Non possiamo costringere i giochi difficili a diventare facili per piacere a tutti

L'uscita di Metroid Dread ha rispolverato Returnal, moltissimi videogiocatori sono ancora fermi al primo boss di Demon's Souls e il dibattito si è riacceso: i videogiochi difficili si auto-sabotano e tengono lontana una parte del loro potenziale pubblico?

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a cura di Stefania Sperandio

Editor-in-chief

Aggiornamento del 7 febbraio 2022: visto che l'argomento è tornato molto in discussione in queste ore, in virtù dell'arrivo dello spietato Sifu, ne approfittiamo per rispolverare la nostra riflessione dello scorso mese di ottobre.

Quella volta ero davvero convinta di farcela. Quando il boss ha attivato la sua nuova fase, in testa mi girava lo schema preciso che avevo imparato bene, a forza di tentativi: «se alza la coda sta per attaccarti dall'alto, non restare ferma. Stefania, non restare ferma, non vuoi davvero ricominciare questa boss fight dall'inizio».

Poi sono morta. Così, mentre facevo chiarezza tra me e il mio cervello su tutto quello che avevo imparato nei tentativi precedenti, mentre mi ricordavo che «forse, magari, se usassi la schivata rapida...». Era la mia ennesima morte con un boss nemmeno troppo vicino alla fine di Metroid Dread, un videogioco squisitamente difficile di cui abbiamo parlato nella video recensione completa.

Non è un segreto: personalmente, rientro tra i videogiocatori che videogiocano per l'esperienza e non per la sfida. Per puro gusto personale, tra un viaggio in un mondo virtuale lontano lontano e uno scontro che ti richiede di diventare perfetto nel gestire le sfide in tempo reale, io consegno i pacchi in Lake e sono felice.

Ciò nonostante, uscire dalla propria comfort zone per concedersi un gioco come Bloodborne, che ti schiaffeggia appena pensi di essere forte abbastanza da affrontare tutto e tutti in modo sfrontato, è una sfumatura preziosa da aggiungere al proprio background videoludico.

Non è però un'opinione completamente condivisa. Questi giorni, proprio con l'uscita di Metroid Dread, che ha rispolverato anche la spietatezza di Returnal, si è riacceso il dibattito sui videogiochi difficili.

A chi si rivolgono, i videogiochi difficili? Perché vogliono essere difficili a tutti i costi senza integrare un selettore per il livello di difficoltà che li renda scalabili? In sintesi, perché correre il rischio che qualcuno salti fuori dalle meraviglie di Metroid Dread solo perché non disposto a perfezionarsi al punto da divorare tutte le sfide che si troverà davanti?

Ma se ai videogiochi difficili togliamo del tutto la sfida, cosa rimane? Perché uniformarli?

Metroid Dread e i videogiochi difficili

Il caso è questo: Metroid Dread arriva sul mercato l'8 ottobre aprendo le braccia a chi, da tempo immemore, aspettava il ritorno di Samus in due dimensioni. E tra queste persone si contano anche quelle che, ai tempi di Super Metroid, erano disposte a tracciarsi a mano la mappa di gioco per orientarsi, per scovare tutto quello che la madrina di quelli che diventarono poi conosciuti come videogiochi metroidvania aveva da offrire. Persone abituate al fatto che esplorare luoghi alieni con Samus significhi vivere pericoli e affrontare l'ignoto.

Succede così che Andy Robinson, caporedattore di VGC, ha amato Metroid Dread ma ha fatto sapere di aver impiegato sei ore – sei ore – per riuscire ad avere ragione del boss finale. Lo ha fatto senza stancarsi né lamentarsene, provando e riprovando, svelando così ai lettori che avrebbero trovato pane per i loro denti.

Nelle scorse ore David Jaffe, il papà del franchise God of War, ha scritto sul suo profilo Twitter di essere molto infastidito dall'accento che i videogiochi stanno ponendo sulla difficoltà.

Ha citato gli esempi degli scontri in Kena: Bridge of Spirits, ma anche Returnal e ovviamente Metroid Dread:

«Odio questa mer*a. E non è una questione di età: l'ho sempre odiata. [...] Sembra quasi che gli sviluppatori vogliano spingere via il giocatore».

È la sua ultima frase quella che colpisce di più: la sensazione che gli sviluppatori stiano cercando in qualche modo di spingerti via dal loro gioco, in nome di una difficoltà che sarebbe indice di qualità.

Il nostro Valentino Cinefra ne discusse con voi già da qualche tempo, quando fece notare che la difficoltà non deve essere necessariamente interpretata come sinonimo di qualità, e su questo siamo tutti d'accordo: un gioco difficile perché bilanciato con sapienza può dare tanto, un gioco difficile perché bilanciato con i piedi rischia di volare dal quarto piano.

Jaffe, però, avanza la preoccupazione che gli sviluppatori che creano giochi difficili a tutti i costi, dove il livello di difficoltà non è scalabile come in Metroid Dread, stiano in qualche modo marciando contro loro stessi, col rischio di buttare fuori dalla loro magia parte dei giocatori meno avvezzi alle sfide ardue.

Quando il videogioco deve essere difficile per diegesi

Partiamo dal presupposto che sia complicato definire dove passi la linea di confine tra un videogioco facile e un videogioco difficile. Io potrei o non potrei aver perso cinque chili per completare Bloodborne, altri lo sanno finire con la mano dominante legata dietro la schiena. Quindi il gioco è troppo facile o troppo difficile? Probabilmente e più semplicemente, è strutturato in un modo da incoraggiare un certo tipo di approccio.

È lo stesso tipo di struttura sposato anche da Metroid Dread, sposato anche da Returnal: sono giochi che per come sono costituiti, anche per la loro stessa diegesi, hanno bisogno della difficoltà.

