Naughty Dog: la lunga storia da Ski Crazed a The Last of Us - Speciale
Ripercorriamo la storia di uno degli sviluppatori più celebri e acclamati della videoludica contemporanea: Naughty Dog
a cura di Adriano Di Medio
Redattore
Sono gli autori di alcuni dei personaggi e delle serie più famose della videoludica contemporanea, e nel corso della loro carriera trentennale sono stati in grado di crescere anche e soprattutto a livello concettuale. Parliamo ovviamente dei Naughty Dog, i cani dispettosi di Sony. Ormai vicini alla pubblicazione di The Last of Us Part II, vogliamo ripercorrere la carriera di questi affamatissimi sviluppatori, dagli esordi fino ai giorni nostri.
1984-1988: primi tempi tra sci e sogni, JAM e Naughty Dog
La fondazione dei Naughty Dog risale al 1984, e sembra quasi una storia già troppe volte raccontata: in un garage californiano, due amici sedicenni di nome Andy Gavin e Jason Rubin vogliono trasformare la loro passione per la programmazione in qualcosa di concreto, iniziando a scrivere videogiochi per l’allora innovativo Apple II.
Il nome della neonata azienda viene deciso in JAM Software (acronimo di Jason and Andy’s Magic) e il loro primo lavoro “serio” è Ski Crazed, videogioco a tema sciistico che leggenda vuole sia venuto fuori in un solo weekend. Pure se sviluppato in poco tempo e facendo i conti con un’inevitabile disorganizzazione, raggiunge le 1500 copie e il publisher Baudville si interessa al gioco e ne compra i diritti.
Con questi primi guadagni Andy e Jason si convincono a investire il loro tempo e nel 1988 decidono di sperimentare. Ne nasce la surreale avventura grafica Dream Zone, ospitata sull’Apple IIGS, Atari ST e sull’Amiga (oltre che su MS-DOS). Nonostante le premesse, il gioco va inaspettatamente bene, piazzando diecimila copie e facendo entrare nelle casse di JAM Software ben quindicimila dollari.
Per due diciassettenni sono cifre astronomiche, ma Andy e Jason si rendono anche conto che Baudville è una realtà troppo piccola e decidono di cercarsi qualcun altro. Di qui l’idea di cambiare nome alla compagnia, apposta per “sganciarsi” dal passato. Leggenda dice che a ispirarli fu Morgan, il vivace labrador nero di Jason Rubin, e da qui derivò Naughty Dog, che appunto significa “cane monello” o “cane dispettoso”. Dove Morgan sarebbe divenuto la mascotte reale dello studio, il logo Naughty Dog viene affiancato dall’immagine fumettosa di un cagnolone antropomorfo con gli occhiali (da sole o a specchio, a seconda delle occasioni).
1989-1993: il college, lo hiatus e il momento peggiore
Con loro somma sorpresa, a rimanere impressionata da Dream Zone è Electronic Arts, che obbedendo alla vecchia politica del “trattar bene gli sviluppatori” fa tutto il possibile per metterli a loro agio anche da un punto di vista finanziario. Una scelta rischiosa: la produzione di Keef the Thief (uscito nel 1989) presto lievita da 15.000 a quasi 50.000 dollari, numeri per i tempi abbastanza azzardati.
Nell’industria videoludica di fine anni ottanta infatti circolavano relativamente pochi soldi, quindi se da un lato non c’era spazio per troppi “colpi di testa”, dall’altro per tornare in pari o guadagnarci non erano necessari grossi volumi di vendita. Alla fine Keef the Thief va molto bene con cinquantamila copie, anche se Gavin e Rubin cominciano a risentire delle ingerenze del loro editore, che hanno un impatto pur se alla fine abbastanza bonarie.
Il punto di rottura arriva pochi anni dopo: nel 1991 esce sul Sega Genesis il loro ambiziosissimo Rings of Power, che segna un nuovo ingigantirsi di tempi e costi (si sfiorano i tre anni e i 150.000 dollari). Sviluppato “da remoto” mentre Andy e Jason frequentano il college in stati differenti, è un serioso RPG fantasy in cui uno stregone doveva collezionare undici anelli del potere per sconfiggere un dio maligno.
Pure se il lavoro investito viene controbilanciato da un buon risultato commerciale, che esaurisce in tre mesi la prima tiratura di centomila copie, EA si rende conto che il genere degli RPG è troppo difficile da vendere e ciò li fa giungere alla decisione di non stampare una seconda tiratura. Questa notizia è una doccia molto fredda per i Naughty Dog, che per la prima volta decidono di sospendere lo sviluppo videoludico.
