Ce ne ha messo di tempo, ma alla fine ce l'ha fatta: Prince of Persia è tornato. È tornato, forse, in una modalità che non ci saremmo aspettati di vedere applicate ad una serie tanto longeva e amata; non quella, di certo, che avremmo tutti auspicato per il suo ritorno.
Nel mare magnum di termini inglesi di cui spesso abusiamo quando parliamo di videogiochi, “remake” sarebbe stato presumibilmente nella classifica dai quali avremmo pescato, ma di sicuro non in cima alla lista. Il primo che ci sarebbe saltato in testa, ammettiamolo, sarebbe stato “reboot”, per un riavvio completo di un franchise che, complice la prolungata assenza dalle scene, avrebbe avuto bisogno di ricominciare daccapo, riannodare per bene il filo che la lega all'utenza, sua storica e nuova, e mostrarsi in una veste davvero moderna.
Invece, Ubisoft ha optato per un remake del primo episodio della proprietà intellettuale sotto la sua gestione, quel Le Sabbie del Tempo che risale ormai al 2003 – la generazione di PS2, Xbox e GameCube, per intenderci.
Un'operazione, comprensibilmente, che servirà per tastare il terreno e capire quanto quelle voci che si levano dai forum e dai siti di videogiochi siano numerose o costituiscano la famosa minoranza rumorosa che fa tutto fumo e poco (o niente) arrosto, e che negli anni ha rifilato degli autentici bidoni a publisher, piaccia o meno, dalle risorse limitate o quantomeno tutt'altro che infinite.
Un'operazione che, però, parte col piede sbagliato e lo fa in un modo che probabilmente dirà poco dell'apprezzamento dei fan del franchise, perché con un reveal di qualità tanto scadente è difficile che si riescano ad attirare giocatori – che siano vecchi, delusi da un simile trattamento di uno dei loro titoli preferiti, o nuovi, evidentemente non catturati dalla povertà in tutta franchezza sorprendente del rifacimento.
La situazione di Ubisoft
A Ubisoft mi lega un rapporto decennale, che nasce ben prima dell'era Assassin's Creed – quella che, nella mia visione, lo ammetto, un po' da vecchio trombone, ha segnato l'inizio della fine in cui l'editore transalpino versa da qualche tempo. Erano i tempi del Rainbow Six originale, quando quel nome portava alla mente i grandi sparatutto tattici single-player e non il pur rispettabile solo multiplayer di oggi, la norma per la meglio gioventù degli anni 2010 e 2020 ma così strano per chi ha visto quella proprietà intellettuale sorgere.
In virtù di quel rapporto, che continuo a coltivare nonostante i tanti singhiozzi, mi sono occupato recentemente di Assassin's Creed Valhalla – a proposito, ho apprezzato la svolta ruolistica dell'IP, che almeno le conferisce una dimensione più profonda, dopo che si era smarrita alla fine della trilogia di Desmond Miles -, Watch Dogs Legion, pure lui paradossalmente al suo appuntamento più ispirato dopo due buchi nell'acqua, e Immortals: Fenyx Rising, il fu Gods & Monsters che è stato inevitabilmente normalizzato dopo il pitch originale dell'E3 2019 che era parso più coraggioso nel ricalcare le orme di un open world tanto atipico come The Legend of Zelda: Breath of the Wild.
È innegabile, però, che in Ubisoft ci sia qualcosa che non funzioni, e che buona parte di quel “qualcosa” risieda nel modo in cui è stata condotta l'azienda finora. Mi spiace terribilmente dover rimarcare la cosa, anche perché ho da sempre una grande simpatia a pelle per Yves Guillemot, ma lo scandalo su molestie e ambiente di lavoro tossico ha avuto ripercussioni fortissime sul portfolio della casa francofona, con impatti che ci vorranno anni per scrollarsi di dosso (se mai succederà).
Abbiamo letto con sbigottimento le condotte misogine che hanno regolato le uscite del gigante dell'editoria videoludica nei tempi più recenti, filosofie per cui le donne nel gaming non vendono e quelle che ci lavorano sono dipendenti di serie B da ridicolizzare ad ogni occasione utile, così come le mentalità antiquate che hanno fatto sprecare occasioni spettacolari, come la nuova IP di uno dei creatori di Dragon Age in stile Monster Hunter ambientata ai tempi di Re Artù cancellata perché non aderiva (troppo) ai soliti stantii standard, per arricchire un catalogo che spicca per tutto fuorché per la varietà.
