delle meccaniche di gameplay di Uncharted si trasforma, di fatto, in tutt’altro che il tizio medio e piacevole, considerando che uccide centinaia e centinaia di nemici. Anche in questo caso, ha esposto il direttore, era una necessità legata al gameplay, che niente aveva a che fare con la caratterizzazione del personaggio:
Nathan Drake è un uomo d’azione e avventura, ma la minaccia che affronta è una minaccia ‘da videogioco’. L’antagonista, in un videogioco, di solito ti manda contro i suoi minion, in maniera tale che devi affrontare degli ostacoli, se vuoi portarti a casa il tesoro. Che si tratti di un puzzle game o di uno shooter, devi proporre delle meccaniche interessanti per fare in modo che il giocatore rimanga coinvolto. È il nostro problema in quanto game designer: nel 2007, l’industria era esattamente al punto in cui eravamo noi. Non avevamo ancora i mezzi, o se vogliamo dire la chiarezza, che abbiamo adesso come autori di videogiochi.
Ecco perché una dissonanza ludonarrativa come quella di Uncharted non venne nemmeno avvertita in modo particolare – non, sicuramente, come la si avvertì nel 2013 in Tomb Raider. Anzi, secondo Straley quanto proposto, anche nella caratterizzazione netta di Drake, era rivoluzionario per l’epoca: nei videogiochi c’erano molti eroi muti, che accoglievano in qualche modo “l’anima” del giocatore. Nathan, invece, parlava e aveva una personalità tutta sua. Così, se prima le emozioni dell’utente diventavano direttamente quelle del protagonista (che era di fatto “vuoto”), con personaggi come Drake invece c’erano le vere emozioni del personaggio, che dovevano essere espresse nel comparto narrativo.
La soluzione di The Last of Us
Così, se Drake diventava un assassino inarrestabile per motivi di gameplay, pur avendo dalla sua il fatto di essere un personaggio a 360°, Naughty Dog ha trovato in seguito un modo di ovviare alla dissonanza ludonarrativa: fu con The Last of Us. Nel mondo di gioco proposto da questo titolo post-apocalittico, infatti, le minacce sono ovunque ed è necessario essere disposti a uccidere, per sopravvivere. Ecco perché le mani sporche di sangue di Joel (o di Ellie) stonano molto meno di quelle di Nathan.
Nelle parole di Straley, che parla del mondo creato per The Last of Us:
Vedendo che c’era un problema nella costruzione del mondo, siamo riusciti a creare una minaccia che potesse mettere in gioco molta posta. Questo ti fa realizzare, come giocatore, che ti stai giocando davvero molto, che gli altri esseri umani che incontri all’interno del mondo sono motivati dalla necessità di sopravvivere. Ogni personaggio di The Last of Us ha una sua bussola morale, dalla quale viene guidato: questo significa che potrebbero perfino ucciderti per un paio di scarpe o una bottiglia d’acqua, perché questo potrebbe significare che riusciranno a sopravvivere per un altro giorno, in un mondo come quello che avevamo creato.
Un mondo in cui la violenza è, insomma, di casa – e il fatto che Joel ed Ellie vi ricorrano non sempre più piovere dal cielo per pure necessità di gameplay, secondo Straley.
Si possono creare videogiochi dove non si spara?
La riflessione di Straley è andata avanti quando l’autore si è interrogato in merito alla possibilità di creare videogiochi in cui non ci sia affatto bisogno di sparare, in cui uccidere o prevalere su qualcuno o qualcosa non sia la sfida centrale dell’esperienza. Come spiegato da lui:
Si può creare un gioco che sia interessante, coinvolgente e con al centro i suoi protagonisti, come le storie di Uncharted e The Last of Us, senza che si spari? Io penso di sì. Ovviamente, il concetto da cui partire deve essere ‘come posso creare un mondo che sia abbastanza ricco da consentire di avere comunque delle interessanti meccaniche chiave?‘.
Straley ammette, insomma, che (come di recente disse anche Mamoru Oshii, se ricordate, in un video a proposito di Death Stranding), spesso di tenti di scegliere la via della sparatoria, come base del gameplay, semplicemente perché si è certi che coinvolga facilmente, che il tipo di intrattenimento che offre sia immediato, facile da interiorizzare e padroneggiare, senza prendersi troppi rischi – e fa da facile motivatore. Per fare qualcosa di diverso, spiega Straley, bisogna farsi delle domande:
Dobbiamo mettere i giocatori in una posizione in cui possano essere coinvolti dal bisogno di superare gli ostacoli che verranno, il che significa che le meccaniche chiave del gioco dovranno offrire opportunità sufficienti da ingegnarsi con una soluzione.
Red Dead Redemption 2, Death Stranding, Inside e il bisogno di rischiare
Nel suo ragionamento, Straley ha evidenziato come i videogiochi propongano, oggi approcci diversi rispetto a quanto facevano all’epoca del primo Uncharted. Quando si cerca di mettere l’esperienza al centro, senza che lo sia necessariamente anche un conflitto che si incentri sullo scontro diretto e sui combattimenti, si può offrire qualcosa di diverso.