È diventato difficile parlare di videogiochi, da quando conosciamo meglio chi li crea

Ci sono due aziende con storie simili e ci costringono a rivedere la nostra opinione sui videogiochi: Activision Blizzard e Riot Games. Ma quanto le controversie legali in corso dovrebbero influenzare la visione sull'opera in sé?

Immagine di È diventato difficile parlare di videogiochi, da quando conosciamo meglio chi li crea
Avatar

a cura di Valentino Cinefra

Staff Writer

La velocità a cui viaggiano le informazioni ha trasformato la società, forse come non mai. Difficile prevedere un’altra evoluzione simile, ma di certo il mondo di Internet e dei social network è qualcosa di completamente diverso, ed influenza anche il mondo reale in maniera inequivocabile.

Rimanendo solo nel campo dei videogiochi, quello che mi compete visto che siamo su SpazioGames, provate ad immaginare l’uscita di Cyberpunk 2077 (il cui anniversario è molto recente, tra l’altro) nel 2000, per esempio.

Non avremmo saputo niente del gioco fino alla data di uscita, perché le uniche informazioni filtrate sarebbero state quelle degli eventi stampa, e delle riviste che sarebbero uscite probabilmente a ridosso, o dopo il day one. Invece, le famigerate versioni old-gen del titolo sono arrivate praticamente in contemporanea alla stampa e al pubblico, e le informazioni sono girate nel giro di qualche ora.

E questo è un bene, perché consente un flusso di informazioni più veloce, di aggirare i filtri e non rallentare la macchina della divulgazione. L’informazione per come la intendiamo oggi consente di sapere cosa succede anche all’interno degli studi di sviluppo. Anche questo è un bene, ma a suo modo è pure un problema.

Tra le tante storie aberranti che abbiamo sentito, dal Gamergate ad oggi, di mezzo ci sono andate anche tante aziende molto blasonate. I casi sono molteplici, ma in questo articolo vorrei concentrarmi solo su Riot Games ed Activision Blizzard perché c’è un curioso (e grottesco) legame tra queste due aziende.

Al di là della storia condivisa, perché Riot Games fu fondata da ex-dipendenti Blizzard, è come se gli ultimi anni di queste due aziende fossero stati speculari, creando una sorta di staffetta tra Activision Blizzard e Riot Games. Tant’è che molti dicono che “Riot è la nuova Blizzard”, per il percorso che sta facendo.

La casa di World of Warcraft ha costruito un immaginario fatto di tanti videogiochi diversi, con le loro storie e personaggi, ed ha sperimentato anche con nuovi generi videoludici come con Overwatch, il primo shooter sviluppato da Blizzard. L’azienda ha creato quindi un numero elevato di proprietà intellettuali, le quali generano merchandise e un chiacchiericcio tra i fan non indifferente.

Non ha mai capitalizzato, però, eccessivamente con le produzioni extra-videoludiche. Il lungometraggio di Warcraft è stato salvato per il rotto della cuffia dal mercato cinese, perché in Occidente si è rivelato un disastro. E al di là dei, pur bellissimi, cortometraggi e filmati tra Overwatch, World of Warcraft e StarCraft, non c’è mai stata la volontà di produrre dei contenuti multimediali su queste IP.

Cosa che ha fatto Riot Games invece, con la splendida Arcane su Netflix. Un’azienda che ha creato a sua volta il suo primo shooter, ovvero Valorant, e sta espandendo il brand di League of Legends su vari fronti e altre tipologie di videogiochi, come il gdr Ruined King (qui la recensione) e il rhythm game Hextech Mayhem (qui la recensione).

Per quanto riguarda la crescita multimediale di LoL basti pensare ai video musicali delle K/DA e ai tanti trailer creati per i vari mondiali, o per gli eventi più importanti.

Due aziende molto simili, in certi momenti quasi l’una lo specchio dell’altra. Il risultato, però, è che Blizzard è al suo minimo storico in termini di gradimento, mentre Riot Games è al suo massimo storico, grazie alle iniziative di cui sopra.

Entrambe, però, si sono dovute scontrare con delle accuse di una gravità inaudita.

Activision Blizzard nella bufera, letteralmente

Se dovessimo pensare al momento in cui Blizzard ha iniziato il suo declino videoludico, probabilmente sarebbe la doppietta Warcraft III Reforged - Diablo Immortal.

