La Fortezza Fatale, il Disonore, la Preda: vent'anni di Arkane Studios
Arkane Studios compie vent'anni: in un video racconto, ripercorriamo le vicende e l'unicità della software house transalpina che è stata culla del genio creativo di menti come Raphael Colantonio e Harvey Smith
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a cura di Stefania Sperandio
Editor-in-chief
Le grandi scintille sembrano sempre innescarsi dai dettagli più banali: capita, per esempio, che innamorandosi di un libro si coltivi il sogno di scriverne uno altrettanto emozionante. Vedendo un film, magari ci si culli nella forse utopica ambizione di diventare, un giorno, sceneggiatori o cineasti. E capita, legandosi a un videogioco, di dirsi «questo è quello che voglio fare per tutta la mia vita.»
È capitato a Raphael Colantonio, un ambizioso giovanotto francese dall’ego importante – per sua stessa ammissione – che dopo essersi innamorato della serie Ultima e dell’opera del suo leggendario autore, Richard Garriott, era sicuro: voglio creare videogiochi per videogiocatori. E la precisazione non è da prendere sottogamba: il sogno del fanciullo di Lione era quello di creare titoli che non dovessero necessariamente inseguire le logiche e le tendenze del mercato, ma le aspirazioni dell’autore. Questa, sì, suona quasi come un’utopia impossibile, ma Colantonio ha provato a inseguirla con tutte le sue forze e, messa in piedi la software house che oggi tutti noi conosciamo come Arkane Studios, ha dovuto confrontarsi con un’amara realtà: creare videogiochi per videogiocatori è maledettamente difficile.
Oggi, sulle pagine di SpazioGames vogliamo raccontarvi tutto il bello e il brutto che hanno animato i primi vent’anni di Arkane, nei suoi studi di Lione e di Austin, dalle sognanti ambizioni concretizzate delle origini all’inanellarsi di buchi nell’acqua che avrebbero gettato tanti nello sconforto – e che, invece, per il team francofono hanno portato al Disonore.
Per raccontare questa storia, abbiamo bisogno di raccontarvi anche e soprattutto quella delle personalità chiave della software house: Raphael Colantonio e Harvey Smith.
I favori del fato
Un annuncio su una rivista invitava a inviare i propri dati, rispondendo a delle domande, per poter magari essere estratti per vincere un viaggio negli Stati Uniti, in Texas, alla scoperta di Ultima VIII. Colantonio è un solo un giovanotto, quando decide che – perché no? – si potrebbe anche provare a partecipare, perché Ultima è uno dei suoi grandi amori.
Ma l’annuncio sulla rivista è ingannevole. Ingannevole nel migliore dei modi possibili: il ragazzo viene contattato da Origin Systems, che gli rivela la verità: il questionario era un modo celato per trovare candidati che potessero lavorare per loro, in Francia. Seppur sorpreso, Colantonio ne è ben contento. Il suo primo lavoro nell’industria lo porta a occuparsi di QA per un team che di lì a breve sarà sotto Electronic Arts – uno di quelli che sono tutt’oggi i giganti del videogame. E, come se ciò non bastasse, questo gli consente di dire addio alla leva obbligatoria per una giusta causa. Siamo nel 1993 e il giovane creativo francese si ritrova dentro l’industria dei videogame, da grande amante di Ultima, pronto a far valere i suoi talenti.
Dall’altra parte dell’oceano
Al di là dell’Oceano Atlantico c’è un altro giovane creativo che vuole creare quei videogiochi per videogiocatori. Cresciuto in una famiglia difficile e rimasto orfano, veterano sotto le insegne dell’Air Force statunitense, Harvey Smith non ha ben deciso che cosa fare della sua vita.
È così che, senza forse nemmeno pensarci troppo, viene reclutato da Origin System, per la sua sede in Texas, dove si occupa a sua volta di QA. Senza che i due uomini lo sappiano, Colantonio e Smith stanno seguendo esattamente lo stesso percorso.
E i talenti dell’americano non impiegano molto tempo, per venire a galla. Mentre si trova ad assicurarsi della qualità di prodotti che hanno firme impressionanti come quelle di Garriott (o Lord British, se preferite) e di Warren Spector, Smith passa da una mansione all’altra – fino a quando i problemi di Ultima VIII sono per lui così intollerabili che decide di andare oltre.
