Kojima, i battle royale e il videogioco tra visione dell'autore e gusti del pubblico pagante
Il commento di Hideo Kojima sul suo non interesse per i battle royale ha scatenato reazioni tra appassionati e addetti ai lavori: il videogioco può davvero prescindere dal guardare prima di tutto alla monetizzazione?
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a cura di Stefania Sperandio
Editor-in-chief
Informazioni sul prodotto
- Sviluppatore: Epic Games
- Produttore: Epic Games
- Piattaforme: PC , PS4 , XONE , SWITCH , MOBILE
- Generi: Sparatutto
- Data di uscita: 25 luglio 2017
Quando venne annunciato con tutti i clamori dell’epoca che Fortnite, ormai sinonimo stesso di battle royale, fosse disponibile su Nintendo Switch, decisi di fare un tentativo. Non ho mai avuto un particolare feeling con i videogiochi competitivi, ma se questo era sulla bocca di tutti, dovevo sicuramente capire di cosa si trattasse – anche solo per essere più competente sul piano lavorativo.
Scaricai il gioco e mi immersi nella battaglia reale di Epic Games al meglio delle mie possibilità – ossia con risultati agonisticamente tra l’imbarazzante e il deprimente, ma non è questo il punto (per fortuna). Dopo circa mezz’ora passata a interpretare le dinamiche della sfida e a prendere fucilate in punti del mio corpo virtuale vari ed eventuali, il pensiero che mi si affacciò alla mente con insistenza era solo e soltanto uno: forse sto diventando vecchia per tutto questo.
Un’altra ventina di minuti dopo, decisi che la memoria d’archiviazione della mia Nintendo Switch avesse bisogno di spazio. Io e Fortnite non ci incontriamo da allora.
Questo significa che i battle royale sono il male e non dovrebbero esistere? Assolutamente no. Significa solo che non sono il tipo di gioco che fa per me. Che in un videogioco cerco qualcos’altro. Il che è esattamente quanto spiegava Hideo Kojima nelle sue recenti e discusse dichiarazioni. Significa anche che sì, probabilmente sto diventando vecchia. Ma questo, per fortuna, Kojima non l’ha detto.
I battle royale “il modo più veloce per fare soldi”
Nel corso del suo intervento al Comic-Con, Hideo Kojima ha parlato con franchezza della grande popolarità dei battle royale come il già citato Fortnite o come PUBG, facendo chiaramente riferimento al fatto che «quei giochi che chiudono i giocatori in un’isola a spararsi l’un l’altro» siano, sul mercato attuale, il modello più rapido per incassare.
Considerando i numeri che fanno registrare, si tratta di un’affermazione inattaccabile. La parte più interessante del discorso del game designer giapponese, che spesso si lascia andare ad analisi e disamine sull’industria dal suo punto di vista, è però probabilmente quella che è venuta dopo, anche se forse è meno altisonante per chi si è messo in cerca di una bocciatura per un genere videoludico diviso tra l’essere popolarissimo e odiato al contempo – ed è quella che attinge a piene mani da quello che il game designer disse ai tempi di Metal Gear Solid 2: Sons of Liberty.
«È la creatività a far andare avanti la civiltà. Stiamo vivendo un’epoca nella quale la creatività è dettata dagli algoritmi e diventa quasi priva di significato.»
Il videogioco che, nella visione di Kojima, dovrebbe essere qualcosa di più del mero monetizzare, per esprimere una visione creativa che si rapporti all’autore e che raggiunga il suo pubblico. Un film può essere l’espressione della visione e dei messaggi del suo regista e/o sceneggiatore. Un romanzo può fare altrettanto. Le serie TV sempre più cinematografiche non si tirano indietro. Perché non potrebbe farlo un videogioco? Se questo medium vuole farsi carico di messaggi e sfaccettature che anche gli altri propongono, sposandole alla peculiarità dell’interazione, perché non dovrebbe?
Il bisogno imprescindibile di guardare al soldo
Uscendo dalle curve da stadio che dividono il pubblico di chi ama i videogiochi story-driven pensati per lasciare qualcosa e chi è votato alle battaglie reali che puntano tutto sull’immediatezza del divertimento offerto, è evidente che esista – e debba coesistere – una doppia anima nei videogiochi. E in tutti i medium che richiedono grandi investimenti. Parliamo della visione creativa che si vuole esprimere e della necessità di incassare per la propria opera mediale. Creare un videogioco è un lavoro, non un hobby, che pertanto richiede la fatica e il sacrificio di un team, per fare in modo che la visione dell’autore si realizzi. Richiede gli investimenti di un publisher o l’auto-sostentamento di una software house indipendente. Per dirlo nei termini più chiari possibili, per fare videogiochi servono soldi.
