Final Fantasy VI: Tredici storie, ventisei anni - Speciale
A ventisei anni dalla sua uscita originale ritorniamo al mondo di Final Fantasy VI, un’opera corale e anticipatrice ben più dei suoi tempi
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a cura di Adriano Di Medio
Redattore
Attenzione: questo articolo contiene spoiler dalle vicende narrate in Final Fantasy VI.
Era un’altra epoca, il 1994. Economia, politica, idee: tutto era diverso, e forse alcuni sospirano un po’ troppo quando raccontano che “loro c’erano”. Nel settore videoludico, quegli anni hanno rappresentato il passaggio dalle due alle tre dimensioni. Ma prima che arrivasse PlayStation e la sua ondata di novità e irriverenza, su Super Nintendo veniva lanciato qualcosa di tanto, troppo grande: Final Fantasy VI. Nell’anno in cui festeggia il ventiseiesimo compleanno, indaghiamo come mai questo videogioco sia stato ciò che è stato.
Addio colori pastello
Sviluppato in un solo anno dall’allora nota come Squaresoft, Final Fantasy VI segnò due importanti cambiamenti. Il primo è di tipo autoriale: per la prima volta la regia del gioco passò da Hironobu Sakaguchi, ideatore originale della saga, a Yoshinori Kitase. Il secondo riguarda il deciso cambio di stile e di contesto: vennero infatti abbandonati i colori pastello di tutti i precedenti capitoli, sperimentando invece con il mix magia-tecnologia che poi sarebbe divenuto marchio di fabbrica della serie e che soprattutto le avrebbe permesso di fare breccia in Occidente.
Non solo: affiancato da Hiroyuki Ito (futuro regista del nono capitolo), Kitase cambiò completamente approccio anche narrativo. L’atmosfera divenne più cupa ed opprimente, quasi anticipatrice di quello che oggi chiameremmo dieselpunk, ovvero una società le cui strutture e infrastrutture si affidano a un utilizzo esagerato (e nella realtà anche impossibile, visti i problemi di inquinamento) di vapore e motore a scoppio.
Una comunità umana in cui convivono regni di media grandezza, piccole città-stato e grandi entità la cui ombra è troppo grande, come il famigerato Impero di Gestahl. Ma pure se il contesto politico del gioco è accennato quel tanto che basta per la sceneggiatura, è chiaro come sia in un mondo in cui insediamenti e città sono ancora “isole di umanità” in un oceano verde e blu.
Quello di Final Fantasy VI è un mondo che “brama” di crescere e progredire, di uscire dall’isolamento delle città in mezzo a una natura ancora inesplorata e piena di entità che pur se ostili (i mostri) sono indispensabili per la vita della comunità. Per la prima volta il gioco propone quello che sarebbe stata (in maniera più o meno sottintesa) uno dei grandi temi ricorrenti della saga: l’uscita dall’irrazionale (le forze magiche) per approdare alla modernità (le macchine e la tecnologia). Un evidente tentativo di “alzare il tiro” da parte di Squaresoft, ai tempi ancora con l’impulso a fare “qualcosa di grande” prima di tutto perché è quello che si sente di voler fare. E anche quello che ai tempi probabilmente non venne compreso del tutto.
Final Fantasy VI, o “il Coro”
L’impulso “progressivo” che spesso sconfinava nell’azzardo è da sempre stata caratteristica della Squaresoft; la stessa saga di Final Fantasy vi era nata. La storia la conosciamo tutti: nel 1986 Squaresoft è quasi alla bancarotta e ci sono soldi a sufficienza solo per un ultimo titolo. Hironobu Sakaguchi va a parlare con Shigeru Miyamoto e gli propone un videogioco di ruolo, ispirato dal fatto che i Dragon Quest stanno andando bene e dal non avere niente da perdere: se quel gioco finale non fosse andato bene, Sakaguchi sarebbe tornato all’università. Poteva essere, letteralmente, la sua “ultima fantasia”. Così non è stato, ma questo impulso è rimasto per buona parte di quella che adesso viene ricordata come l’epoca “classica” (cioè dal primo al decimo capitolo). Una cosa che però non è mai stata pienamente replicata del canto del cigno di Square su Super Nintendo risiede nell’uso ancora adesso unico della coralità.
Final Fantasy VI infatti non ha un vero e proprio “protagonista principale”: può sembrare che all’inizio siano Terra e Locke, ma è solo un “effetto collaterale” dettato dal fatto che sono i primi che il giocatore incontra. In realtà tutti e tredici i personaggi (quattordici se contiamo Gogo) hanno la loro storia e le loro motivazioni, oltre che passati difficili con cui fare i conti.