Gavin si dedica a seguire un dottorato in Massachusetts, Rubin si trasferisce per un periodo in California, dove pare quasi imboccare la strada degli effetti visivi cinematografici. Ma ecco che arriva l’inaspettato: Trip Hawkins, già fondatore originario di EA, sta realizzando la console 3DO e li vuole sul suo sistema. Di nuovo, è un azzardo che riunisce i due giovincelli all’epoca neolaureati e li spinge a tentare l’impossibile: sviluppare qualcosa senza avere ancora trovato un editore.
L’esigenza di un progetto attraente ma che possa anche essere meno impegnativo di un RPG li porta alla strada del picchiaduro, sulla scia del successo di Street Fighter II e del primo Mortal Kombat, uscito nel 1992. Proprio da quest’ultimo decidono di trarre l’ispirazione maggiore, ma le prime conseguenze di aver iniziato i lavori senza editore non tardano ad arrivare.
Jason si convince a raggiungere l’amico e collega a Boston per evitarsi un altro lavoro da remoto, ma lo sviluppo di quello che diverrà noto come Way of the Warrior obbliga a reinvestire tutti gli utili di Rings of Power, ovvero 80.000 dollari. Pure così si tratta di un capitale misero, cosa che costringe lo studio a compromessi da competizione.
Rubin ricorda chiaramente che quel periodo fu il peggiore in assoluto: Naughty Dog era con un piede nella bancarotta e furono costretti a metterci dentro i loro risparmi. Il fatto di non avere budget li costrinse a chiamare amici e parenti per interpretare i personaggi (che, come in MK, erano fatti digitalizzando dei veri attori) e ad arrangiare in maniera casalinga i loro costumi (c’è chi sostiene avessero usato pure federe da cuscino e degli Happy Meal). Il punto più grottesco arrivò però durante le riprese: messa la telecamera sul pianerottolo perché l’appartamento era troppo piccolo, dopo un po’ ricevettero proteste da parte dei vicini perché credevano stessero girando una pellicola pornografica.
1993-1998: l’amatissimo topo arancione
La ricerca di un publisher per il faticosamente terminato Way of the Warrior viene ipotizzata dai Naughty Dog come l’ennesima corsa contro tempo e soldi. E invece questo loro macilento clone di Mortal Kombat attira le attenzioni di ben tre compagnie: 3DO stessa, Crystal Dynamics e Universal. Pure se all’inizio sembrava fatta con la Crystal Dynamics, alla fine a spuntarla è Universal, con un’offerta praticamente irrinunciabile: copertura finanziaria per tre videogiochi, lavorare a Los Angeles e piena libertà creativa. Ad avere peso in questa decisione c’è Mark Cerny, futuro fautore anche degli Insomniac (e del loro Spyro) ma oggi famoso per essere uno degli ingegneri dietro PlayStation 4 e la futura PlayStation 5.
Andy Gavin e Jason Rubin accettano l’offerta di Universal e si trasferiscono a Los Angeles. Nel percorso, reclutano altre sei persone che poi diverranno importantissime per lo studio. Gli otto Dogs arrivano in California e cominciano a pensare a come mettere su qualcosa con la grafica 3D su una piattaforma (Saturn, PlayStation o il futuro Nintendo 64) dove l’action-adventure fosse ancora inesplorato. Dopo aver visto a Las Vegas la prima PlayStation in azione, a fare la differenza è proprio la presenza o meno di una mascotte: solo la console Sony non ce l’ha, quindi la scelta ricade su di lei. Sono le scintille di quello che diventerà Crash Bandicoot.
La storia di questo personaggio è stata più volte raccontata, quindi meglio limitarci al riassunto: ispirati da Donkey Kong Country e da Sonic, i Dogs decisero di fare un videogioco “a scorrimento” ma con il protagonista visto da dietro e non di lato. Aiutati nel design da Charles Zembillas (che poi avrebbe creato anche Spyro e Daxter) alla fine decisero di utilizzare il poco conosciuto marsupiale onnivoro australiano bandicoot (per quanto a lungo si fosse pensato al vombato).
Attraverso una serie di accorgimenti di programmazione di Andy Gavin e al supporto del CD, Crash Bandicoot è in grado di gestire un’immagine non solo dettagliata ma soprattutto così incredibilmente evocativa che, quando il gioco viene mostrato per la prima volta, la gente non credette che la prima PlayStation potesse gestire una tale grafica e pensò avessero “barato” usando dei PC.
