Sono tanti i videogiochi in cui il protagonista, o un gruppo, compie un viaggio. Pensiamo ad un qualsiasi gioco di ruolo di qualsiasi tipo da Mass Effect a Final Fantasy, dove in quest’ultimo caso il quindicesimo capitolo del franchise è incentrato su un road trip di un gruppo di amici. In God of War il viaggio è una celebrazione funeraria, e Journey è letteralmente già dal titolo un’esperienza basata sullo stesso concetto. Negli open world, soprattutto quelli moderni, si viaggia molto, ma non sempre i videogiochi mettono il tema del viaggio al centro costruendo anche elementi di gameplay intorno ad esso.
Alcuni videogiochi fanno del viaggio il loro elemento fondante, chi più chi meno, declinandolo in maniera diversa a partire dal peso che occupa nel gameplay, passando ovviamente per toni della narrazione e contesti narrativi e tematici.
Ho pensato a questo curioso dettaglio mentre giocavo Days Gone, recentemente all’interno dei videogiochi gratuiti del PS Plus e al centro delle notizie infuocate emerse dal mondo Sony, che tra motociclismo e zombie ci porta a viaggiare per l’Oregon costruito da Bend Studio. E come medium in grande evoluzione e trasformazione, il videogioco vive su un filo rosso delle idee che lega soprattutto produzioni che hanno in comune un genere o elementi di game design e, come in questo caso, il viaggio come tema e gameplay.
Days Gone, ma anche Death Stranding e The Legend of Zelda: The Wind Waker sono tre videogiochi che parlano e “giocano” un viaggio. Tre produzioni forse agli antipodi per valori produttivi, estetica, target di riferimento ed ambizioni, ma che raccontano tre viaggi inaspettatamente simili.
Days Gone e il culto del motociclismo
Il viaggio di Days Gone è quello della speranza, di sopravvivenza, con Deacon e Boozer che cercano di accumulare risorse per andarsene a nord, via da quell’Oregon devastato dalla piaga dei furiosi. Una fuga vera e propria, sia dall’apocalisse simil-zombi, ma anche dalla tragedia che colpisce il protagonista, la morte della sua amata Sarah che viene raccontata nel tempo e dalla quale Deacon non riesce a staccarsi.
In termini ludici un viaggio da open world abbastanza classico, se vogliamo, una mappa grande da esplorare e nella quale trovare incarichi, missioni e collezionabili da scoprire. Avanti e indietro, percorso dopo percorso con tanto di spostamento rapido legato però alle scorte di benzina. Quello di Days Gone è infatti un viaggio che non può non ricordare The Walking Dead, e in generale tutti le storie dove la sopravvivenza è centrale.
La moto è peraltro un elemento centrale, sia come compagna di viaggio da sempre simbolo della libertà soprattutto nell’iconografia di genere prettamente statunitense, ma anche come elemento di gameplay sul quale investire risorse. Che sia per un abbellimento estetico come una livrea particolare o un pezzo di carrozzeria più estroso, o per un più banale (ma non per questo meno importante) ritocco al motore o al serbatoio della benzina.
Nonostante quello che, sicuramente, non è un meccanismo di esplorazione affatto innovativo né mai visto, Days Gone riesce a trasmettere la suggestione del viaggio in maniera efficace. Con un buon paio di cuffie si riesce anche a captare l’ottimo lavoro di sound design fatto da Bend Studio che sia per gli pneumatici che calpestano la neve fresca, la ghiaia, si impantanano nelle strade fangose, o per il rombo prepotente del motore che rappresenta a suo modo un grande fascino, ma anche un grande pericolo perché attira nemici e orde di mostri.
Una suggestione che, come detto, passa inevitabilmente per tutta quella che è l’iconografia del motociclista on the road. Immaginare la fatica nel guidare nelle situazioni più impervie, le fughe dalle orde di mostri, trasformando elementi banali di gameplay come il potenziamento alle munizioni trasportabili, che diventa una borsa da sella come salvavita per avere ancora più munizioni nel momento del bisogno. Tutti elementi che, in un modo o nell’altro, tornano anche in Death Stranding.
Il peso del viaggio inevitabile di Death Stranding
Di come il discusso lavoro di Hideo Kojima abbia usato la tematica del viaggio si potrebbero aprire una serie di parentesi a cascata che non finiscono più. Death Stranding che, opinione del tutto personale, pur non considerando un capolavoro è inevitabilmente un videogioco di quelli che danno nuovi standard narrativi e ludici, e il cui tentativo è da lodare e studiare anche le volte in cui non ci riesce.
Quello di Sam Porter Bridges nel riunire l’America e, di conseguenza, scoprire il suo posto in un mondo alla deriva è un viaggio di sofferenza e sacrificio. In uno scenario freddo, asettico, pericoloso e vuoto. Un open world letteralmente senza niente che non sia il mondo stesso, un concetto che ha messo in crisi i videogiocatori abituati a poter trovare cose in ogni angolo dei loro scenari virtuali, e che ha costretto molti a riflettere. Un mondo vuoto può essere in realtà un grande veicolo di emozioni, e riesce a comunicare ben oltre la missione secondaria o l’oggetto da consegnare.