Nel primo caso, per la prima volta i fan di Blizzard si sono sentiti ingannati. L’azienda non aveva mai trattato così i suoi giocatori più fedeli, con un remake pieno di problemi che ha deluso chiunque. Warcraft III Reforged è stato un disastro su tutta la linea, ma ancora prima i giocatori più affezionati hanno capito che qualcosa stava cambiando già nel 2018, con la famigerata presentazione di Diablo Immortal.

Già l’idea di uno spin-off di Diablo per smartphone aveva incontrato il disgusto popolare ma, appunto, si parla di gusti. Ma l’idea di dileggiare il proprio pubblico è qualcosa che un’azienda con la testa sulle spalle non farebbe mai. Ricorderete la frase “Do you guys not have phones?”, in cui il game designer Wyatt Cheng rispondeva stizzito alle critiche sul fatto che il gioco non avrebbe avuto una versione PC, deridendo il pubblico chiedendo loro: “non ce l’avete un telefono?”.

Da lì in poi la percezione del pubblico verso Blizzard è crollata anno dopo anno. I principali designer dei progetti se ne sono andati, i giochi non sono usciti (e quando l’hanno fatto non sono stati esattamente all’altezza), e tutti hanno cominciato a dar ragione a quelli che vedevano un futuro nero per l’azienda solo per via della fusione con Activision.

Perché oltre al declino videoludico, inteso come sviluppo, promozione e vendita dei videogiochi, Activision Blizzard si è trovata in situazioni a dir poco spiacevoli nel corso degli anni.

Il campanello d’allarme più forte, forse il primo a farci rendere veramente conto che qualcosa stava cambiando, è stato sicuramente il caso Blitzchung. Il giocatore di Hearthstone di Hong Kong che, durante un torneo ufficiale, si schierò apertamente a favore delle proteste del 2019-2020 contro il regime, e che venne punito da Blizzard con un ban dal torneo.

Un evento che chiaramente risuona con la quota azionaria impugnata dalla cinese Tencent, anche se Blizzard si difese dicendo che, semplicemente, non voleva che nei suoi eventi si parlasse di questioni politiche. La storia sollevò una vera rivolta popolare da parte di tutti i videogiocatori e non solo, portando in campo anche il Congresso degli Stati Uniti che impose a Blizzard di porre rimedio alla sanzione che, alla fine, non venne annullata ma solo moderata.

Ma il caso per cui Activision Blizzard rischia di non riprendersi più dal punto di vista mediatico, e non solo, è quello legato alle accuse di molestie sessuali e comportamenti misogini sul luogo di lavoro. Una storia che noi abbiamo conosciuto solo pochi mesi fa, dallo scorso luglio, con la denuncia partita dagli inquirenti dello stato della California, ma che ha ricostruito episodi risalenti a diversi anni fa.

La famigerata “Cosby Suite” della BlizzCon 2013 (Kotaku l’ha raccontata in maniera egregia, con fonti dirette), i più di mille dipendenti che si sono raccolti in una lettera aperta contro l’azienda, i conseguenti licenziamenti dopo le prime accuse e le fughe dei dirigenti più in vista, così come le storie emerse che vanno dal raccapricciante all’inquietante, tra cui il suicidio di una dipendente Blizzard che sarebbe stato causato dal revenge porn, stando alle testimonianze. Una storia che è ancora in corso in questo momento, e che alla fine mostrerà un quadro abbastanza grottesco di quello che stato Blizzard come luogo di lavoro negli anni.

E come se non bastasse tutto questo è venuto fuori di recente che Bobby Kotick, CEO del gruppo, pare fosse al corrente di ognuna di queste vicende (e chissà di quante altri che non conosciamo), e anche protagonista in alcuni episodi di discriminazione e abuso. Non solo, perché Kotick, secondo quanto emerge dalle testimonianze e che è attualmente al vaglio degli inquirenti, pare minacciasse pesantemente chi si azzardava a tirare fuori la questione in pubblico.

Una situazione da cui sarà difficile che l’azienda ne esca rinnovata in qualche modo, talmente grave che ha portato anche Sony, Nintendo e Microsoft a schierarsi apertamente contro il comportamento di Activision Blizzard, così come l’intera direzione dei The Game Awards 2021. In World of Warcraft sono stati rimossi dei dialoghi ambigui e flirt (come se fosse quello il problema), e in Overwatch si è dovuto cambiare nome ad un personaggio, perché ripreso da un dipendente coinvolto in alcuni dei casi citati in giudizio e attualmente in fase di analisi legale.