Dopo tre anni di lavoro, la maggior parte dei quali dedicati proprio allo sviluppo della tecnologia, Crash Bandicoot arriva su PlayStation nel 1996 ed il successo è istantaneo. A contribuire a tutto ciò vi è anche la tempistica da parte dei Naughty Dog, usciti col marchio giusto al momento giusto. Crash era infatti un personaggio molto “di rottura” rispetto alla concorrenza: ai colori pastello, alle atmosfere dolci e ai personaggi giocondi rispondeva con la sua natura di irrequieto topo gigante geneticamente modificato, che deve salvare la sua ragazza dallo stesso scienziato pazzo che lo ha creato insieme al suo esercito di animali mutanti.
È a questi tempi che risale l’aggiornamento più importante del logo dei Dogs, con la scritta bicromatica e l’impronta rossa. Il cagnolone con gli occhiali viene racchiuso in un tondino, ma dopo il 1996 non verrà più utilizzato.
Finalmente, Crash Bandicoot regala a Naughty Dog la tanto agognata tranquillità economica. Ciò comunque non li ferma, e il fatto di avere una tecnologia da migliorare e non da scrivere da zero permette di accelerare di molto lo sviluppo. Nel 1997 esce Crash Bandicoot 2: Cortex Strikes Back, e nel 1998 la trilogia viene completata con Crash Bandicoot Warped.
Allo stesso tempo è in questi anni che si va definendo quello che sarà una delle maggiori “costanti stilistiche” dei Naughty Dog. In quasi tutte le loro IP il primo capitolo è caratterizzato da un alone particolarmente esotico e tribale, il secondo si muove verso la modernità e infine il terzo sfocia nel fantascientifico oppure nel “futuro prossimo”. Eventualmente c’è anche la produzione di un quarto capitolo, che invece si occupa di chiudere definitivamente le vicende.
1999-2004: CTR, Jak e la fine della prima epoca Naughty Dog
Con Crash Bandicoot 3, il contratto con Universal era ufficialmente estinto. E, allo stesso tempo, i rapporti tra lei e i Naughty Dog non erano più così idilliaci. Stressati dai folli ritmi di lavoro e frustrati dall’iniqua divisione dei profitti imposta loro dall’editore, i Dogs decidono ancora una volta di cercarsi qualcun altro. Un processo che però stavolta avrebbe richiesto un po’ di tempo in più, visto che lo studio aveva appena recuperato una vecchia idea accennata ai tempi di Crash 2: un videogioco di kart.
Stavolta è di Sony l’idea di trasformarlo in un capitolo di Crash e ad occuparsi dell’accordo con la Universal, rimasta in possesso dei diritti di sfruttamento del personaggio. I Naughty Dog quindi si dividono in due: la maggior parte del team mette insieme l’oggi noto Crash Team Racing (CTR), uscito nel 1999 dopo solo otto mesi di sviluppo, mentre Andy Gavin coordina un esiguo numero di fidati dipendenti su un progetto segreto chiamato Y.
Con la sua trama che è poco più che un pretesto e il suo cattivo improbabile (l’alieno superveloce Nitros Oxide), Jason Rubin avrebbe successivamente ammesso che CTR era un deliberato tentativo di rendere il franchise di Crash intoccabile per molti anni, un “salto dello squalo” che però sortì l’effetto opposto.
Lo stesso Mark Cerny, trovando discutibili le decisioni di Universal, se ne sarebbe andato a sua volta poco dopo aver completato Crash Bash (2000). È poi nel medesimo anno che si decide un altro grande passo: Naughty Dog viene venduta a Sony, il che sancisce anche ufficialmente il fatto di essere uno degli sviluppatori esclusivi più importanti di PlayStation.
Pure al netto della poca serenità con gli editori, in questi tempi entrano in Naughty Dog futuri nomi importanti. La casa era infatti rimasta in buoni rapporti con Crystal Dynamics, e proprio da loro in quegli anni provengono tre personalità cruciali: Amy Hennig, Bruce Straley ed Evan Wells. Insieme a Neil Druckmann (che arriverà nel 2004) sono le personalità dell’era “contemporanea” di Naughty Dog, destinata di lì a poco ad aprirsi.