Ancora adesso è comunque palese che molti hanno più visibilità degli altri (cosa ammessa con un po’ di rimpianto anche dagli stessi sviluppatori) ma a contare è appunto nel loro minimo comun denominatore: l’ideale della perdita. Ogni personaggio deve fare i conti con questo concetto, diversamente espresso. Terra che non ha mia conosciuto l’amore, Cyan che deve fare i conti con la perdita della famiglia, Strano e Relm un nonno e una nipote, il misterioso Shadow in cui negli anni è stata insinuata una parentela proprio con Relm. Setzer e Locke che inseguono amori scomparsi e per cui si incolpano, Gau un bambino selvatico abbandonato da un padre impazzito, i gemelli Edgar e Sabin, complementari in carattere e inclinazioni, combattuti sulla scelta tra ambizioni personali e ragion di Stato. E infine Celes, generale dell’Impero che si rende conto di aver servito interessi disumani ed è per questo odiata da tutti, e che all’inizio del secondo atto (il World of Ruin) è protagonista della sequenza forse più di impatto della trama: quando arriva a cercare quiete nella morte, gettandosi dalla scogliera dell’isola solitaria in cui si era ritrovata dopo il cataclisma.
La prima delle “Ultime Fantasie”
Questa imposizione ha influenzato anche il game design, attraverso la decisione di proporre un “job-system semplificato” in cui ciascuno ha la sua abilità unica, oltre a rendere possibile una trama i cui sviluppi possono variare sensibilmente a seconda del gruppo che scegliamo di comporre, pure se la storia in sé è appunto una sola e non modificabile.
Tuttavia un altro elemento importante per la storia di Final Fantasy VI è appunto la magia e la sua funzione all’interno del contesto. Viene concepita come una forza primordiale ma in qualche modo sfruttabile dagli umani, ma da cui sono inevitabilmente derivati degli eccessi inenarrabili. L’incipit infatti parla di come la tecnologia sia subentrata per via della scomparsa della magia, avvenuta a seguito della fine del conflitto noto come la Guerra dei Magi. Questo terribile avvenimento aveva ridotto il mondo a una landa desolata, che solo le macchine avevano permesso di ricostruire. Il ritrovamento di un’entità magica (l’esper Tritoch) ha però risvegliato nell’Impero Magitek la volontà di utilizzare la magia per fini bellici e in combinazione con la tecnologia, qualcosa che però potrebbe portare a ripetere gli stessi errori della Guerra dei Magi.
È qui che forse avviene la frattura più brutale di Final Fantasy VI rispetto non solo alla videoludica, ma anche a parte della letteratura fantasy: la magia è considerata un “errore”. Beninteso, non si tratta di qualcosa a livello di “sistema”, ma piuttosto a livello di concetto: magia e tecnologia sono due cose che per definizione non possono convivere. L’una ha senso solo se rimane nelle mani di pochi, l’altra cresce di potenza se diffusa a tanti. Entrambe hanno il potenziale per compiere grandi cose, ma la magia è per sua definizione inconoscibile per somma parte, e la sua potenza è tale che non si potrà mai sperare né di imbrigliarla del tutto né tantomeno di poterla controllare.
E, soprattutto, la magia nasce da altri esseri, nasce dalla morte: viene estratta a forza dagli Esper, sia morti (i Magicite) che vivi (lo straziante segmento alla Magitek Factory con Shiva e Ifrit). L’unico utilizzo “buono” che si può fare della magia è appunto di impiegarla solo il necessario, per un bene che travalichi l’egoismo. Perché la magia fa credere gli umani alla menzogna di essere degli dèi.
Senza follia non c’è tragedia
Ma un gruppo di tredici storie non sarebbe niente senza un antagonista di rilievo, e Final Fantasy VI ha dovuto assolvere anche a questo compito. Ci è riuscito con Kefka Palazzo, tra le prime incarnazioni a pixel del cattivo davvero irrecuperabile. Ciò che Kefka incarna è il disturbante e sublime ideale della follia, da sempre contraltare e complemento al tema della perdita.
Kefka è un mostro in tutti i sensi, capace di passare dal cinismo del luogotenente al consigliere manipolatore, per poi fingersi diabolico pagliaccio e serpente avvelenatore. Persino il suo tema musicale gli dona un nuovo tratto, quello del monellaccio che fa del male solo perché è una pura soddisfazione dei suoi istinti. Il suo ruolo è appunto quello di far incontrare la follia con la perdita, per generare nient’altro che la tragedia. Perché Kefka, a differenza di molti altri anche suoi “simili”, è il primo cattivo che vince.
