Sifu, come potete leggere dalla nostra recensione, è un’esperienza coinvolgente, divertente, estremamente impegnativa. È un picchiaduro sorprendente in più d’un senso, che fa della profondità del combat system la sua ragione d’essere.
Eppure, il suo primo contatto con il pubblico, non può che definirsi controverso. Se molti ne stanno apprezzando il gameplay, altrettanti lamentano l’eccessiva difficoltà di fondo dell’avventura, ritenuto ostacolo insormontabile e frutto di frustrazione.
Stando ad alcuni report, la maggior parte degli utenti non riesce a sconfiggere il secondo boss e solo una scarsa percentuale di videogiocatori è riuscita a giungere sino titoli di coda. A pochi giorni dal day one è difficile, oltre che inutile, fare delle stime definitive su queste cifre, ne siamo consapevoli, ma sono comunque dati significativi che (ri)aprono un dibattito particolarmente attuale e combattutissimo relativo alla difficoltà nei videogiochi.
La domanda, beninteso, è lecita e prevede una risposta, per quanto parziale, assolutamente scontata: i videogiochi sono uno svago elitario? La loro fruizione globale è esclusivo appannaggio di un pubblico selezionato enormemente inferiore, in termini puramente quantitativi, a quello potenziale?
Chi ha dilapidato una parte consistente dei propri risparmi in sala giochi saprebbe già come concludere questo dibattito puramente retorico. Al tempo stesso, chi è solito intrattenersi con un JRPG vecchio stampo o un MMO, per non tirare in ballo i GaaS, lo sa bene: vedere tutto, sapere tutto, fare tutto, è praticamente impossibile.
La risposta al quesito di cui sopra, insomma, per quanto circoscritta, è una sola: sì, i videogiochi sono elitari e sottendono una fruizione cronicamente parziale ed incompleta. Se vedere un film dall’inizio alla fine, ascoltare un album, leggere un libro, per quanto lungo e con una sintassi complessa, è relativamente alla portata di tutti, con il nostro hobby preferito non è la stessa cosa. Limitandosi anche solo a considerare i videogiochi moderni, basta non esplorare un’ambientazione, compiere una scelta diversa al presentarsi di un bivio narrativo, lasciare per strada una quest secondaria per perdersi irrimediabilmente qualcosa.
I videogiochi, da questo punto di vista, sono un oggetto già di per sé paradossale, considerazione valida anche senza addentrarsi nell’ambito del significato dell’opera di per sé (perché si può leggere un libro, o terminare Killer 7, pur non comprendendo sostanzialmente nulla, per esempio). Eppure, con il medium in esame, la questione diventa ulteriormente complessa proprio considerandone il principale elemento distintivo rispetto agli altri, ovvero l’interattività, che all’atto pratico, a grandi linee, coincide con il gameplay.
Ritirando in ballo i bei tempi andati dei cabinati, i più attempati tra noi (sottoscritto in primis, beninteso) sanno benissimo che c’è un altro ostacolo, una caratteristica da tenere in considerazione e a cui abbiamo già accennato parlando di Sifu.
A volte, difatti, la fruizione è incompleta per il più ovvio e scontato dei motivi: semplicemente, non si riesce a completare il videogioco di turno, perché troppo difficile. Se ai tempi degli 8 e 16-bit si trattava di un’eventualità relativamente comune, con l’introduzione della tridimensionalità i game designer di tutto il mondo hanno preferito concentrarsi maggiormente nell’estasiare e divertire il videogiocatore, piuttosto che nell’impegnarlo e a costringerlo a migliorarsi progressivamente.
Questa controtendenza, che vede in Nintendo, ed in console come Wii e DS, il principale promotore, ha generato un contraccolpo, un brusio di sottofondo nato da chi, anche a ragione ci mancherebbe, proprio non voleva rinunciare a mettersi alla prova con qualcosa di impegnativo.