Ce l’aveva insegnato The Legend of Zelda: Breath of the Wild rielaborando il modo in cui Nintendo ha usato il viaggio dell’eroe nella sua saga trentacinquennale, in una Hyrule stavolta vuota e morente, e Death Stranding rivede questo concetto in una chiave più opprimente e lovecraftiana, con la solitudine di Sam in un contesto in cui tutti sono stati costretti a rinunciare ad ogni forma di contatto. Lo scorso anno avevamo detto che Kojima aveva previsto la pandemia mondiale, il che è ovviamente falso ed è più una curiosa coincidenza ma, invece, rappresenta il valore aggiunto dei grandi autori di fantascienza: la capacità di saper prevedere scenari più o meno realistici (se togliamo le creature arenate e tutta la supercazzola scientifica alla base della tecnologia nel titolo, elementi fondanti della sospensione dell’incredulità di ogni storia sci-fi) o plausibili in cui inserire l’umanità come la conosciamo.
Temi che trovano il proprio corrispettivo nel gameplay attraverso la necessità di impiegare risorse per alimentare i veicoli, i materiali che si deteriorano, e addirittura gli stivali che si rovinano vittima delle intemperie. Ma anche nella pesantezza con cui Sam si muove, soprattutto a piedi, e restituisce un feedback molto reale di quello che è il terreno che sta attraversando, così come per il peso che letteralmente si ritrova a dover sostenere con le pile di oggetti caricate sull’esoscheletro.
Se il protagonista di Death Stranding è letteralmente un fattorino che connette il mondo, quella che noi viviamo è la fatica di Sam, il viaggio di un cavaliere solitario, forse l’unico capace oppure talmente folle da sobbarcarsi il destino dell’umanità intera. L’eroe dell’avventura, chiamato a fare qualcosa che diventa rapidamente più grande di lui e che all’inizio non era neanche destinato a fare, proprio come Link in The Wind Waker.
Il viaggio dell'eroe di The Legend of Zelda: The Wind Waker
Se la serie di Zelda ha avuto sempre nelle fondamenta l’archetipo della fiaba eroica, mai come in The Legend of Zelda: The Wind Waker c’è stata una chiamata all’avventura così potente. Link è stato sempre chiamato, in un modo o nell’altro, e il viaggio in The Wind Waker è, infatti, il viaggio dell’eroe inteso come tale.
Dal mondo ordinario dell’Isola Primula, Link si ritrova in breve a vestire letteralmente i panni dell’Eroe del Tempo, la tunica verde che da questo capitolo in poi ne diventa un simbolo, e da quella che inizia come una missione per salvare sua sorella inizia l’epopea che lo porterà a scoprire il vero senso di quel mare sconfinato. Che poi, pensateci, il mare di The Wind Waker non è l’equivalente degli Stati Uniti di Death Stranding?
Un’ulteriore evoluzione del concetto di open world che si stava delineando negli anni, su cui la saga Nintendo ha sempre lavorato dagli albori, piantando vari punti fermi nel corso delle iterazioni del franchise. Nell’episodio per GameCube vediamo infatti il primo, vero, open world di Zelda, con un mare sì diviso in blocchi ma sempre accessibile e sconfinato.
La sensazione di libertà che si prova quando si parte per la prima volta con il drakkar è unica, e da quel punto in poi le dinamiche di gioco si fondano sulle avventure navali di Link. Ogni isola ha un suo piccolo segreto, ci sono oggetti da scovare in fondo al mare così come battaglie casuali contro i mostri marini da affrontare, ed ovviamente la bacchetta del vento con cui gonfiare le vele della nave a nostro piacimento.
Avventure e disavventure, tra forzieri da scovare e tempeste marine, un’isola dopo l’altra fino allo scontro con Ganon. Il più classico dei viaggi, che abbiamo affrontato tante volte, in vari modi e mondi, con ogni mezzo possibile e con ogni tipo di compagnia.
Videogiochi che parlano del viaggio e ci fanno viaggiare
In moto, a piedi, in barca, da soli o in compagnia di qualcuno, per salvarci o salvare qualcun altro. Il viaggio nei videogiochi è uno degli elementi più affascinanti da scoprire ed analizzare, soprattutto quando poi è collegato direttamente al gameplay.
Viaggiamo nei videogiochi, ma i videogiochi ci fanno anche viaggiare metaforicamente verso un posto lontano, un mondo diverso e un momento più felice. Che sia la vostra isola di Animal Crossing: New Horizons o l’angosciante Yarnham di Bloodborne l’esito è sempre lo stesso: evasione. I videogiochi non devono sempre essere evasione, possono trattare argomenti importanti o raccontare qualcosa di più della semplice storia dell’eroe. The Last of Us Parte 2 è a suo modo un viaggio, ma di sicuro non dei più divertenti.
Ma che sia per superare un lutto, riconnettere l’umanità o sconfiggere un malvagio, è innegabile il fascino dell’archetipo del viaggio nei videogiochi. Soprattutto in un periodo come questo, dove abbiamo bisogno probabilmente di titoli che ci facciano imbarcare in una grande avventura e perderci in mondi lontani.
Quali sono stati, allora, i vostri viaggi preferiti nei videogiochi?
Se volete perdervi in questi mondi, vi consigliamo l'artbook di Days Gone, quello di Death Stranding e lo studio dell'arte di The Legend of Zelda.