Giocando al titolo ne rimane profondamente deluso e stila un elenco di cento difetti da sistemare per migliorare il gioco. E fa in modo che questa lista arrivi alle menti che lo avevano creato – i suoi stessi superiori. Richard Garriott ne rimane impressionato e vuole il ragazzo a lavorare con sé: ci vede del talento e lo rende subito associate producer. Gli assegna una squadra e gli dà disposizioni affinché aggiusti tutto quello che in Ultima VIII c’era da aggiustare.
Succede, così, che a migliaia di chilometri di distanza, Colantonio e Smith lavorano entrambi per Origin, entrambi a partire dal QA. E succede anche che, nel 1995, raccontarono a Polygon, si incontrarono al quartier generale texano della software house – con l’americano che faceva da guida per il francese. Le loro storie così lontane e così simili si intrecciarono per la prima volta, ancora una volta, per puro caso.
Tutti sono utili, nessuno è indispensabile?
Forte della fiducia di Richard Garriott, Smith propone una sua idea completamente originale a Electronic Arts – un prodotto strambo, come da manuale per l’autore, che si doveva intitolare Technosaur. Questo strategico, che voleva proporre meccaniche belliche mettendole insieme a, beh… i dinosauri, era nella visione di Smith il titolo della svolta della sua carriera. L’occasione per dimostrare la forza delle sue visioni creative.
EA accettò di dare supporto alle sue idee, ma con una richiesta specifica: dal momento che la visuale dall’alto era ormai superata, pretendeva che il titolo venisse realizzato con visuale isometrica – ritenuta molto più moderna e che effettivamente si affermò fortemente di lì a poco. Siamo nel 1995 e Smith non cambia idea: il suo gioco avrà la visuale dall’alto. A quel punto, la cambia EA: Technosaur è cancellato.
Dopo un anno di lavoro, di investimenti fatti fare al publisher, Smith vede i membri del suo team venire licenziati con la cancellazione del gioco – a causa di un’indicazione che aveva ignorato per tenersi fedele alla sua visione. L’idealismo non ha pagato. E per l’autore statunitense è probabilmente venuto il momento di trovare una nuova casa.
La nuova casa si chiama Multitude, il gioco è un multiplayer conosciuto come Fireteam. Il gioco esce nel 1998 e se non ve ne ricordate il debutto, purtroppo, c’è un motivo. Il progetto fu un fallimento per via delle sue meccaniche basate sul multiplayer online – praticamente invendibili all’epoca, troppo visionarie rispetto a quanto realmente concesso dalla tecnologia al bacino di utenza a cui ci si rivolgevano. Ma era solo uno dei problemi di Fireteam. E il fallimento del gioco costò caro a Multitude.
Smith si ritrovò ancora una volta a cercare una nuova casa. Lo stesso creativo apprezzato da Garriott per i suoi feedback su Ultima VIII si era prima visto cancellare Technosaur e aveva poi fallito con Fireteam. Per fortuna, i contatti con Warren Spector sono ancora vivi: nei loro scambi, i due autori danno vita a un videogioco che è rimasto nell’immaginario e nella storia del medium, Deus Ex. Smith si unisce a Ion Storm Austin, dove ritrova uno dei suoi maestri, per aiutare a dar vita a un videogioco che, finalmente, troverà un suo importante posto sul mercato e nelle logiche del medium – arrivando sugli scaffali nel 2000.
Nel Vecchio Continente, per Colantonio le cose sono ancora ben più fumose e le soddisfazioni non arrivano. Siamo nel 1997 e, secondo l’autore francese, Electronic Arts ormai è troppo presa dal boom del mercato console e dai giochi sportivi, per dare davvero supporto alle idee che lui vorrebbe realizzare – ai videogiochi per videogiocatori. La decisione è presa: Colantonio lascia la compagnia e si accasa per un po’ in Infogrames, lavorando come producer a I Puffi, in attesa di capire cosa fare del suo futuro.
Non sembra ci sia spazio per idee di videogiochi come le sue, nell’industria. Ed è così che gli balena finalmente in mente la possibilità di creare una software house tutta sua. Il problema? Non potrebbe mai farcela da solo. Fato vuole che, con l’aiuto di uno zio che aveva sufficiente disponibilità, Colantonio e quattro amici riescono davvero a creare una loro software house.
È il 1999 e a Lione si aprono le porte di Arkane Studios, la software house che vuole fare le cose a modo suo – non importa quanto arcane suonino alle orecchie di qualcun altro.