Ci sarà senz’altro un prima e un dopo questa vicenda. Molti dipendenti stanno lasciando Activision Blizzard, tra cui l’organizzatrice della rivolta contro Kotick, e ad oggi è impossibile capire con certezza come ne uscirà il colosso del mondo dei videogiochi. È un caso che ha aperto gli occhi a molti, soprattutto per via della grande risonanza che ha l’azienda.

Una storia simile, pur diversa in alcuni frangenti, è capitata a Riot Games.

Riot Games, l’outsider più mainstream di sempre

Riot Games ha una storia diversa da Blizzard, perché ha basato il suo business su di un solo gioco fino a pochi anni fa. Un gioco che, per altro, è molto giocato ma da una nicchia molto particolare. È molto probabile che un videogiocatore di League of Legends non giochi a nient’altro (o poco), più che un videogiocatore onnivoro giochi anche a League of Legends.

Tradotto in soldoni: Riot Games la conosceva fino a poco tempo fa solo chi gioca a LoL, una categoria di giocatori atipica di suo. I giocatori di LoL sono estremamente legati al brand, spendono soldi nei contenuti cosmetici in-game e nel merchandise, ma difficilmente escono da quell’ecosistema se non per fugaci incursioni nel mondo videoludico “classico”.

Prima dell’arrivo dei giochi da tavolo, di Valorant, e dei titoli che abbiamo citato in apertura, ma soprattutto ben prima dell’esplosione del fenomeno Arcane, Riot Games era un’azienda grande, molto ricca, ma poco nota.

Per questo, quando nel 2018 emerse la cultura del sessismo all’interno degli uffici di Riot Games (come l’ha definita Kotaku nel suo dettagliatissimo editoriale), non ci fu lo stesso clamore mediatico. Non si è arrivati a parlarne anche fuori “salotti del videogioco”, come dimostra il video del canale di Breaking Italy che avete trovato poco più sopra. Nel 2018, Riot Games era un’azienda nota ai giocatori di LoL e agli addetti ai lavori, e vi assicuro che molti giornalisti all’epoca avevano parecchia puzza sotto il naso nel parlare di Riot.

Nell’approfondimento di Kotaku si parla di situazioni che, purtroppo, abbiamo letto in molte altre occasioni tra cui la vicenda di Activision Blizzard. Discriminazioni sul luogo di lavoro, barriere all’assunzione per le donne, proposte di natura sessuale in cambio di avanzamenti di carriera, ed una serie di altre cose che potete immaginare. Nei giorni in cui il portale stava indagando sulla situazione interpellando i dipendenti, Riot Games inserì con un tempismo sospetto, o almeno curioso, una pagina sui propri siti nei quali veniva spiegato come l’etica nel lavoro venisse prima di ogni cosa.

Comportamenti del genere si sarebbero verificati anche di recente, perché lo scorso febbraio il CEO di Riot Games, Nicolo Laurent, è stato formalmente accusato da Sharon O’Donnell di molestie sessuali. Laurent avrebbe fatto avance non richieste a O’Donnell, chiedendole di essere più “femminile”, e  secondo i report parlava con lei delle sue mutande con fare allusivo. Non un caso isolato, perché altre accuse sono arrivate verso altri dirigenti e responsabili, sempre legate alla prevaricazione delle dipendenti di sesso femminile, che fossero molestie sessuali o barriere all’avanzamento di carriera.

In risposta a questi comportamenti, Riot Games ha assunto due aziende esterne dedite alle sole indagini riguardo i comportamenti scorretti sul luogo di lavoro. Le quali, ad oggi, stanno ancora indagando sulle vicende emerse dalle accuse, senza aver trovato prove definitive che possano sostenere la causa di nessuna delle parti coinvolte.

Mentre Riot Games vive il suo momento migliore, perché ha iniziato ad investire in nuove IP e in prodotti videoludici che permettano a League of Legends di espandersi dalla sua zona di comfort, le indagini sono ancora in corso.

Giudicare l’opera e giudicare l’autore

Qual è il problema della velocità delle informazioni a cui accennavo nell’apertura dell’articolo? Che è diventato sempre più difficile parlare di videogiochi, da quando conosciamo molto meglio chi li crea.

Mai come prima d’ora si pone il problema etico del metodo di giudizio dell’opera, relativamente all’autore.

Se domani uscisse Overwatch 2, e magari fosse un videogioco dalla qualità altissima, come ne dovremmo parlare? Arcane è una serie meravigliosa, ma è tratta dall’IP di un’azienda in cui ci sono indagini per molestie sessuali e discriminazioni: questo cambierebbe il nostro giudizio?