Il problema non è la mancanza di coraggio, che porta a remake dal budget dubbio anziché a reboot convinti come quello di Prince of Persia, ma la sistematicità di questa mancanza di coraggio, che è stata dettata per anni da una vera e propria linea di base per cui questo sì e questo no, e non si discute. Ora che quei vertici fuori dal mondo sono stati decapitati, sarebbe il caso si desse il via ad una ricostruzione, radicale e radicata, per la quale, appare evidente, passa la sopravvivenza stessa di una compagnia un tempo nota per la sua creatività, adesso per la sua incomprensibile tendenza al riciclo.
La lunga strada per il ritorno
È per tutto questo che è passato il ritorno di Prince of Persia, che si è celebrato al secondo Ubisoft Forward. Una proprietà intellettuale dal forte connotato storico, ovvero con un connessione col passato tanto capillare, veniva vista come difficilmente piazzabile nel mercato odierno, in cui il publisher si è creato una propria identità come la casa degli open world e delle esperienze multiplayer “estreme”, senza se e senza ma, come Rainbow Six Siege e Steep.
Un processo che ha ignorato come, nel mentre, altri giganti dei videogiochi reinventavano le proprie IP nate in epoche diverse come esperienze single-player lineari o tematicamente fuori tempo massimo, foriere di visioni machiste che, se mai hanno avuto davvero una risonanza con un piccolo che a volte andrebbe semplicemente educato, a riguardarle oggi sono soltanto imbarazzanti.
Penso a God of War, dato per morto dopo Ascension e invece risorto grazie all'audace visione di Cory Barlog che lo ha portato sotto la neve della mitologia nordica, gli ha dato un figlio e ampie sezioni sandbox in cui uscire dal seminato del golden path, e penso anche a Gears of War e Halo, che con le ultime iterazioni (Gears 5 già disponibile, Halo Infinite rinviato al 2021 di recente) si sono sforzati di ridare un posto nel mondo moderno a proprietà intellettuali storiche anziché rifugiarsi in blandi non sappiamo che farci.
È questo ciò che delude di più dell'atteggiamento di Ubisoft: un editore che ha reso la norma l'approccio open world nelle produzioni tripla-A sta venendo meno quando c'è da fargli fare il salto di qualità, si sta accontentando, e nel farlo non sta capendo che quella stessa formula che ha contribuito a rendere lo standard negli ultimi anni potrebbe darle una mano, se sfruttata in maniera intelligente e con un focus sulla narrazione, e perché no sulla connettività, anziché sul riempimento ossessivo delle mappe, nel rievocare degnamente i fasti di un Prince of Persia o uno Splinter Cell.
Non mi prendo in giro da solo, però, e vi invito a fare lo stesso: stiamo parlando di un'azienda quotata in borsa, che ha da dar conto ad azionisti e investitori affamati di ritorni immediati, e che per questa sua stessa ambiziosa natura fatica a sobbarcarsi rischi di sorta. È il paradosso degli sviluppatori che acquisiscono fama per il loro ingegno quando sono piccoli o indie e si appiattiscono non appena acquisiscono una dimensione superiore e dovrebbero riconfermare non tanto se stessi, quanto la loro inventiva (e lo stesso potremmo dire per cinema, serie TV, libri) – qualcosa a cui raramente si sfugge, e che ci fa tenere in considerazione ancora più alta Hideo Kojima e il suo Death Stranding.
La multinazionale di Assassin's Creed lo ha fatto capire più volte: i fondi per investire in una visione fedele all'originale per Prince of Persia e Splinter Cell non ci sarebbero stati. «Non posso fornire informazioni in questo momento, ma posso dire che stiamo lottando per avere risorse. Non è una questione di volontà, è una questione di mezzi», aveva spiegato Serge Hascoet, l'uomo degli scandali alla guida del team editoriale, nel 2018.
Fa specie sentire un'azienda tanto esposta parlare di risorse, che siano umane – conta decine di studi sparsi per il mondo – o economiche, specialmente perché, se pure fosse vera tale carenza, si potrebbe sempre ricorrere ad una buona dose di creatività, come ha fatto Bethesda con Sony per Deathloop e GhostWire Tokyo o la stessa Ubisoft in passato per Splinter Cell Conviction con Microsoft e, si vocifera, in futuro sempre per la serie di Sam Fisher con Facebook per un'esperienza VR.