Con Ultima nel cuore
L’amore di Colantonio per Ultima non si è certo ancora spento. Insieme al suo giovane team, il creativo francese riesce a mettere insieme una demo di un gioco di ruolo in soggettiva che aveva immaginato come Underworld 3. Riesce ad arrivare a presentarlo a EA, ma il publisher non è particolarmente colpito e lo respinge, a meno che l’idea non venga stravolta e modificata in determinati modi.
Basta a scoraggiare Colantonio? Arrivati a questo punto, avrete compreso la sua personalità – e saprete già che la risposta è no. Il fondatore di Arkane decide di tenersi il gioco per sé e di ribattezzarlo Arx Fatalis. Le idee sono chiare, il team sta lavorando, ma c’è – di chiaro – anche qualcos’altro: serve trovare un publisher. E serve trovarlo in fretta.
Arx Fatalis: il peso della visione
Arx Fatalis ha le stimmate di un grande gioco di ruolo: ambientato all’interno di una caverna su più livelli, il titolo consente di creare un proprio personaggio e di specializzarlo in diverse abilità. A vederlo oggi, i meno giovani potrebbero ricondurlo probabilmente a uno stile à la The Elder Scrolls. Il gioco, oltretutto, aveva un approccio il meno lineare possibile, con side-quest, finali differenti e l’eventualità, attraverso le proprie azioni e non delle mere opzioni di dialogo, di prendere delle decisioni.
Era possibile anche scegliere un diverso approccio: il giocatore poteva interfacciarsi con i nemici in modo furtivo o optando per la violenza diretta – e a tutto questo si affiancava un peculiare sistema di incantesimi e rune che si dovevano eseguire con il movimento del mouse e che consentivano anche di interagire con l’ambiente. Le idee, insomma, c’erano tutte – e gli autori erano ben contenti di vedere realizzata la loro visione senza doversi piegare alle logiche dei grandi AAA.
Mentre il team continua a lavorare, Colantonio cerca un partner con tutte le sue forze – qualcuno che possa sostenere i costi del progetto e aiutarlo ad arrivare sul mercato. Dopo che un primo publisher firma con Arkane, ma fallisce poco dopo, arriva l’accordo con JoWood: Arx Fatalis arriva sul mercato nel 2002 e la software house di Lione, che aveva vissuto sul filo del rasoio, può finalmente godersi il successo del gioco.
Anzi, non esattamente. Il gioco ottiene buoni responsi dagli appassionati, perfino Richard Garriott lo gioca e lo fa sapere a Colantonio, ma le vendite sono fallimentari. Non basta a scoraggiare Colantonio: il creativo firma un accordo con Valve per l’utilizzo di Source Engine nei suoi prossimi progetti e inizia subito a lavorare ad Arx Fatalis 2.
Come le logiche di mercato suggeriscono, però, non ci sono publisher interessati a investire i loro soldi sul sequel di un gioco che ha avuto numeri fallimentari. Arx Fatalis 2 non ha modo di esistere e il massimo dei contatti che Colantonio riesce a trovare è quello con Ubisoft, che vorrebbe Arkane pronta a piegare la sua idea di gioco di ruolo per dare i natali a un nuovo Might and Magic.
Le scelte sul tavolo non sono poi così tante: provare a crescere sotto Ubisoft, adattandosi alle necessità di un grosso publisher, o fallire. Colantonio accetta e trasforma la sua creatura, il suo nuovo Arx Fatalis, nel videogioco che diventerà Dark Messiah of Might and Magic.
Tutt’oggi, c’è un aneddoto curioso che Colantonio racconta, sulla nascita di questo progetto: Bethesda era interessata a lavorare con Arkane Studios per il suo Arx Fatalis 2, ma arrivò di poco in ritardo rispetto al momento in cui il team aveva già firmato con Ubisoft.
Deus Ex Machina
I fasti del primo Deus Ex sembrano già alle spalle, per Harvey Smith. Il nuovo progetto al quale sta lavorando è deludente, al punto tale che nel 2004 Warren Spector decide di lasciare. Ci vuole solamente un altro anno, prima che Smith faccia lo stesso – ritrovandosi a cercare per l’ennesima volta una nuova casacca, detto addio a quella di Ion Storm Austin.
La voglia (e il bisogno) di lavorare lo portano in Midway, ma il progetto a cui lavora, Blacksite: Area 51, è un altro buco nell’acqua. Gli autori non riescono a sistemare quello che c’era da sistemare, le dinamiche della software house sono tutt’oggi nei ricordi non proprio migliori dell’autore statunitense, che si trova ancora una volta a separarsi.
