Tra le saghe più amate in Giappone, Dragon Quest rappresenta un inno alla classicità, un’eco, per parafrasare il sottotitolo italiano di questo undicesimo capitolo, di un’era perduta, in cui i giochi di ruolo erano semplici nella loro narrativa, ritmati da centinaia (se non migliaia) di combattimenti e incentrati su un manipolo di personaggi piuttosto che su storie dall’ampio respiro.
A nove, lunghi anni dall’ultimo capitolo originale, uscito in occidente come esclusiva per Nintendo DS, ecco giungere anche in Europa l’ultimo episodio, che abbiamo lungamente provato per voi sulla nostra fida PS4 (Pro).
Lo sappiamo che non vedevate l’ora di incrociare slime e di pagare preti per riportare in vita membri caduti del vostro party, ed eccovi la nostra recensione.
Same old tale
Dal lontano 1986, data di pubblicazione del capostipite, la saga creata da Yuji Hori non si è mai preoccupata di fornire più di un semplice contesto per motivare le azioni dei suoi protagonisti: nessuna delle storie raccontate, con la sola, parziale eccezione dell’ottavo capitolo, ha mai fatto davvero breccia nel cuore dei fan, troppo occupati a godersi quanto di buono c’era nei vari giochi a livello di gameplay per lasciarsi trasportare da intrecci semplici, pieni di stereotipi e privi di qualsivoglia colpo di scena.
Piuttosto, Dragon Quest è sempre stata una serie “umana”, capace di sfornare personaggi adorabili, capaci, loro sì, di rimanere a lungo nel cuore dei giocatori: mercanti burberi ma dal cuore tenero, regnanti innamorati dei loro popoli, ladri più inclini a fare del bene che a vuotare le tasche altrui.
Da questo punto di vista, Dragon Quest XI – Echi di un’era perduta non costituisce eccezione, che piaccia o meno: il plot che sorregge la lunga campagna è semplice, già visto e vissuto in prima persona centinaia di volte non solo dagli appassionati del franchise, ma da chiunque si sia cimentato con un gioco di ruolo di matrice giapponese negli ultimi trent’anni.
C’è un prescelto, il protagonista senza nome che saremo chiamati a impersonare, strappato dalla culla da un’orda di mostri, che ne costringe la madre a fuggire precipitosamente da un castello in fiamme in piena notte, per poi abbandonarlo a pelo d’acqua con gli occhi pieni di lacrime.
C’è un villaggio bucolico, lontano da tutto e da tutti, in cui la vita scorre lenta e placida, in cui questo bambino cresce, accudito da uno degli anziani della comunità e dalla sua amorevole figlia, la quale gli tiene nascosta la sua vera identità fino al compimento della maggiore età, quando, in seguito ad un rito iniziatico, decide di spiegargli la sua vera natura e il significato del marchio sulla sua mano sinistra.
Il ragazzo altri non è che la reincarnazione del Lucente, un eroe che, tra storia e leggenda, aveva liberato il mondo di Erdrea molti secoli prima dalle forze del male: a distanza di centinaia di anni, però, un’ombra lunga e minacciosa si estende nuovamente sul mondo, e qualcuno dovrà occuparsene…
Tra questo cumulo di topoi fantasy già letti/sentiti migliaia di volte, spiccano però personaggi memorabili, che arriverete a considerare amici alla fine dell’ottantina di ore che spenderete in loro compagnia: Sylvian e Veronica sono assolutamente le star dello show, l’uno con il suo fare istrionico e sfacciato e l’altra con il suo caratteraccio e la lingua lunga, ma ognuno dei membri del party, a parte l’anonimo protagonista, ha una sua storia da raccontare e una personalità con dei tratti ben distinti.
Come per altri Dragon Quest, allora, anche in questo undicesimo capitolo il viaggio conta più della destinazione, i personaggi più dell’intreccio e, soprattutto, la sostanza più della forma.
Se non è rotto, non aggiustarlo
Nonostante il nuovo, scintillante motore grafico, il cuore del gameplay di Dragon Quest XI è rimasto pressoché invariato rispetto al recente passato, con piccole aggiunte e migliorie che hanno affinato e snellito la formula piuttosto che reinventarla: se, come noi, vi aspettavate rivoluzioni copernicane da questa prima uscita su piattaforme di corrente generazione, potreste rimanere delusi, perché Hori e il suo team hanno preferito concentrarsi sulla perfetta traslazione degli stilemi classici della saga all’interno dell’Unreal Engine senza apportare ad essi delle modifiche, confidando nel successo che le precedenti uscite avevano ottenuto.
Sebbene dai primi trailer la presenza di una cavalcatura lasciasse intendere che la serie si fosse votata all’open world, la realtà è un po’ diversa: le mappe sono sì più ampie e definite che in passato, con un inedito sfruttamento della verticalità in certi frangenti, con rocce, sporgenze ed alberi scalabili, ma sono essenzialmente collegate tra loro da caricamenti, e, alla prova dei fatti, non troppo dissimili da quelle storiche della serie.
Ogni zona contiene una città differente, atta a portare avanti la trama, e uno o due dungeon ad essa collegati, dove svolgere missioni primarie e secondarie (queste ultime presenti nell’ordine della trentina appena) per proseguire lungo la storyline: sebbene si ottenga relativamente presto il primo mezzo per spostarsi, lo splendido vascello di Sylvian, e la presenza di cavalli renda l’esplorazione più rapida e piacevole, l’impressione è quella di trovarsi dinanzi alle medesime mappe viste in passato, solo ingrandite e arricchite.