Insomma, fosse davvero un problema di soldi, quand'anche si finisse a discutere di una pratica che non mi entusiasma come le esclusive a tempo, chi meglio di un publisher di queste dimensioni saprebbe come trovare la quadra? Il problema è invece evidentemente l'assenza di una visione abbastanza convinta e convincente da rimettere in piazza queste proprietà tanto in vista, per le quali l'asticella delle aspettative è posta molto in alto e qualunque operazione potrebbe trasformarsi in una lama a doppio taglio – proprio com'è successo con il remake di Prince of Persia: Le Sabbie Dimenticate.
Il caso di Prince of Persia è poi ancora più complesso rispetto a quello di Splinter Cell, dal momento Ubisoft ha acquisito il marchio soltanto in un secondo momento (nei primi anni 2000) e versa ancora delle royalty al creatore della serie, Jordan Mechner, per ogni nuova release; questo le è convenuto fintanto che non avesse proprietà intellettuali attive nel campo dei single-player che potessero tenere quel posto caldo nella sua libreria. Ma, adesso che ci sono Assassin's Creed (curiosamente, nato proprio come “spin-off” di PoP) e Watch Dogs, che senso avrebbe continuare a sborsare certe cifre da un punto di vista finanziario?
Ciò spiega come mai l'ultimo gioco della saga per console risalga al 2010, con Le Sabbie Dimenticate, e la parola fine al filone videoludico sia stata posta da uno spin-off mobile, Escape, nel 2018. Prima del remake è stato fatto un tentativo con un The Dagger of Time, una escape room in realtà virtuale che era parso come l'ennesimo sberleffo ad una platea che da tempo aspettava notizie riguardo alla resurrezione del franchise, similmente all'evento a tema su For Honor o le apparizioni di Sam Fisher su Rainbow Six Siege e Ghost Recon Wildlands e Breakpoint.
Il caso del remake di Prince of Persia
E veniamo così ai giorni nostri, alla serata di ieri, quando durante il secondo Ubisoft Forward (ce ne sono altri in arrivo, è stato confermato) è stato annunciato Prince of Persia: Le Sabbie del Tempo Remake. Il leak della mattinata aveva destato impressioni pessime, con due immagini e un'animazione che avevano tradito un comparto grafico inspiegabilmente arretrato per un rifacimento in rampa di lancio all'alba di una nuova generazione di console.
Qualcuno aveva tentato di abbozzare un «nel gioco rende molto di più», come il ben informato analista Daniel Ahmad (e alla fine ci potremmo pure credere a livello di gameplay, visto che è stato rifatto il motion capture), ma la situazione non è migliorata per niente alla presentazione ufficiale, lasciando nello sconforto e nello stupore generale gli appassionati ringalluzziti dalle voci di un remake che si erano susseguite nelle ultime settimane.
Siamo ancora in uno stadio di alpha, per cui trarre conclusioni sarebbe ingeneroso, ma senza troppi giri di parole questa veste grafica, e la resa di alcuni elementi come i volti dei protagonisti e le loro animazioni, non sono semplicemente all'altezza degli standard della generazione corrente – figurarsi della prossima: si fatica davvero a comprendere come sia stato possibile che il progetto sia arrivato così in là nel suo ciclo di sviluppo prima che qualcuno (il pubblico) se ne accorgesse e lo facesse notare (ieri sera).
Ubisoft si è affidata ai suoi studi di Mumbai e Pune per la realizzazione del gioco, e si tratta di due realtà alla loro prima esperienza con un titolo di cui saranno gli sviluppatori titolari. Mentre ci fa piacere sentire l'entusiasmo delle persone che ci stanno lavorando, che parlano legittimamente di un sogno diventato realtà, il fatto stesso che si siano consegnate le chiavi del franchise a degli esordienti lascia abbastanza perplessi, proprio perché il prodotto in questione è un remake e non un semplice remaster; filologicamente, è una sorta di sovrascrizione del gioco già esistente, non una riproposizione, e non a caso è stato spiegato che sarà molto fedele all'originale, mantenendo addirittura lo stesso Yuri Lowenthal nei panni del Principe. Se non altro, è stata riservata almeno l'accortezza di apporre la dicitura «Remake» per distinguerlo dal classico.