L’orizzonte inizia a farsi scoraggiante. Ma Harvey ha una ragazza. E questa ragazza sta lavorando per una giovane software house di Lione che sta provando a mettere radici anche ad Austin…
“Arkane non fu costruita in un giorno” semi-cit.
Dark Messiah of Might and Magic non è probabilmente il titolo di Arkane parlando del quale Colantonio gonfia più fieramente il petto, ma è un passo importante per forgiare la ancora giovane software house. Le sue dinamiche da gioco di ruolo in soggettiva si rifanno a quanto imparato in Arx Fatalis – e vengono affinate il più possibile. I più recenti conoscitori di Arkane ritroveranno, anche in questo titolo, alcune delle meccaniche che contraddistinguono i lavori del team: l’interazione con l’ambiente per sfruttarlo a proprio vantaggio, la possibilità di incastrare abilità e scenario per ritorcerle ingegnosamente contro i propri nemici.
Il gioco venne accolto positivamente su PC, al debutto del 2006. È anche uno dei primi lavori della compagnia con un nuovo artista, Sebastien Mitton, che diventerà uno dei suoi nomi principali di lì a pochi anni.
Per Colantonio, però, serve fare qualcosa di più: dal momento che i videogiochi a cui guarda e si ispira, la serie Ultima, sono nati in Texas, il creativo francese inizia a guardare con ambizione a un’espansione ad Austin – a una nuova divisione che possa fare da prima linea per i contatti con il ben più ricco mercato americano, con lo sviluppo invece dislocato a Lione, con costi minori.
Sulle orme di Richard Garriott, Colantonio decide ancora una volta di perseguire la sua idea, mentre Arkane procede con piccoli lavoretti per altre compagnie in outsourcing, in attesa di una nuova grande occasione. È a questo punto della sua storia che la casa francese inizia a collaborare anche con Viktor Antonov, talentuosissimo art director di Half-Life 2, che fornisce consulti per la direzione artistica delle sue prossime opere.
L’idillio con Valve, per fortuna, esiste ancora: Arkane si ritrova ad affiancare la celebre compagnia e a lavorare a Ravenholm, un vero e proprio spin-off di Half-Life e del quale, probabilmente, non avete mai sentito parlare.
Ravenholm – nel mondo di Half-Life
Siamo più o meno nel 2006, quando Arkane inizia a mettere insieme i pezzi per questo ambizioso (non è nemmeno il caso di rimarcarlo) spin-off per la leggendaria saga. La casa francese avrebbe lavorato a una decina di missioni, proponendo collegamenti alle vicende del franchise principale e con meccaniche di gameplay che consentivano di sbizzarrirsi con armi tra le più strampalate.
Un elemento cardine del gameplay era, ad esempio, l’elettricità: una pistola consentiva di sparare dei proiettili che erano in realtà come dei chiodi metallici per il passaggio della corrente. Sparando questi colpi il giocatore poteva condurre l’elettricità a piacimento a partire da una cabina o un interruttore, creando così trappole per i nemici – magari intersecando la corrente a delle pozzanghere.
Questo tipo di meccanica, ancora una volta nell’anima del gameplay emergente su cui Arkane ha sempre voluto spingere, prevedeva anche la possibilità di usare armi al plasma con effetto diverso, che consentivano magari di attivare l’elettricità laddove non presente, per poi condurla a piacimento usando le altre armi.
Arkane era estremamente soddisfatta dei risultati che stava raggiungendo ma, ancora una volta, qualcosa andò storto. Valve si ritrovò a dover cancellare il progetto e a nulla valsero gli sforzi del team di consegnare una build per dimostrare la bontà di quanto realizzato nell’anno di lavoro: nel 2007, Ravenholm cessa di esistere.
Arkane ha un altro nome importante nell’ormai fin troppo lungo elenco di videogiochi che non è riuscita a far arrivare sul mercato. Ma è sicura che l’esperienza accumulata, prima o poi, ripagherà.
Adesso, però, servono idee – e servono subito. Colantonio ha quella che ritiene essere grandiosa, anticipatrice dei tempi, visionaria, e decide di perseguirla per lanciare una nuova IP. Arkane comincerà a lavorarci alacremente, tentando di realizzare la sua visione con il massimo dello sforzo, ma imparerà un’altra amara lezione: a volte gli sforzi non bastano se non puoi pagare gli stipendi.
