Il meglio di Resident Evil Village succede quando ti toglie le armi

Nonostante una componente action ben inserita e intelligente, Resident Evil Village brilla soprattutto quando lascia disarmati.

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a cura di Paolo Sirio

Adesso che Resident Evil Village è nelle mani della maggior parte dei videogiocatori interessati al gioco, possiamo finalmente discutere più nel dettaglio, senza temere la spauracchio dello spoiler, alcune delle sue componenti più sorprendenti – quelle che proprio non ci aspettavamo di vedere concretizzate, in questo caso specifico.

Finora, ci siamo concentrati sull'importanza del villaggio non soltanto in qualità di hub e contenitore del DNA originale del franchise, ma anche come mezzo per scandire i ritmi quando il titolo di Capcom è fuori dalle meccaniche dell'azione (un mezzo a cui vorremmo venisse affidato il timone più a lungo nei prossimi capitoli).

Ora, invece, puntiamo su un segmento per certi versi inaspettato ma che, ricorderete da un nostro articolo sulla demo di Resident Evil Village, ci attendevamo esattamente come si è sviluppato nel prodotto finale: Casa Beneviento, la location che ospita uno dei signori del villaggio e nella quale ci dovremo cimentare per portare avanti la storia di Ethan Winters. Un segmento che, forse off topic, è pronto a farvi saltare sulla sedia col trucco più vecchio del mondo.

Questo articolo contiene spoiler sulla storia e sul gameplay di Resident Evil Village. Non leggete oltre se non volete anticipazioni.

In difesa dell'action

Prima di addentrarci nei meandri di Casa Beneviento, è il caso di discutere rapidamente della tematica action nella saga a base di zombie (e non, ormai), che torna con grande puntualità nel nuovo episodio – il primo a sbarcare su PlayStation 5 e Xbox Series X|S, con un impatto di non poco conto più che sulla grafica, ci piace sottolinearlo, sulla velocità d'ingresso in partita grazie all'uso degli SSD.

In Resident Evil Village, l'azione è forse per la prima volta di una qualità dal livello tale da poter restare fianco a fianco con le componenti quintessenziali della proprietà intellettuale della software house giapponese: al fascino metroidvania 3D dei labirinti e a quello dei puzzle, alla dinamica della tensione e del relief, all'imprescindibilità dell'esplorazione e della gestione delle risorse, si è accostato adesso un prodotto nel prodotto che, quando si parla di Biohazard, non si può più ignorare.

Il protagonista adesso si muove e si volta con la fluidità che ci si aspetterebbe da un first person shooter, mettendosi alle spalle i controlli tank che, li abbiamo tanti amati ma lo dimostrano le nostre dirette sui classici, sono fuori dal tempo e vanno oltre persino quella pesantezza necessaria per rendere gli ambienti chiusi che avevamo visto esplorati a Villa Baker in Resident Evil 7.

Qui, del resto, sappiamo bene che Ethan ha iniziato a frequentare corsi per l'autodifesa e tiene armi in casa dopo quello che è successo a lui e alla sua famiglia nel diretto predecessore, per cui non stupisce che sappia difendersi con un nuovo comando che è entrato nella serie per restarci – la “parata”, che consente pure di disincagliarsi quando si rimane incastrati in uno spazio angusto con dei nemici – e abbia una dimestichezza ora contestualizzata con le sparatorie.

Ci manca ancora qualcosina (un salto? Non sappiamo se verrà mai introdotto, per una questione di controllo “ossessivo” sugli ambienti) ma insomma: se, nel passato recente, veniva incarnata da interpretazioni mediocri del genere, adesso la tanto vituperata dimensione action è stata abbracciata finalmente con mestiere da Capcom e merita, rispettando la pulsione dello studio verso la sfera mainstream che si addice ad un marchio tanto grande, di stare dove sta.

Ora, non stiamo davvero difendendo l'action in Resident Evil - tutti avremmo voluto un Village tutto villaggio e castello -, ma la realtà è che questo franchise è ben oltre la nicchia da cui la sua popolarità si è generata. Stiamo solo affermando che questa dinamica, nel momento in cui ha raggiunto uno standard assimilabile quantomeno al resto della “mitologia” della saga, si è guadagnata la sopravvivenza.

Non c'è dubbio, però, che come abbiamo osservato nella nostra disamina sul parco giochi-villaggio lo sviluppatore asiatico debba riconoscere ai fan, noi inclusi, una migliore gestione del passo e dei tempi lungo i quali stendere le due anime (è conclamato che siano parimenti valide e riconosciute dal creatore) dell'IP.