Eppure, l’industria, nel primo decennio del nuovo millennio, ha prepotentemente puntato sull’allargamento del mercato, proponendo esperienze di facile lettura, semplici da padroneggiare e, in molti casi, da completare. Super Mario, con i Galaxy, si è fatto meno ostico, ma non per questo meno brillante. Siamo stati testimoni del successo di walking simulator come Everybody's Gone to the Rapture. Anche le produzioni più canoniche non si sono mai fatte particolari problemi ad inserire una modalità facile (ci torneremo a breve, infatti).
Con il debutto sul mercato di Demon’s Soul ed il successivo Dark Souls, siamo a cavallo tra il 2009 e il 2011, si è innescata una tendenza contraria. Non predominante, certo, perché i videogiochi di oggi restano in generale molto più semplici di una volta, ma sempre più cavalcata da una certa frangia di utenti.
Non c’è nulla di male nel desiderare un gioco impegnativo, né deve essere negato agli sviluppatori di dare forma e vita alle proprie visioni e desideri. Questi sono due concetti intoccabili e inamovibili, sia chiaro. Tuttavia, riconsiderando quanti hanno già abbandonato e abbandoneranno Sifu anzitempo (discorso ovviamente estendibile agli stessi Dark Souls, ma anche ai vari Returnal, Dead Cells e compagnia bella), pretende quantomeno una considerazione.
Ha senso realizzare un gioco, con la consapevolezza che solo pochi, con tempo e skill necessarie, riusciranno a vederne la fine? La questione non si può liquidare con una risposta secca e non bisogna dimenticare che, in effetti, gli autori hanno pieno e totale controllo su ciò che creano. Se vogliono dare vita a qualcosa che nessuno, magari neanche loro stessi, potrà mai completare, in una sorta di forma d’arte concettuale e paradossale, liberissimi di farlo. Eliminando gli estremi, tuttavia, la domanda resta valida, tanto più, proseguendo nei costrutti mentali eccentrici, se si vuole porre un diretto paragone con gli altri media esistenti.
Immaginate, per esempio, un film il cui ultimo atto non possa essere visto dagli spettatori che non hanno compreso e risolto le metafore, le simbologie, gli enigmi semiotici mostrati sullo schermo fino a quel momento. Pensate ad un libro che possa essere materialmente letto, solo se si ha capito anticipatamente dove vada a parare o ad un album musicale le cui ultime tracce sono ad esclusivo appannaggio di chi sa riconoscere gli accordi di tutte le precedenti canzoni.
Con i videogiochi, con le dovute distanze e differenze, accade esattamente questo. A chi non è abbastanza bravo, a chi non ha abbastanza tempo per impratichirsi, è negata la fruizione, il godimento, l’arricchimento attraverso l’opera videoludica. Pensate a Dark Souls, il caso più eclatante in questo senso, pensate a quanti è negato il piacere di immergersi in scenari così evocativi ed emozionanti, perché impossibilitati a battere un determinato boss.
C’è chi con fatica e determinazione supererà l’ostacolo. Chi si farà aiutare da qualcuno più bravo. C’è chi abbandonerà l’impresa, rinunciando ad un piacere estetico (e ci limitiamo solo a considerare quello estetico in questa sede) che non si dovrebbe negare a nessuno.
Siamo d’accordo, From Software vuole che sia difficile, perché il videogiocatore, anche attraverso sentimenti negativi come la frustrazione, deve essere testato, temprato e quindi allenato a superare certe difficoltà. Fa parte dell’esperienza, no? Un po’ come l’ultimo atto di The Last of Us Parte 2, la cui ossessione disturbante della protagonista (senza fare spoiler), diventa un peso per l’utente stesso, costretto a proseguire, nonostante il senso di oppressione, quasi un fastidio fisico, sempre più insistente esperito.