The Crossing – o la fine del bisogno dell’IA per i nemici
L’idea di Colantonio è visionaria sul serio. Il videogioco a cui sta lavorando, che ribattezza The Crossing, è sia un multiplayer che un single player. L’autore definirà questo genere come “crossplayer”, tentando di realizzare un titolo che procede tradizionalmente in sezioni in cui si gioca in singolo, per poi aprirsi a scenari in cui altri giocatori online possono impersonare i nemici, dando filo da torcere al nostro protagonista.
Si trattava, quindi, di un ibrido tra un titolo tradizionale e un multiplayer asimmetrico, con le scorribande degli altri giocatori che sarebbero state però limitate solo e specificamente a delle sezioni predefinite. Oltretutto, i giocatori perplessi per questo tipo di approccio avrebbero potuto anche disattivare le feature online – seppur perdendosi così l’unicità di The Crossing.
Anche la narrativa avrebbe avuto grande peso: Arkane immaginò un mondo in cui erano presenti due universi paralleli su Parigi, uno scenario moderno ma in rivolta e uno che riportava al 1307. Collegati da dei portali, questi due mondi si intersecavano con i Templari che finivano per ritrovarsi nell’epoca moderna – con il giocatore chiamato, con meccaniche da shooter in soggettiva, a cercare di rimettere a posto le cose.
Le meccaniche rischiose richiedevano anche investimenti rischiosi: Arkane aveva bisogno di $15 milioni per realizzare The Crossing – un budget che spaventò molti publisher e lasciò il team francese con poche opzioni sul piatto. Una compagnia, mai rivelata da Colantonio, propose condizioni contrattuali sempre più stringenti, fino a quando al team di Lione si propose un’altra possibilità: Electronic Arts li voleva per LMNO, il misterioso progetto narrativo scritto da Steven Spielberg.
Colantonio si ritrovò a dover scegliere: insistere con The Crossing, magari accettando il contratto svantaggioso del publisher innominato, o cogliere al volo la certezza di EA e salvaguardare i posti di lavoro? La risposta era già nelle domande.
The Crossing venne infine cancellato nel 2009 e, seppur molto istruttivo per i percorsi di Arkane, non vide mai la luce. LMNO, ora, aveva bisogno di tutte le attenzioni. E anche la stessa software house stava vivendo delle importanti novità.
Destini intrecciati
Dopo essere cresciuti come amanti di Ultima, come fan dei lavori di Garriott e di System Shock, come membri dei team QA di Electronic Arts, Colantonio e Smith si incontrano nuovamente quando il primo stabilisce la nuova sede di Arkane ad Austin in cerca di publisher.
L’amicizia e il rapporto professionale tra i due artisti si fa così costante che Colantonio ha deciso: Harvey Smith diventa co-proprietario di Arkane Studios. Si tratta di una mossa rischiosa, ma visionaria: entrambi gli autori hanno visioni creative molto forti e vogliono fare in modo di metterle a disposizione di Arkane, sebbene abbiano competenze molto simili tra loro. Due grandi talenti anziché uno alla guida dei progetti devono essere un pro, e non un contro: si riuscirà a concretizzare questo ideale nella realtà dei fatti?
La crisi economica non risparmia nemmeno EA
Per il momento, Arkane Studios ha ben altro a cui pensare. Il livello a cui può lavorare per LMNO le richiede grande sforzo, e il team non si risparmia: il gioco, per volontà di Steven Spielberg, non avrebbe dovuto includere nessuna meccanica di gunplay, ma avrebbe richiesto all’utente di risolvere dei puzzle e affrontare dialoghi per andare avanti.
Il protagonista avrebbe dovuto aiutare Eve, un’aliena, a occultarsi dagli USA che le davano la caccia, attraversando intanto la nazione da una costa all’altra. E così, mentre affina il level design, mentre lavora perfino a qualche chicca per i fan di Spielberg stesso, alla fine Arkane riceve la telefonata che non avrebbe mai voluto: è il 2010, la crisi economica non risparmia nemmeno i giganti come Electronic Arts. Il publisher cancella LMNO.
La lista è ancora più lunga. Ravenholm. The Crossing. Adesso LMNO.
Arkane è punto e a capo. Non è più sotto l’ala protettrice di EA e deve trovare un modo per andare avanti, per trovare serenità. Tira avanti aiutando 2K Marin su BioShock 2, ma per il futuro serve altro, necessariamente altro.