Il fatto che un videogioco richieda investimenti, come un film o una serie TV – per mantenere il parallelismo – significa che deve incassarli. E che, per non fare in modo che alla riunione con gli investitori successiva del publisher qualcuno voli dalla finestra come nel meme-tormentone che tutti conosciamo, deve incassarne più di quanti sono stati spesi. Ecco spiegato, in termini veloci, il successo dei battle royale.
I battle royale piacciono al pubblico – ed è un pubblico enorme ed un pubblico che spende. I publisher vedono nel genere videoludico del momento, come testimonia il fatto che EA ne abbia seguito la scia lanciando il suo Apex Legends, una grande opportunità di guadagno. Ricordiamoci sempre che, se le persone non ci spendessero sopra i loro soldi, non esisterebbero le microtransazioni, gli acquisti in-game, i DLC, i free-to-start. Il consumatore decide con i suoi soldi cosa ha successo e cosa no. E in un’industria che deve guardare all’incasso, cosa ha successo e cosa no determina su cosa si concentreranno i prossimi investimenti. Il che ci riporta al discorso di Hideo Kojima: sacrificare la creatività.
Fate il gioco che vi pare, ma fatelo in modo creativo
Hideo Kojima è uno che si fa incuriosire da molte cose diverse. Se ne dubitate, probabilmente non lo seguite sui social (e fate benissimo, perché vi inonderà di tweet a ogni ora del giorno e della notte), dove potete vederlo passare dall’ultimo album dei Within Temptation ai grandi della musica più mainstream in un battito di ciglia. I creativi sono in effetti molto voraci e, come spiegò Kojima tempo fa, l’ambizione massima è fare in modo che la propria opera ispiri qualcun altro a crearne una sua.
Al centro del discorso, c’è sempre la creatività, quella che secondo il game designer sta perdendo di significato. Difficile immaginare, per uno che si butta a piene mani sugli Apocalyptica per accompagnare il suo trailer-chiave di Death Stranding, che nelle sue parole ci fosse una condanna di un genere. Hideo Kojima non ha affatto detto che i battle royale non dovrebbero esistere: ha detto solo che sono il modo più facile di fare soldi. Il che non è quello a cui lui vuole ambire.
Ha detto che, in virtù del fatto che sia un modello ludico estremamente monetizzabile, la creatività sta prendendo colpi a destra e a manca, perché tutti guardano alla battaglia reale senza aggiungere davvero qualcosa, esponendosi al rischio di un more of the same che crei il genere dei “giochi che somigliano a Fortnite“. Sicuramente, se il battle royale rimarrà in cima alle preferenze di giovani e meno giovani, con il tempo ci saranno variazioni sul tema più ricche – ne sono già esempi Tetris 99 e l’idea dietro a Fall Guys, ad esempio. Rincorrere un filone solo perché ha successo, però, non è il modo giusto di esprimersi. EA ha ritenuto opportuno realizzare il suo battle royale con Respawn. Activision ha ritenuto opportuno includerlo nel suo Call of Duty. Si tratta di un genere, non dell’incarnazione dei mali del mondo, che è gradito al pubblico, e che come tale viene proposto, sacrificando magari la possibilità di vedere proposte diverse.
Immaginate un mondo dove le persone acquistino di botto valanghe di romanzi fantasy. E adesso immaginate una casa editrice dire a uno scrittore di thriller, o di horror, di aver bisogno di un bel romanzo popolato da cavalieri, elfi e draghi.«Ma io stavo scrivendo la storia di un pagliaccio inquietante che…»«Tu scriverai quello che vende. E quello che vende sono gli elfi e i draghi.»«Non so scrivere di elfi e draghi, e poi ci sono già Tolkien, e Martin, e…»«Vuoi fare lo scrittore o no? Allora scrivi.»Il povero scrittore scriverà sicuramente il suo romanzo fantasy. Difficilmente sarebbe all’altezza di Tolkien e Martin, ma la casa editrice avrebbe una sua nuova proposta per inserirsi nel genere del momento. Cosa? L’autore voleva impiegare il tempo passato a scrivere quel mattone per dedicarsi a un giallo ben congegnato? «I gialli non vendono, adesso, chi se ne frega.»
Questo è il succo del discorso che faceva Kojima: la necessità dell’industria, per ovvi motivi di sopravvivenza, di inseguire il mercato. I creativi che non vengono messi al lavoro per realizzare la loro visione, ma per realizzare quelle dei consumatori a cui si rivolgono: realizza un videogioco che loro sono disposti ad acquistare, non a cui tu vorresti dedicarti. E se ciò che loro sono disposti ad acquistare sono competizione, adrenalina e immediatezza, cosa rimane per chi vuole parlare di muri, connessioni tra esseri umani, il bisogno di rimanere uniti, la forza dei mezzi di comunicazione? Una nicchia. Meno persone. Quindi meno soldi. Meno investimenti e sgomitate qua e là per gridare «ho qualcosa da dire anch’io, è possibile che siate tutti su quella ***** di isola a spararvi a vicenda?».