Archiviato definitivamente Crash Bandicoot, lo studio ha infatti bisogno di qualcosa di nuovo e lo trova proprio in quel fantomatico Progetto Y di Andy Gavin, che ben presto diviene noto come Jak & Daxter: The Precursor Legacy. Uscita nel 2001, la prima avventura di questa “strana coppia” è un altro salto importantissimo per lo studio, in quanto gli permette di osare con ambientazioni aperte, regia e recitazione virtuali. Il salto è così potente da essere diventato praticamente immune alla vecchiaia, e ne abbiamo approfonditamente parlato.
Di nuovo, si configura il medesimo modus operandi della precedente trilogia (tribale, moderno, fantascientifico) ma stavolta il salto viene giudicato molto meno naturale rispetto a quanto avvenuto con Crash. La mole di lavoro per la Haven City di Jak II: Renegade è controbilanciata da una sceneggiatura non perfetta e molti interrogativi del primo gioco che rimarranno irrisolti. Tra l’altro Morgan, il cane indirettamente responsabile del nome dello studio, muore durante lo sviluppo.
Il gioco comunque è un grande successo, e la trilogia si riprende con la degna conclusione nel 2004, il Jak 3 ambientato in un mondo ancora più immenso. Ma allo stesso tempo, il 2004 è anche l’anno in cui si consuma la frattura: Jason Rubin, dopo aver completato Jak 3, alla D.I.C.E. di quell’anno esprime tutto il suo disappunto nei confronti degli editori e del loro «poco rispetto nei confronti di chi i videogiochi li crea» – una premessa che poi coincide con il suo abbandono, dopo oltre diciotto anni, della sua creatura Naughty Dog. Chiaramente il suo amico e collega Andy Gavin lo segue dopo poco.
2005-2011: l’avventuriero Drake
Andy e Jason, come loro solito, si sarebbero poi reinventati in altri modi. Pur continuando insieme con le idee per lo sviluppo videoludico, Andy nel 2012 ha tentato la carriera di romanziere fantasy, mentre negli stessi anni Jason avrebbe cercato (non riuscendoci) di salvare THQ dalla bancarotta.
Pure se l’abbandono dei suoi fondatori lascia le sue cicatrici, Naughty Dog deve comunque andare avanti. Pur con la settima generazione alle porte, lo studio decide di dare anche a Jak un’avventura in più, ributtandosi di nuovo nel videogioco di corse. Ne nasce Jak X: Combat Racing, che serve al nuovo team per carburare e dare una conclusione “migliore” alla storia di Jak. A dirigerlo infatti c’è Amy Hennig, già co-regista di Jak 3, la quale però sta già progettando l’esordio su settima generazione: e come ormai è divenuto classico per lo studio, si tratterà di un nuovo stravolgimento.
Il lavoro non è semplice e costringe ad accantonare gli sforzi su un possibile sequel-reboot di Jak and Daxter (che sfoceranno nel 2009 nell’anonimo Jak and Daxter – Una sfida senza confini degli High Impact Games) per concentrare tutti gli impiegati su PlayStation 3.
Amy Hennig, affiancata da Druckmann e da Straley (alla scrittura e alla grafica rispettivamente), alla fine del 2007 completa e pubblica Uncharted: Drake’s Fortune. Oltre che un passaggio netto dal fantasy e dal fantascientifico-cartoonesco verso un insistito realismo, l’esordio di Nathan Drake è un grande tributo ai film e ai videogiochi d’avventura degli anni precedenti, oltre che a tutta la letteratura “romantica” dell’avventura in luoghi sconosciuti che nascondono antichi tesori.
Traendo palesi ispirazioni sia da Indiana Jones che dai Tomb Raider, il nuovo mattatore di Naughty Dog viene interpretato da Nolan North e riscuote un inedito successo anche presso il pubblico femminile.
Pure se sofferente di una certa inesperienza nel genere e di una dissonanza ludonarrativa piuttosto insistita, l’approccio ingenuo e spaccone ma genuino di Nate dona a Naughty Dog il terreno fertile per inaugurare una seconda trilogia, portata avanti due anni dopo con Uncharted 2: Among Thieves (in italiano noto come Uncharted 2: il Covo dei Ladri).
Dopo aver trovato l’El Dorado nel primo capitolo, il buon Nate si ritrova coinvolto nello scoprire i segreti di Marco Polo e l’esistenza di Shambhala, leggendario regno della tradizione tibetana. Oltre all’inclusione per la prima volta del multigiocatore, curiosamente è qui che avviene l’ultima modifica del logo dello studio: la zampa rossa rimane al suo posto, ma i colori di fondo e scritta vengono invertiti.