L’avvento di Bethesda e ZeniMax Media
I fondi a disposizione di Arkane sono agli sgoccioli e Colantonio non vuole e non può nasconderlo. A meno che non cambi improvvisamente qualcosa, la compagnia sarà costretta a cominciare a licenziare i suoi dipendenti.
Ma qualcosa succede. Dopo aver messo le mani su id Software, celebre per i suoi lavori su Doom, il gigante Bethesda Softworks, di proprietà di ZeniMax Media, è in cerca di studi talentuosi per espandere il suo ventaglio di sviluppatori.
Colantonio aveva sempre apprezzato l’indipendenza di Arkane – ma l’indipendenza è anche quella cosa che lo avrebbe portato, a breve, a licenziare parte dello staff. Avere sopra una compagnia strutturata come ZeniMax avrebbe consentito di avere degli stipendi, delle certezze, ma rinunciando a cosa?
L’autore francese ritiene che sia proprio questo il motivo che lo ha convinto ad accettare la corte di Bethesda: la compagnia del Maryland era interessata prima di tutto a mantenere intatta l’identità di Arkane, a consentirle di creare i suoi videogiochi pieni di stramberie e assolutamente unici. Quei videogiochi per videogiocatori.
Nel 2010 arrivano le firme. Arkane Studios non dovrà più rimbalzare nella ricerca costante di publisher. E Bethesda, coinvolgendo sia Colantonio – finalmente libero di dedicarsi alla parte creativa – che Smith, ha già un’idea: un videogioco su un ninja assassino ambientato in Giappone.
Il Disonore di Corvo Attano
Il videogioco sul Giappone cambia un bel po’, in corso d’opera. Prima di tutto, nello scenario: nessuno conosceva il Giappone abbastanza da poter davvero realizzare un gioco credibile usandolo come base. Allora, il Giappone diventa Londra. Anzi, meglio ancora: con a disposizione artisti come Mitton e Antonov, il Giappone diventa una città immaginaria di almeno un secolo fa, distopica e ingrigita, tra meccanismi, imperi e ratti forieri di peste.
Quella città è Dunwall e quel videogioco si chiama Dishonored.
Dishonored ha un piglio geniale in molteplici aspetti. Il suo level design è intelligente è stimolante, coronamento di quei tentativi di gameplay emergenti sempre sperimentati dalla casa francese. Facendo collaborare le sue divisioni di Lione e di Austin, Arkane mette in piedi un videogioco maiuscolo nell’ispirazione artistica ed estremamente intelligente nelle meccaniche.
L’ambizione più grande alla quale il team giunge, mettendo il giocatore nei panni di Corvo Attano, questa volta trova realizzazione: far vestire all’utente i panni di un assassino, ma consentirgli di finire l’intero titolo senza uccidere nessuno.
Le decisioni del giocatore, espresse dai suoi gesti, influenzano la storia di Dishonored, consentendo non solo di combinare i poteri e le armi di Corvo in modo ingegnoso, ma anche di avere esiti diversi – e destini differenti – durante il proprio viaggio per gli opprimenti anfratti dell’oscura Dunwall.
Ma Dishonored non è nato dall’oggi al domani. Ha un mondo dettagliato, distopico e ambizioso come quello di The Crossing. Ha dalla sua la possibilità di affrontare l’intero viaggio in modo non letale, come si sarebbe dovuto fare in LMNO. Conta su un gameplay in cui armi e ambiente possono giocare a favore dell’utente, a patto che sia sufficientemente ingegnoso da metterle insieme – come si era pensato di fare in Ravenholm.
Ecco che, così, Dishonored è la messa in campo delle dure lezioni imparate da Arkane a forza di porte in faccia, cancellazioni, contratti poco vantaggiosi e sforzi rimasti nel cassetto per chissà quando. Quanto la compagnia ha maturato, nel curriculum personale di ciascuno dei suoi talenti, trova finalmente valvola di sfogo e manifestazione in Dishonored.
Il titolo è premiato dalla critica. Diventa vero e proprio sinonimo di Arkane. E la prima collaborazione tra Smith e Colantonio premia, finalmente, quella voglia di creare videogiochi per videogiocatori che avevano entrambi.
Strade diverse, percorsi diversi
Dopo il successo di Dishonored, Colantonio e Smith decidono in qualche modo di spartirsi la guida creativa di Arkane: il primo assume la guida di Arkane Austin, il secondo la direzione di Arkane Lyon. I due team, che avevano collaborato per la realizzazione di Dishonored, danno i natali a due progetti differenti, ugualmente ambiziosi.