Non che il gioco duri poco, abbiamo già dibattuto l'argomento e in tanti si sono lasciati obnubilare dal ricordo di un Resident Evil 4 molto più lungo di quanto non fosse realmente; è evidente tuttavia come il castello, ad esempio, avrebbe meritato uno “screen time” più attento alle aspettative che aveva costruito, Lady Dimitrescu inclusa, e in definitiva un ruolo maggiore in un gioco che si chiude invece con un prolungato climax ascendente.

Quello che abbiamo visto, in questo senso, ci lascia abbastanza tranquilli: su Village possiamo parlare di equilibrio precario, mentre in Resident Evil 7 si era discusso ampiamente di uno sbilanciamento tra le due metà – una prima da survival horror con la S e la H maiuscole, una seconda affrettata in ogni senso -, e questa correzione “in corsa”, pur non spuntando totalmente l'elemento action, fa ben sperare verso la costruzione di una base duratura per la serie.

Mi mandano P.T. (e Resident Evil 7)

Fatta questa puntualizzazione, possiamo procedere nella direzione completamente opposta verso la quale rema tutto la nostra opinione del giorno: il momento migliore di Resident Evil Village si realizza quando non hai la possibilità di sparare, ed è evidente come sia il caso di porsi delle domande se questo succede ancora in una cornice ibridata dall'azione e dallo shooting qual è questo.

Immediatamente dopo la sequenza al castello, dopo un breve passaggio al villaggio, i giocatori sono portati a muoversi nella direzione di Casa Beneviento, la dimora di Donna Beneviento e della sua tribolata storia da madre in lutto eterno. La costruzione del momento è fantastica: si naviga per una fitta nebbia, si attraversa un boschetto spoglio, si supera un ponte traballante, si arriva all'ingresso della proprietà, ci si entra usando come ticket una foto di famiglia, e si scende.

Si scende giù per un pozzo, giù per un'ascensore, giù, giù, giù. Non solo per nascondere un caricamento, eh, ma per sottolineare come si stia scendendo negli angoli più reconditi della sanità mentale e della lucidità, dove tutto può succedere.

L'introduzione cadenzata anticipa alla perfezione un rallentamento del ritmo rispetto a quanto abbiamo vissuto fino ad allora, uscendo da una sparatoria folle contro la mutazione di Lady Dimitrescu; abbassa il battito cardiaco quel tanto che basta per farne risaltare lo sballottamento quando inizierà il vero orrore.

Entrati nella villa, che intanto ci si è spaparanzata davanti in tutto il suo fascino scenico, scopriamo un autentico gioco nel gioco. Capcom prende quello che era stato fino ad allora un sandbox a cielo aperto prima, un sandbox tra le quattro mura di un castello dopo, e ci rinchiude in un contenitore à la Saw dove quanto vi capita è una diretta conseguenza di esperienze dallo sapore horror ormai quasi dimenticato di P.T., e della prima metà di Resident Evil 7 (o della sua demo, se vogliamo).

La raffigurazione plastica degli orrori di un paesino ispirato alla Romania, una dove tutto è e tutto si vede, lascia spazio alla rappresentazione psicologica delle paure più recondite e dei timori più taciuti. Per un paio di ore scarse, gli appassionati di Resident Evil sono chiamati a giocare a Silent Hill in prima persona, in sintesi, e tale spicchio di giocato mette nero su bianco quanto di meglio Capcom abbia prodotto in questo campo nell'ultimo decennio abbondante.

È curioso come la software house nipponica si sia presa la licenza di togliere ogni libertà al giocatore per far sì che questa sezione potesse andare in scena: con una scusa abbastanza veloce, non appena sei in quello scantinato ti vengono tolte tutte le armi e l'inventario, in modo che tu possa sostenerti e andare avanti nel gioco soltanto con quello che vi troverai.

Viene da chiedersi cosa accadrebbe alla saga se una scelta del genere venisse imposta con maggiore frequenza, perché qui non accade un semplice “ti tolgo le armi e spengo le luci”. Questo segmento lo chiamiamo gioco-nel-gioco proprio perché funziona come un titolo a sé stante, con i suoi equilibri e le sue dinamiche interne che non vengono rispettate (purtroppo) con la stessa attenzione nel resto della produzione.

C'è la parte in cui componi un pezzo di un puzzle, e una nella quale quell'orrore della mente si fa carne e ti insegue per tutta l'ambientazione, un'interruzione in cui tiri il fiato; e poi di nuovo la parte in cui componi un pezzo di un puzzle, e una nella quale quell'orrore della mente si fa carne e ti insegue per tutta l'ambientazione, un'interruzione in cui tiri il fiato; a ripetizione finché non arrivi alla fine di un “gioco” che pare funzionare di vita propria senza la necessità di una grande connessione con quello che rimane.