Ancora adesso considerato da molti come il migliore della serie, in Uncharted 2 Amy Hennig viene affiancata alla regia da Bruce Straley, ma dopo i due sono di nuovo “costretti” a separarsi. Incassato il successo il team Naughty Dog si divide: Amy continua con Nathan, mentre Bruce Straley viene affiancato da Neil Druckmann e messo su qualcosa di nuovo.
Il lavoro di Hennig arriva a suo compimento nel 2011, con la pubblicazione di Uncharted 3: Drake’s Deception (in Italia tradotto come Uncharted 3: L’Inganno di Drake). Di nuovo, il team spinge la tecnologia al limite, applicandola stavolta a un’ambientazione prevalentemente desertica. Pure con vendite altissime (sei milioni di copie in quattro anni) e la critica prodigata in un’acclamazione praticamente universale, non manca comunque qualche malumore da parte dei fan, soprattutto riguardo il finale.
2013-2016: quando Naughty Dog osa…
Dopo essere entrato in Naughty Dog nel 2003, Christophe Balestra era stato negli anni promosso a vicepresidente, mentre Evan Wells era diventato a sua volta co-presidente ai tempi di Jak 3. Erano stati loro due a “prendere da parte” Neil Druckmann e Bruce Straley per farli lavorare, ancora una volta, a qualcosa di totalmente nuovo.
La storia si ripete: di lì a pochi anni sarebbe stato il turno di PlayStation 4, e stavolta il progetto avrebbe avuto il possibile doppio ruolo tra chiusura della precedente generazione e inizio della successiva. Neil si portava dietro dall’università l’idea di storia ambientata in un mondo successivo a un’apocalisse zombie. Con l’influenza della cinematografia di Romero, in questa sua visione a fare da padrone non era il contesto, ma la costruzione del legame tra due protagonisti emotivamente complementari (di chiara ispirazione a quanto aveva ai tempi fatto Fumito Ueda con ICO). A fare da collante fu la visione di un documentario che parlava dei funghi di genere cordyceps e dei loro effetti psicotropi e parassitari sugli insetti. Immaginandoli come applicabili anche agli umani, ecco che il contesto iniziò a delinearsi.
Nel 2013 quindi uscì in tutto il mondo The Last of Us, un survival dalle tinte horror pesantamente incentrato sulla trama e sulla costruzione del legame emotivo tra il ferito Joel (che ha perso la figlia il giorno dello scoppio della pandemia) e la giovane Ellie, nata invece nel mondo già infettato ma di cui potrebbe essere una via d’uscita. L’impatto è enorme, e lo è soprattutto a livello umano ed emotivo.
Dove con gli Uncharted i Naughty Dog avevano in un certo qual modo “coccolato” il loro pubblico, dipingendo un incedere leggero e romanzesco, The Last of Us fa l’esatto contrario: la sua trama prende a pugni nello stomaco il giocatore dall’inizio alla fine. La costruzione emotiva dei due protagonisti evidenzia l’ideale della vita che va avanti nonostante e malgrado tutto. Come ulteriore approfondimento viene poco dopo pubblicato il contenuto aggiuntivo Left Behind, incentrato su Ellie e sulla sua storia prima di incontrare Joel.
Naughty Dog inanella quindi un altro successo, tanto che il gioco viene rimasterizzato l’anno dopo su PlayStation 4, segnando simbolicamente (insieme a Tomb Raider Definitive Edition) l’inizio della controversa politica dei porting e remaster su ottava generazione.
Allo stesso tempo però, di nuovo qualcosa si muove negli studi del cane monello: Amy Hennig, aiutata da Justin Richmond, aveva iniziato a lavorare a un quarto capitolo di Uncharted poco dopo l’uscita del terzo. Una volta che però Straley e Druckmann hanno finito con The Last of Us, la direzione dello studio li mette repentinamente alla regia del progetto, sostituendo Hennig.
Quest’ultima se ne andrà proprio nel marzo 2014, lasciandosi uno strascico di disappunto e punti oscuri. Di contro, i due nuovi direttori del progetto cambiano notevolmente quanto fatto da Hennig e Richmond, trovandosi con meno tempo a disposizione per dargli un senso. Progettato fin da subito per essere l’ultima avventura di Nathan Drake, Uncharted 4: A Thief’s End (Uncharted 4: Fine di un Ladro) esce nel 2016, rivelandosi come un gioco molto più maturo dei suoi predecessori. Bruce e Neil vi riversano infatti la propria esperienza di The Last of Us, dipingendo un Nathan ormai più saggio, che deve fare i conti sia con la propria passione viscerale di cacciatore di tesori che col desiderio di una vita normale per sé e per sua moglie Elena.