Già, saper suscitare sentimenti e sensazioni scomode e disturbanti, come desiderato e ricercato dagli sviluppatori, senza per questo impedire o ostacolare la fruizione a nessuno. Perché se da una parte il soffocante aspetto emotivo della produzione può inevitabilmente allontanare alcuni utenti, dall’altra The Last of Us Parte 2 si propone comunque con una modalità facile, oltre che offrire una lunga serie di opzioni che incrementano l’accessibilità anche nei confronti di chi soffre di qualche disabilità (e sul concetto di videogioco come strumento integrante e non settario, anche e soprattutto in questi termini, ci sarebbe moltissimo altro da dire).
Naughty Dog ha dimostrato empiricamente che è possibile proporre la propria visione, senza escludere a priori qualcuno perché non ha sufficienti abilità con il pad. Ma c’è un altro esempio, ancora più calzante ed esplicativo, proprio perché va nella stessa direzione di Dark Souls e compagnia: Donkey Kong Country: Tropical Freeze.
Il gioco di Nintendo è un autentico inferno colorato con toni accesi e abitato da personaggi teneri e “pucciosi”. Chi cerca un platform 2D impegnativo oltremisura e tendenzialmente sadico, non può che accettare la sfida lanciata da Retro Studios. Eppure, per chi proprio non ce la fa o non vuole farcela, in qualsiasi momento si possono vestire gli stilosi panni di Funky Kong, primate che letteralmente può surfare su qualsiasi ostacolo, burrone e nemico, per traghettare comodamente il videogiocatore sano e salvo sino al traguardo del livello di turno.
Nessuna imposizione, nessuna obbligatorietà di usare Funky Kong, nessuna costrizione ad utilizzarlo successivamente o oltre il tempo desiderato. Si supera il passaggio tanto odiato, si torna a giocare come si preferisce. Chi vuole sudare sette camicie per il gusto di mettersi alla prova può farlo, chi desidera vedere i titoli di coda senza rischiare l’esaurimento nervoso, ha i mezzi per riuscire nel suo intento.
Gli esempi appena riportati, hanno una diretta conclusione: l’introduzione di un easy mode in un Souls-like non deve essere vista come un’eresia, quanto come una concessione che può permettere anche ai meno avvezzi di godersi un videogioco.
Paradossalmente, visto che si vocifera che Elden Ring, proprio per ampliare la portata del potenziale audience, sarà più “semplice” rispetto ai predecessori spirituali, diverse modalità di gioco permetterebbero tanto più agli sviluppatori di difendere la loro visione originale, conservata in uno standard mode sempre disponibile e consigliato all’utenza per godere dell’esperienza di turno al suo meglio e nella sua forma originale.
Aggiungere, senza togliere nulla, per ampliare il pubblico, per non escludere, per abbattere il più possibile le barriere che influenzano e pregiudicano la fruizione del medium videoludico.
Certo, dare forma ad un easy mode può richiedere tempo e fondi specifici, ma con la tecnologia di cui godiamo oggi si tratta di qualcosa alla portata di qualsiasi team di sviluppo (basta anche solo modificare la quantità di danno ricevuta e inferta ad ogni colpo, per rendere un action più o meno accessibile, per esempio). Non è insomma una questione di risorse, quanto più di decidere a chi, e a quanti, sono rivolti i videogiochi.
I Souls-like devono buona parte del loro fascino anche al fatto che solo pochi sono in grado di completarli. Ma occhio a non farne una questione di “celolunghismo”. La community di videogiocatori è già abbastanza tossica per tanti altri motivi. Lasciamo a tutti la possibilità di giocare tranquillamente. Per dimostrare il proprio valore e la propria abilità, oltre alle modalità competitive online preposte, ci sono sempre Trofei e Achievement.
Se questa presa di posizione in difesa dell'easy mode vi ha fatto venire ancora più voglia di giocare all'ormai prossimo Elden Ring, ecco un pratico link che potrebbe fare al caso vostro.