Non sappiamo quanto la casa transalpina creda in questo lancio, e quanto budget abbia investito nella lavorazione, ma è noto come l'India sia territorio di outsourcing e/o produzione di asset in virtù dei costi irrisori, a confronto con le location occidentali, e non di sviluppi titolari men che meno di nuove IP; ne sa qualcosa Rockstar Games che ha attività floride da quelle parti, di cui si serve per la produzione dei materiali alla base dei suoi GTA e Red Dead Redemption (nelle loro controparti online, ma non solo), e ha recentemente acquisito un altro studio dalla sofferente Starbreeze.
Questo di per sé rende l'idea di come ci si stia muovendo coi piedi di piombo nei riguardi del ritorno di Prince of Persia, credendoci il minimo indispensabile, e proponendo un titolo che, nelle intenzioni dei vertici, non dovrà far altro che cogliere le reazioni del pubblico. Ma, realisticamente, come potrebbero reagire i giocatori di fronte alla qualità evidenziata dal reveal di ieri? Quello andato in scena a Ubisoft Forward è un autogol in piena regola, o a voler pensare male una giustificazione per quando si chiederà un nuovo capitolo e si potrà addurre la scusa delle scarse vendite, perché appare chiaro che ogni tentativo di sondare l'interesse dei gamer nei confronti dell'IP sia falsato in partenza dalla (ancora presunta, naturalmente) scarsa qualità del suo ritorno. Pensate ad una Capcom che avesse riproposto Resident Evil 2 con un prodotto simile e non con il lussuoso remake uscito nel 2018, come sarebbe finita per il franchise horror?
Il gioco sarà poi lanciato nel gennaio del 2021, a PS5 e Xbox Series X già stabilmente sul mercato. Un altro elemento di sorpresa, purtroppo ancora in senso negativo, è il lancio riservato esclusivamente a PC, PS4 e Xbox One, con un piccolo caso nato intorno a Nintendo Switch, che a naso ci sembrerebbe capace senza troppi problemi di farlo girare ma è stato tenuto fuori dal pool delle piattaforme supportate (per cui non può essere neppure tacciato, per ora, di aver “trattenuto” le qualità del titolo). L'editore ha fatto del cross-gen un suo cavallo di battaglia ma, ad oggi, non se n'è parlato affatto, e questo è forse la ciliegina sulla torta: è vero che la base installata di PS4 e Xbox One, PS5 e Xbox Series X se la sogneranno per svariati anni, e che dunque finanziariamente non stiamo parlando di una scelta grossolana, ma di certo saltare la next-gen, in un momento in cui sarà l'ammiraglia sulla bocca di tutti, rende ancora di più l'idea di quanto sia basso il profilo scelto per il remake.
Il primo pensiero che ci è venuto in mente, considerando quanto Ubisoft stia provando a coinvolgere le sue realtà “ai confini dell'impero” per accelerare la pubblicazione di nuovi (e, si spera più variegati) titoli, è che questo Prince of Persia: Le Sabbie del Tempo Remake sia ancora passibile di rinvio o rinvii multipli; è successo con Skull & Bones di Singapore, potrebbe ricapitare ancora sia perché c'è stato uno stacco di soli quattro mesi tra presentazione e day one, e magari serviva proporlo senza crederci troppo a gennaio per far quadrare il bilancio dell'anno fiscale, sia perché la reazione estremamente negativa del pubblico potrebbe far accedere qualche lampadina e convincere a tornare alla drawing board prima di rischiare di compromettere la fama della serie.
In conclusione
Quello che è andato in scena a Ubisoft Forward è il ritratto di una compagnia ingabbiata nei suoi schemi mentali, nei quali ha trovato una sicurezza creativa ed economica che sta lentamente – per usare le stesse parole di Guillemot – logorando «la fiducia» dei fan nei suoi confronti. Da quel che abbiamo potuto vedere, una visione che precisiamo è ancora soltanto parziale, a finirci di mezzo è stato Prince of Persia, un ritorno che probabilmente sarebbe stato meglio non si fosse celebrato affatto. E che, d'ora in avanti, ci farà contare fino a mille prima di avanzare richieste per un ritorno di Splinter Cell, l'altro gigante dormiente del suo portfolio. La speranza è che la prossima sia davvero una nuova generazione per Ubisoft, che ha bisogno come mai prima d'ora di idee e coraggio.
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