Il primo si chiamerà Prey, il secondo Dishonored 2.
Ereditando le caratteristiche dell’episodio originale, quest’ultimo si basa su una consapevolezza maturata di Smith, che ci raccontò anche nella nostra intervista esclusiva concessaci quando viaggiammo a Lione per incontrarlo: Dishonored ha una community di fan estremamente eterogenea. E, con sorpresa solo di coloro che sono attaccati agli stereotipi, moltissimi dei suoi fan sono… delle fan.
Cosa succederebbe, quindi, se anziché raccontare la storia di Corvo dopo il primo gioco, si raccontasse direttamente quella di Emily? Quando chiesi (perdonate la prima persona) a Smith se ritenesse rischioso proporsi con una protagonista, anziché un più tradizionale eroe maschile, mi rispose «per noi non è rischioso: è emozionante.»
La ragazza, dotata di nuovi poteri che differenziano il gameplay da quello del gioco originale, diventa la protagonista. Ma non è tutto: Arkane esagera, e propone come giocabile anche Corvo. Il protagonista è selezionabile liberamente dal giocatore all’inizio dell’avventura – per vivere la quale cambia interamente anche lo scenario. Dunwall è alle spalle: per Corvo ed Emily, questa volta, c’è Karnaca.
Le ridenti pozze di sangue di Karnaca
Se la fonte d’ispirazione per Dunwall era stata Londra, questa volta si cambia. Sebastien Mitton ci raccontò personalmente che, per la sua Karnaca, avesse guardato anche alla nostra Genova, a Rimini e Venezia, a scenari più mediterranei. Le sue fonti di ispirazione si vedono all’interno del gioco: Corvo ed Emily si muovono in una città ancora una volta letale, ma ingannevolmente più calda. E i vecchi topi pestilenziali sono sostituiti dalle bloodflies, delle enormi zanzare del sangue che seminano il terrore tra gli abitanti di Karnaca.
L’intera idea si potrebbe riassumere in delle parole che Mitton ci disse alla nostra visita a Lione: «volevamo che questo fosse Dishonored 2, non Dishonored 1.2». E l’operazione riesce: la varietà di gameplay offerta da Corvo ed Emily, con i loro poteri differenti – oltre alla caratterizzazione di Karnaca e a un level design eccellente, che svetta tutt’oggi nel medium con alcune delle sue proposte, fanno di Dishonored 2 un must-have della generazione. Il titolo viene acclamato dalla critica, all’uscita nel 2016, e il nome di Arkane conquista nuovi appassionati.
Prey – o l’altra faccia di Arx Fatalis
Torniamo dall’altra parte dell’oceano, perché nel frattempo Colantonio e il suo team stanno dando vita a Prey. Pur condividendo il nome con una IP precedente, il gioco è essenzialmente un reboot scollegato da quello del 2006. L’idea, sorprendentemente, riprende quella di Arx Fatalis, il titolo della verginità di Arkane: uno scenario unico, molto meno lineare e interamente esplorabile, che non porta però negli anfratti delle segrete – ma direttamente nello spazio.
E, anche qui, le lezioni imparate dagli inciampi e dalle delusioni, oltre che dalle collaborazioni, si vedono: i trascorsi nel QA di System Shock e i lavori svolti su BioShock 2 portano le loro lezioni nella realizzazione di Prey, delle sue distopie, del suo sistema di gioco che, ancora una volta, punta al risultato sorprendente.
E se in Dishonored si potevano possedere nemici e perfino topi, con ribaltamenti di prospettiva di ogni genere, questa volta il giocatore può diventare un mimic e trasformarsi, essenzialmente, in qualsiasi cosa. Se da un punto di vista del gameplay questo è particolarmente accattivante, va da sé che sia stato delirante da realizzare dal punto di vista tecnico. Proprio questa possibilità, offerta dal sistema di gioco, era però concessa anche ai nemici – il che significa che l’atmosfera di Prey è molto ricercata, tesa, affascinante.
Pur non riuscendo a ripetere i risultati di Dishonored 2, né dal punto di vista della risposta della critica (comunque estremamente positiva), né da quello del mercato, Prey è un’altra stelletta sulle spalline di Arkane, alla sua uscita nel 2017.