Questi avvenimenti accadono sempre di più nel mondo dell’intrattenimento, basti pensare alle dichiarazioni transfobiche di J.K. Rowling, l’autrice della saga di Harry Potter, giusto per citare uno dei casi più recenti tra quelli più “pop”. E quando succedono cose del genere è inevitabile, per chi ritiene che queste vicende siano inaccettabili, pensare al boicottaggio. Pensate anche al caso di Tripwire della scorsa estate, con i suoi giochi boicottati dai videogiocatori per le esternazioni dell'ex CEO.

In molti, rispetto a quanto accaduto a Blizzard in particolare, nella community dei videogiocatori hanno deciso di boicottare qualsiasi prodotto dell’azienda. Ed è una reazione del tutto comprensibile, utile per mandare un messaggio forte a chi non decide di fare un giro di vite per chi non si comporta in maniera umana nelle aziende.

Personalmente supporto chi decide di procedere verso questa direzione, tanto meno condanno chi la segue: ma è davvero giusto boicottare un videogioco in questi casi?

Ad ogni ruolo nella community, la sua responsabilità

Da un lato ci sono dirigenti che compiono atti di discriminazione, ma anche sviluppatori che fanno semplicemente il loro lavoro. Potreste pensare che gli sviluppatori siano conniventi, se non denunciano situazioni come quelle che abbiamo descritto sopra, ma è necessario ricordarsi che non è corretto fare di tutta l’erba un fascio.

Considerato quanto sono grandi, e spesso dislocate, aziende di questo tipo, è probabile che ci siano membri del team di sviluppo che abbiano appreso di comportamenti del genere alla nostra stessa maniera. Perché dobbiamo incolpare chi modella le armature di World of Warcraft per le azioni di cui è accusato Bobby Kotick? Non è corretto.

A questo punto l’unica soluzione possibile è scindere la figura di chi si approccia ad un videogioco, prodotto da un’azienda da cui emergono racconti di questo tipo. Oggi sono Riot Games e Activision Blizzard, ma domani e dopo domani potrebbero essere altre perché la bro culture è fortemente diffusa nell’industria dei videogiochi. Già oggi, estendendo il discorso alle condizioni generali di lavoro, se proseguissimo con le politiche di boicottaggio non dovremmo comprare quasi nessun videogioco. Escluso qualche indie, probabilmente.

È impossibile capire se sia giusto o meno boicottare (o almeno osteggiare) un prodotto, senza capire chi deve fare questa scelta.

Il giocatore ha pieno diritto, come consumatore, di supportare o meno le aziende in cui crede o non crede. Il potere d’acquisto è la rappresentazione della sua volontà, e come tale un eventuale boicottaggio è del tutto legittimo e, vi dirò in tutta onestà, anche da incoraggiare – volendo.

Come vi diciamo spesso di non acquistare prodotti le cui storie produttive sono turbolente, perché non avete visto trailer o non avete abbastanza informazioni, allo stesso modo potremmo dirvi che se i valori di un’azienda non rispecchiano più i vostri, avete tutto il diritto/dovere di non supportarla economicamente.

In quanto analisti, però, la situazione è ben più complicata. La recensione di un videogioco non è la recensione di un’azienda, e come tale non deve essere influenzata dal proprio bias rispetto all’operato di un team di sviluppo.

Le recensioni sono elaborazioni di un pensiero che deve avere una necessaria parte di soggettività, perché altrimenti diventano delle sterili liste della spesa, ma il pensiero deve essere rivolto sempre e solo verso il prodotto, non verso l’azienda che l’ha fatto.

Un po’ come il fatto che la critica non si fa (solo) con le recensioni, ma con gli approfondimenti a latere come questo, o come quelli che periodicamente vedete qui su SpazioGames. Per chi è nella nostra posizione è fondamentale separare l’opera dall’autore, altrimenti le recensioni diventerebbero delle analisi completamente inutili.

Ma bisogna continuare a parlare di cosa succede nell’industria videoludica, questo sì. Perché in questo modo voi giocatori, e quindi clienti, avrete la possibilità di decidere se supportare o meno le aziende che producono i vostri videogiochi preferiti.

E infine potrete scegliere in serenità, come il sottoscritto, quando vi sentite di dover separare l’opera dall’autore, oppure no.

Se volete comprare i vostri videogiochi, di qualsiasi azienda siano, potete farlo con il nostro link affiliato di Amazon.
Leggi altri articoli