Che "dread" potrebbe mai trasmettere Metroid se non ci fosse davvero un pericolo costante e non si fosse in schiacciante inferiorità? Quale sarebbe l'orrore dell'eterno ritorno a biomi ignoti di Selene in Returnal se questi mondi non fossero davvero, percepibilmente spaventosi e pronti a divorarti viva?

Proviamo a immaginare un Metroid Dread con il selettore della difficoltà, che rende i boss molto più accessibili, gli E.M.M.I. molto più facili da schivare o da contrattaccare. Rimane il bello, lo splendido, dell'esplorazione – questo sì. Ma l'atmosfera cambia e si perde tutto il resto: non si prova quella sensazione mista di inquietudine e voglia di farsi valere, quando parte un nuovo video perché una creatura figlia dell'orrore dilettevole è pronta a farti la festa e devi capire come evitarlo, al costo di provarci cento volte.

In sintesi, allora, è vero: i giochi difficili tagliano fuori una parte del loro pubblico. Ma lo fanno per tenersi coerenti a una cifra stilistica e di atmosfera, che da diegesi si traduce anche nella messa in scena della mimesi, di coinvolgimento, che altrimenti risulterebbe disinnescata. Si potrebbe discutere, certo, del fatto che un giocatore magari possa voler vivere il gioco con quella componente disinnescata, e che quindi la soluzione migliore sarebbe stata inserire un'opzione per decidere il livello di difficoltà.

Si tratta di una possibilità che favorisce anche l'accessibilità, un discorso articolato che vale sempre la pena fare: più giocatori, in questo modo, potrebbero esplorare il pianeta ZTR con Samus e scoprirne le meraviglie e le vicende, senza dover necessariamente mandare messaggi di divertita esasperazione ai compagni di redazione all'ennesima morte da cretina generata da una schivata un po' troppo azzardata o dall'aver sprecato tutti i missili con una pessima mira (cosa che potrebbe o non potrebbe essere successa realmente, ndr).

La domanda, allora, diventa questa, e solo gli sviluppatori possono dare una risposta: ha senso, quando la difficoltà fa parte del mondo di gioco e di come questo è caratterizzato, inserire un selettore di difficoltà che consenta a una certa parte di giocatori di accedere comunque al gioco, sebbene così sia praticamente un gioco-altro rispetto a quello concepito dagli autori?

Tipologie di giocatori, tipologie di giochi

C'è anche un altro aspetto che forse stona con l'idea del videogioco odierno che vuole e deve vendere a più persone possibili, ed è il fatto che non possiamo pensare che tutti i videogiochi siano per tutti i videogiocatori. Lo dico contro il mio interesse, da persona che non metterebbe i giochi super-difficili in cima alla sua lista dei preferiti – ma che ora come ora probabilmente darebbe proprio a Metroid Dread il suo game of the year.

L'idea che i giochi difficili tengano lontana una certa fetta di persone si può applicare praticamente a qualsiasi gioco: The Last of Us - Parte II è troppo violento, allontana i giocatori sensibili. Death Stranding è troppo calmo, allontana i giocatori votati all'azione. Nel già citato Lake non si fa altro che portare pacchi e ascoltare chiacchiere e anche in questo What Remains of Edith Finch cos'altro si fa se non camminare? Ci si potrebbe concedere un po' di Call of Duty: Warzone, certo, ma dopotutto lì non si fa altro che sparare per vincere, per i giocatori più esplorativi cosa rimane?

C'è un ventaglio verso cui ogni videogioco si apre ed è abbastanza evidente che in questo momento ci sia una concentrazione importante anche sulla riscoperta del giocare come sfida, oltre che del giocare come escapismo.

Può essere un motivo per cui uno sviluppatore sceglie coscientemente di non inserire un'opzione per il livello di difficoltà: perché il suo gioco altrimenti perderebbe un suo punto nevralgico, e perché non gli interessa venderlo a chi di quel punto nevralgico non è il target.

Giocare videogiochi difficili, lo dicemmo anche nell'articolo precedente di Valentino, non significa affatto avere il distintivo di "vero giocatore". Ognuno gioca i titoli che preferisce nella sterminata offerta del mercato odierno. Ma costringere ogni gioco a essere per tutti, nel fattore difficoltà, ci farebbe perdere qualcosa: gli sviluppatori hanno diritto di creare esperienze complesse incentrate sulla sfida, se fa parte della loro idea.

Rimane, però, la domanda del paragrafo precedente, legata puramente all'accessibilità, più che alla liquidità di una sfida che si adatta alla forma del recipiente: Nintendo è la stessa che ha inserito un "cheat" nelle opzioni di giochi come Yoshi Crafted World, consapevole che parte del suo pubblico si divertirà di più non dovendosi preoccupare di morire.

Probabilmente avrebbe potuto fare qualcosa di simile qui non tanto per fare felice chi è stato messo in fuga dalla sfida dello splendido Dread, a cui il gioco non si rivolgeva, ma per chi può andare incontro a difficoltà oggettive davanti a un combat system in tempo reale che perdona poco o niente. In questo caso l'idea che un videogioco difficile debba ricordarsi anche di essere facile aveva senz'altro senso.

Il discorso in questo caso è molto articolato e merita approfondimenti a parte, ma l'idea che semplicemente giochi come Returnal, ma anche quel Demon's Souls in cui moltissimi si sono incagliati all'inizio (non dite che non vi avevamo avvertito), non vogliano rivolgersi a tutti – esattamente come un Dogville non riempie le sale – rimane.

Puoi adattare qualcosa, aggiungerci le pareti e girarlo come un film qualsiasi, certo. Ma a quel punto non stai più guardando Dogville.

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