L’autorialità nel videogioco
Il game designer a me più caro (no, non sto parlando di Kojima, ndr), qualche anno fa mi fece notare che l’autorialità nel videogioco è ancora un’incognita. Anche questo fa parte del macro-discorso appena accennato da Kojima su creatività e tendenze del mercato che piegano le visioni dei publisher. Proprio Hideo Kojima è uno dei pochi che punta forte sul volerla vedere riconosciuta, sbattendovi in ogni dove quel suo A Hideo Kojima Game che, sparito da Metal Gear Solid V (dalla copertina, in-game è praticamente in ogni anfratto) fu un po’ la goccia che fece traboccare il vaso con Konami.
Quanti sono gli autori, all’infuori del panorama indie (dove non c’è un CDA che dirotti con logica gli investimenti verso quello che vende, ma dove domina la visione creativa), che vengono riconosciuti sul nome della software house per cui lavorano? Ce lo ha già dimostrato il caso Telltale: quando i loro giochi gli sono stati strappati e il corpo dell’agonizzante compagnia è stato finito neanche troppo delicatamente, a molti utenti è andato bene che The Walking Dead fosse finito in mano a Skybound. Qualcuno chiedeva anche che si prendessero pure The Wolf Among Us, in un’inquietante mentalità da una software house vale l’altra. Come se il videogioco e le sue caratteristiche fossero espressi dal titolo che porta, a prescindere da chi lo realizza, come se la software house fosse solo un’etichetta sulla copertina e non ci fossero creativi pensanti a rendere realtà quei videogiochi che comprate tutti i giorni.
I videogiochi, invece, non dovrebbero essere solo questo. Se Metal Gear passa da Hideo Kojima a Stefania Sperandio, le persone dovrebbero come minimo aspettarsi che cambi qualcosa – e sono abbastanza sicura che dovrebbero evitare di comprarlo. Se The Wolf Among Us passa da Telltale a qualcun altro, non può essere la stessa cosa – a meno che quel qualcun altro, rinunciando a una visione creativa, non faccia suo il modello Telltale.
I videogiochi devono guadagnare, è vero. Ma c’è tutta una fetta di mercato interessata ad acquistare le visioni dell’autore. Chi vuole il videogioco di Hideo Kojima e chi vuole il videogioco di Patrice Desilets. Chi vuole il videogioco di Sam Lake, chi quello di Sam Barlow, chi attende trepidante quello di John Romero, il lampo di genio di Neil Druckmann, la prossima follia di Hironobu Sakaguchi, Shigeru Miyamoto che ci mostra di nuovo la via, le visioni di Jade Raymond o quelle di Amy Hennig.
Amy Hennig. Quella che ebbe un’idea per un suo videogioco di Star Wars, che però doveva diventare qualcos’altro perché bisognava introdurre un determinato modello di monetizzazione. Idea che non si realizzò mai, perché il progetto diventò una specie di mostro di Frankenstein che non era più carne né pesce. La visione iniziale? Non si realizzerà mai, il gioco è stato cestinato. Doveva guadagnare. Se non sarà in grado di farlo come è previsto dai canoni del mercato odierno, allora “ludo” morghulis e pure “ludo” dohaeris. Tutti i giochi devono morire. Tutti i giochi devono servire.
È difficile trovare il confine tra cosa sia giusto fare per rendere un videogioco capace di generare un profitto e cosa sia giusto fare per consentire agli autori di esprimere la loro visione. Ci sono molte importanti compagnie che, per incrementare le loro entrate, seguono le tendenze del momento sacrificando forza lavoro che potrebbe dedicarsi a progetti più ricercati, più votati a un messaggio, all’espressione di una visione. Non che debbano farlo, ma potrebbero. Preferiscono di no, perché legittimamente, visto che parliamo di posti di lavoro, i numeri nella tabella “profitti” contano di più di quello che questo game designer istrionico e un po’ strambo vuole raccontarmi con la sua idea di gioco. Ma se quei numeri contano di più, se le librerie si riempiranno di montagne di “come diventare uno YouTuber” che faranno finire negli scaffali impolverati i “1984”, non ci staremo perdendo qualcosa? Quanto ci staremo perdendo?
Forse, allora, la chiave è la coesistenza. La libertà per i grandi publisher di investire nel genere del momento per sostenersi, mentre il creativo à la Kojima può trovare fondi e fiducia per esprimere comunque la sua visione.
La civiltà è scandita dalla creatività. Il videogioco è parte integrante dei mezzi di comunicazione del nostro secolo. Facciamo in modo che la sua funzione votata all’imediatezza ludica non sia l’unica che conti qualcosa. Forse, noialtri saremo anche vecchi – ma il videogioco non ancora. E ha ancora tanto da dire.
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