È infatti lui a causare la seconda grande frattura di Final Fantasy VI, che stavolta non è concetto bensì di sceneggiatura. Il suo alterare il delicato equilibrio delle Tre Statue (conosciute come Warring Triad o le Statue degli Dèi e creatori degli Esper) lo pervade di magia e poteri illimitati. Un potere così grande e terribile che letteralmente spacca i continenti, generando il World of Ruin che è scenografia di quella che sarà la seconda parte della storia. Degli eventi che riprendono solo un anno dopo, nel corso del quale Kefka ha massacrato e terrorizzato gli abitanti della Terra dall’alto della sua torre.
Un potere troppo grande per tutti, tanto che il gruppo si è disperso e cerca inutilmente di rifarsi una vita. Una tragedia che diviene redenzione quando ognuno dei protagonisti fa i conti con il proprio passato (geniale scusa di trama per giustificare le missioni secondarie) prima di poter accedere alla Torre di Kefka e affrontare chi ha avuto l’arroganza di divinizzarsi.
Final Fantasy VI, ovvero: ma come lo traduci?
Il videogioco Squaresoft ha trattato tante e tali tematiche, nomi e possibilità che ancora adesso per molti rimane ineguagliato. Non solo ha gettato le basi per idee (estetiche e non) che saranno alla base anche di episodi più “celebri” (la forma One-Winged Angel di Sephiroth è una chiara ripresa del Fallen Angel di Kefka), ma anche ideato e compreso un tipo di narrazione e comprensione che non si faceva scrupoli a usare e trattare temi e nomi “scomodi”.
Tanto che l’atteggiamento nei confronti di Final Fantasy VI è stato sempre di “riverenza non ammessa”. Era semplicemente troppo grande per chiunque, forse anche per quelli che ai tempi lo crearono. Tanto che ci sono voluti letteralmente vent’anni perché qualcuno provasse a percorrere lo stesso sentiero: non è un caso che Octopath Traveler sia stato spesso indicato come una sorta di “successore apocrifo” di FFVI, sia come grafica che come temi e impostazione di trama.
Ma allo stesso tempo, la volontà di voler essere culturalmente onnivori e “senza filtri” ha portato la sua dose di guai a Final Fantasy VI e nelle sue numerose riedizioni. Oltre a un controverso restauro pubblicato su tablet e PC, questo si tradusse spesso in massicci cambi grafici e traduzioni edulcorate. Vennero infatti ritoccate molte immagini per i tempi troppo procaci di mostri e invocazioni e, in un modus operandi stranamente comune al medium televisivo, vennero alterate molti termini. Ad esempio le già citate Tre Statue vennero chiamate Doom, Goddess e Poltergeist, mentre in originale sarebbero state Fiend, Goddess e Demon, l’elemento magico Holy (poi divenuto noto come Sancta) divenne Pearl, oltre all’eliminazione sia delle volgarità che dei riferimenti espliciti alla morte.
Lo stesso nome Guerra dei Magi è controverso, in quanto c’è anche chi la traduce Guerra dei Demoni, cosa dovuta al fatto che il termine giapponese majin è traducibile sia come “mago” che come “demone”. Perché FFVI letteralmente trabocca di riferimenti culturali, dalla memorabile parte dell’Aria di Mezzo Carattere in cui bisogna assistere Celes divenuta cantante lirica, fino ai riferimenti alla Divina Commedia. Ma di nuovo, scoprirli è quello che rende grande un’opera: c’è sempre qualcosa che non si ha considerato, una lettura differente e più profonda.
C’è stato un lungo dibattito su quale possa essere il “miglior Final Fantasy di sempre”. Che ci elegge proprio Final Fantasy VI per direttissima, altri invece lo considerano sì un gran gioco (al di sopra della media pure dei suoi fratelli) ma di certo non il migliore. È un dibattito che probabilmente non avrà mai una soluzione univoca, visto che inevitabilmente si “sfora” nella soggettività. Eppure questa piccola cartuccia di 3 Megabyte racchiude talmente tanta anima da non poter essere ignorata: c’è anzi solo da stupirsi di tutto ciò che è stata in grado di fare e dire. Certo è che Final Fantasy VI è stato ed è ancora un classico in tutti i sensi, in grado di influenzare su più livelli tutto il settore videoludico e culturale di ieri, oggi e domani.