2017-oggi: eredità da ritrovare e la seconda parte
Come prevedibile, Uncharted 4 è un altro enorme successo per Naughty Dog, sia di critica che di pubblico. Ma allo stesso tempo porta anche a galla ulteriori problemi a livello di dinamiche lavorative: il cambio di direzione imposto nel 2014 infatti obbliga il team di sviluppo a ricominciare da capo su molte cose, cosa che si traduce in orari lavorativi proibitivi per tutti.
Non a caso, nel 2017 è proprio Bruce Straley che, ancora sofferente per lo stress provocato dallo sviluppo di Uncharted 4, decide a sua volta di lasciare la compagnia. Insieme a lui se ne va anche buona parte del team di design, i cui membri erano a loro volta duramente segnati dal superlavoro.
Il problema di quello che verrà definito come crunch-time verrà portato all’attenzione del pubblico generalista proprio da questi fatti, emergendo con più insistenza anche per altri studi di sviluppo. Nello stesso tempo, anche Christophe Balestra abbandona la vicepresidenza della compagnia: Evan Wells diviene quindi presidente unico di Naughty Dog, incarico che mantiene ancora oggi.
A parte Wells, a rappresentare quella che era stata la “seconda generazione” dei Naughty Dog è rimasto quindi solo Neil Druckmann, che comunque riprende a lavorare sulla creatura che gli aveva portato fortuna. In ogni caso Uncharted rimane un buon punto di partenza, e va mantenuto vivo. Il tentativo che viene fatto è quello di slegare Uncharted dal personaggio di Nathan Drake, forse ricercando nel brand il significato più generico di “avventura” e non di saga.
Visto il lavoro parallelo di Druckmann, i direttori Kurt Margenau e Shaun Escayg accantonano l’idea di un “Uncharted 5” e decidono di sviluppare una storia più piccola e psicologica: ne nasce Uncharted: l’Eredità Perduta, opera derivata incentrata sulle due comprimarie Chloe Frazer e Nadine Ross e la loro avventura in India. Inizialmente nato come un contenuto aggiuntivo per Uncharted 4, L’eredità perduta viene presto convertito in prodotto a sé.
L’uscita di Lost Legacy nel 2017 è, attualmente, l’ultima pubblicazione dei Naughty Dog. Il brand di Uncharted aveva comunque avuto un’altra opera derivata qualche anno prima: nel 2011 era infatti uscito Uncharted: l’Abisso d’Oro, sviluppato da Bend Studio e titolo di lancio per PlayStation Vita. Nonostante le recensioni favorevoli, quest’avventura di Nate era velocemente caduta nel dimenticatoio insieme alla console che la ospitava.
Alla fine, poco dopo Lost Legacy, il lavoro di Neil Druckmann si rivela essere il tanto agognato The Last of Us Part II. I trailer vengono pian piano pubblicati nel corso degli anni successivi, segnando il ritorno di tutte le personalità storiche del precedente capitolo (sia artistiche che tecniche) e dipingendo un progetto che già adesso si è più volte dimostrato come il più grande mai fatto dallo studio. Il trailer più recente è stato diffuso a inizio maggio 2020, seminando altri indizi di una Ellie ormai cresciuta e di un Joel invecchiato, fino al ritorno del cast di doppiatori originale anche per la versione italiana. Il gioco verrà distribuito il 19 giugno 2020 e il trailer di lancio promette tanta, tanta rabbia.
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L’attesa per l’uscita di The Last of Us Part II è, al momento in cui scriviamo, il nostro presente. La storia dei Naughty Dog è quasi un romanzo, il sogno di due ragazzi con la passione per Apple II che appena adolescenti hanno voluto fare videogiochi. Ma è anche la storia di un’ambizione bruciante e senza limiti, di azzardi e di abbandoni, di geniali intuizioni e un pizzico di furbizia. Uno studio che però ha sempre fatto le cose che voleva fare, capendo anche con molto anticipo quelle che sarebbero state le direzioni di industria, pubblico e critica.
Dopo un recente rimando a data da destinarsi per via della pandemia Covid, è ormai ufficiale che The Last of Us Part II verrà distribuito il 19 giugno 2020. Ancora non sappiamo se sarà il perfezionarsi di una trilogia oppure se sarà l’opera magna di Druckmann; possiamo però esser certi che il “cane monello” continuerà ad avere il coraggio di osare.