Mentre il rompicapo non ha bisogno di accelerazioni e cambiamenti, l'horror lo fa per non scadere nella banalizzazione: un suono che si avverte dalla lontananza, una luce che si spegne, un feto gigantesco che ti insegue a passo sostenuto per tutta la location. Prima riesci a liberartene abbastanza velocemente girando attorno ad un tavolo e scappando come una scheggia verso il quadro elettrico, poi il set di azioni che ti viene richiesto aumenta di complessità fino a farti nascondere sotto un letto e pregare.

Le azioni che ti vengono richieste non sono mai particolarmente elaborate e, a patto di avere la giusta lucidità, se ne esce abbastanza facilmente; ma pensate cosa sarebbe successo se aveste avuto un'arma da fuoco in mano, fosse una pistola, un fucile o l'intero arsenale che ti sei costruito fino ad allora in Resident Evil Village.

Esempio: in una parte successiva del gioco, è possibile incontrare un'enorme e fortissima bestia, che Capcom non ti dice direttamente se tu abbia l'opportunità di battere o meno; l'invito apparente, anzi, è aggirare l'ostacolo e andare nella direzione che dovresti prendere per mandare avanti la narrazione.

Nel nostro caso, invece, abbiamo imbracciato la buona decina di armi che ci eravamo accaparrati sin lì e ci siamo lanciati all'attacco – anche se non era affatto necessario per far proseguire la vicenda di Ethan – fino a quando non l'abbiamo visto stecchito a terra. L'orrore era svanito, ma non quando la bestia è andata ko: lo aveva fatto nel momento stesso in cui abbiamo visto l'arsenale del protagonista pieno.

Ed è questa la grossa differenza, evidentemente, tra quest'ultimo passaggio e Casa Beneviento: nella preparazione del momento. In uno ti vengono date le armi e nell'altro ti vengono tolte, e, pur rischiando l'etichetta del walking (“running”, a volte) simulator orrorifico, è quando i ferri vengono tolti che scatta la scintilla della memorabilità.

Un momento memorabile tra tanti dimenticati

Insomma, discutendone tra noi della redazione che abbiamo provato Resident Evil Village, non è di certo una coincidenza che il primo tema saltato fuori sia stato la dimora di Donna Beneviento. Se da un lato c'è un pizzico di amarezza per l'assenza di una vera e propria boss fight, dall'altro resta fortissima la soddisfazione per una sezione completamente diversa da quello cui la Capcom degli ultimi anni ci aveva abituato.

Per l'atipicità del momento, è normale che questo sia successo ed è probabile che, se ce ne fossero stati altri dallo stesso obiettivo, Casa Beneviento sarebbe stata una tra le tante. La ricordiamo così tanto e così bene perché come lei non ce ne sono altre, e forse persino perché quelle vibrazioni da P.T., per quanto fossero già state parzialmente assorbite da Resident Evil 7, fa piacere all'anima vederle concretizzate in un prodotto tripla-A completo.

Eppure, quando ci ritroveremo a parlare di Resident Evil Village, alla fine sarà sempre questo frangente – grazie alla sua unicità – a spiccare maggiormente ed a venire menzionato; sarà quello che, nonostante sia il solo esponente di un gameplay libero dalle armi, definirà questo gioco nelle chiacchiere tra gli appassionati per quello che è stato e quello che dovrebbe essere guardando al futuro del franchise.

E questo non per sminuire il resto del gioco: siamo partiti appositamente dalla legittimazione di una componente action che ormai merita di stare nella cornice di Biohazard per come sta venendo costruita (a dispetto degli episodi precedenti che, guardando ad esempio al sesto capitolo numerato, non riuscivano a raggiungere il traguardo posto dai concorrenti occidentali più avanti sul tema).

Il fatto però che un certo tipo di sensazione non venga evocato nel Castello Dimitrescu, al bacino idrico, nella Fabbrica Heisenberg, che pure hanno le loro ampie pause dallo shooting, la dice lunga sull'efficacia delle misure che vi sono state implementate a confronto con quelle di Casa Beneviento. Non sono sensazioni dimenticabili, perché il livello medio è così alto a questo giro che sarebbe ingiuste dirle tali, ma saranno inevitabilmente dimenticate.

In conclusione

Bisognerebbe ripartire da lì, allora? Ogni volta che ci ritroviamo a discutere di Resident Evil Village non chiediamo altro che equilibrio ed è probabile che, una volta che questo sarà cementato, sequenze lodate a gran voce come quella di Casa Beneviento o quella del villaggio vengano non semplicemente replicate perché se ne abbiano in quantità maggiore, ma siano poste di più al centro della scena e abbiano un peso specifico maggiore nell'economia di un Resident Evil.

È per questo, in poche parole, che le lodiamo a gran voce.

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