La software house nata dall’utopia di Colantonio è riconoscibile, stimata, attira su di sé i riflettori quando annuncia di essere al lavoro su qualcosa, perché è diventata sinonimo di un certo tipo di gameplay, di un certo tipo di ricercatezza. I tempi sono maturi: Arkane è maggiorenne e Colantonio lo sa benissimo.
Un messaggio da Raphael Colantonio
I diciotto anni sono, per antonomasia, quelli in cui diventi adulto, devi trovare la tua strada e hai alle spalle abbastanza da poterti orientare. Sicuramente, lo ha pensato Raphael Colantonio quando, a giugno 2017, ha annunciato con una nota ufficiale sul sito di Bethesda il suo addio ad Arkane Studios.
Il papà della compagnia, che tanto si era prodigato per mantenerla in vita, che aveva provato a caricarsi sulle spalle gli inciampi di Ravenholm, le visioni soffocate di The Crossing, le telefonate deprimenti che cancellavano LMNO, ha deciso di fare un passo indietro – e lo ha fatto quando ha visto che la sua Arkane era diventata grande abbastanza da poter sopravvivere nel panorama AAA, sotto un grande publisher, anche senza di lui.
Così, quasi paradossalmente, Colantonio è tornato allo stadio precedente: quello della ricerca costante del publisher, che pur dando meno garanzie consente di avere un po’ di pressione in meno.
«Per me è arrivato il momento di fare un passo indietro e di prendermi un po’ di tempo da passare con mio figlio, di riflettere su quello che è importante per me e per il mio futuro» scriveva Colantonio, che di lì a breve avrebbe trovato la sua nuova strada.
Questa volta, senza uno zio ad aiutarlo per renderle realtà: nasce WolfEye Studios e il piccolo team, che ha trovato supporto in Devolver Digital, è attualmente impegnato su Weird West – una stramba visione, e non poteva essere altrimenti, per il Selvaggio West, con il giocatore pronto a partire verso l’ultima frontiera americana.
Un loop mortale
Per Arkane è così venuto il momento in cui Smith è tornato a casa, alla guida dello studio di Austin, mentre i veterani di Dishonored hanno il controllo della divisione originaria di Lione. Il loro prossimo gioco, che sarà diretto da Dinga Bakaba – che avemmo il piacere di intervistare ai tempi di Dishonored 2, parlando con lui soprattutto di level design – e conterà ancora una volta sul genio artistico di Sebastien Mitton, sarà Deathloop.
Le meccaniche, nemmeno a dirlo, saranno fuori dagli schemi: sull’isola di Blackreef, i giocatori si troveranno al centro di una eterna sfida tra due assassini, ciascuno con abilità specifiche e al centro di livelli particolarmente estrosi – come i fan di Arkane ormai vogliono. La peculiarità di questo ciclo? La morte è un ciclo infinito. E cosa questo significhi, in termini di gameplay, è per il momento tutto da scoprire.
Se volete unirvi alle vicende di Corvo ed Emily, potete portare a casa Dishonored 2 a un prezzo davvero speciale.
Abbiamo voluto approfittare dei vent’anni di Arkane Studios per raccontarvi la storia del team per un motivo ben preciso: spesso, è facile rendersi conto dei grandi talenti dell’industria quando ci si trova di fronte ai lampi di genio dei Dishonored. Per arrivare a quei lampi di genio, però, si è reso necessario un numero irrazionale di fallimenti, di lavori che non sono diventati altro che cartellette archiviate con sopra la dicitura “cancellato”. Idee, meccaniche, realizzazioni, ore di sudore e fatica che, seppur non trasformandosi mai in videogiochi che hanno visto la luce, hanno in qualche modo consentito di fare level up.
Arkane Studios non sarebbe mai diventata quella che è oggi se non avesse preso decisioni rischiose per seguire la sua visione, se non avesse sbattuto la faccia non una, non due, ma più e più volte contro le inevitabili logiche dell’industria. Eppure, complice anche l’intrecciarsi di due storie incredibilmente simili come quelle di Smith e Colantonio, l’altare sacrificale su cui sono caduti Ravenholm, LMNO e The Crossing ha offerto un grembo a Dishonored prima e a Prey poi. All’Arkane che sarà, ora anche senza il suo padre fondatore.
Una Arkane nella quale siamo impazienti di smarrirci ancora, da qui ai prossimi vent’anni.
Voto Recensione di La Fortezza Fatale, il Disonore, la Preda: vent'anni di Arkane Studios - Recensione
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