Probabilmente il passaggio ad un vero mondo aperto è nelle corde del team di sviluppo, ma per esso dovremo aspettare il dodicesimo capitolo; parimenti, la possibilità di muovere liberamente i membri del proprio party durante le battaglie, che, sulle prime, aveva fatto pensare ad un avvicinamento al modello dei Tales of di Bandai Namco, si rivela presto essere un fattore puramente estetico, disattivabile a piacimento nel menu delle opzioni per tornare alla consueta visualizzazione delle battaglie del franchise.
D’altronde, è il combat system stesso a non essere cambiato di una virgola, con l’eccezione dello status Pimpante: ma andiamo con ordine.
I nemici, com’era già avvenuto a partire dal nono capitolo e con i recenti remake per 3DS, sono visibili su schermo e quindi evitabili (tranne che durante le traversate in barca), lasciando quindi al giocatore la scelta se combatterli o meno: una volta ingaggiati, li si affronterà con un sistema molto canonico, a turni puro, senza la possibilità di visualizzare l’alternanza dei turni in anticipo.
I comandi sono quelli classici, tra attacchi fisici, tecniche, magie ed oggetti, e ci è sembrata enormemente migliorata l’intelligenza artificiale alleata, che rende l’opzione di affidare ad essa gli altri tre membri attivi del nostro party una possibilità concreta, laddove in passato significava sprecare oggetti e risorse magiche.
Nella sua staticità e classicità, il sistema di combattimento si difende ancora egregiamente, nonostante diversi congeneri su PS4 abbiano portato in dote idee più fresche e ritmi più alti: ma, si sa, Dragon Quest è la più “giapponese” delle saghe di JRPG, fieramente ancorata alle sue tradizioni, nel bene e nel male.
Dopo aver speso decine di ore in compagnia del gioco, riteniamo che i fan della prima ora non baderanno nemmeno alla generale mancanza di vere novità, com’è in fondo anche giusto che sia vista la qualità del pacchetto, ma nondimeno ci sarebbe piaciuto che Square Enix osasse un po’ di più, magari rimodernando l’antiquata gestione dell’inventario, che rimane, ad oggi, il principale tallone d’Achille della produzione.
L’unica, gradita aggiunta al combat system è rappresentata dallo stato Pimpante, una condizione passeggera che aumenta le statistiche di base dei personaggi e consente loro di attivare due differenti tipologie di mosse, l’una, meno potente, in solitario, ed un’altra, infinitamente più impattante sugli scontri, in collaborazione con uno o più compagni di squadra: si va dalla possibilità di infliggere gravi danni a quella di rigenerare per diversi turni punti vita e punti magia, come anche di infliggere fastidiosissimi stati alterati ai malcapitati nemici.
L’esecuzione di una mossa Pimpante mette fine istantaneamente a tutti i bonus alle statistiche, che altrimenti durerebbero per diversi turni, con la possibilità di portarli di scontro in scontro: ecco, quindi, che questa introduzione aggiunge un fine strato tattico ad ogni battaglia, rendendo meno tediosa la routine dei combattimenti contro nemici standard.
E, anche se immaginiamo sia superfluo dirlo, non dimenticate di frugare negli armadi di tutti i cittadini di Erdrea e di rompere ogni vaso e botte che vi capitano a tiro…
Una nuova strada
Con questo undicesimo capitolo, Square Enix ha rivoluzionato il comparto tecnico della sua creatura e, come tutti coloro che lasciano la strada vecchia per la nuova, si è dovuta cimentare con diverse incognite, alle quali il team di sviluppo ha risposto talvolta ottimamente, talaltra in maniera meno convincente.
Il motore di gioco è una versione customizzata dell’Unreal Engine 4, e questo, se da un lato ha causato il ritardo della versione occidentale per Nintendo Switch, dall’altro ha permesso di estendere le mappe di gioco, irrobustire la conta poligonale e migliorare le texture di superficie tanto per i modelli dei personaggi quanto per le ambientazioni.
Dragon Quest XI, alla luce di ciò, può essere considerato a tutti gli effetti un valido esponente dell’attuale generazione di console, e questo, in sé, può già dirsi un traguardo non da poco, perché dopo il lungo iato intercorso dal nono capitolo, rimasto confinato al poco performante hardware di Nintendo DS, la transizione non era poi così scontata.
Il paragone con tutti i capitoli precedenti del franchise, compreso l’ottavo, realizzato con un cel shading magistrale da Level 5, è semplicemente improponibile: il nuovo engine e la potenza dell’attuale console Sony portano l’Erdrea dipinta dagli sviluppatori ad essere il mondo più vasto, dettagliato e credibile dell’intero franchise.
D’altro canto, se si volesse allargare l’analisi anche al di fuori del brand Dragon Quest, i risultati raggiunti si potrebbero etichettare “solo” come buoni, rispetto alla folta concorrenza: i fenomeni di pop up di erba ed elementi dello sfondo sono abbastanza frequenti, le animazioni facciali assai legnose e i modelli degli NPC vengono ripetuti fino allo sfinimento già a partire dal terzo villaggio visitato.
Mettiamola così: i fan di vecchia data godranno dell’episodio più performante e bello da vedere, mentre i neofiti potranno “accontentarsi” dell’ennesima prova sopra le righe di Akira Toriyama, il cui character design sa qui reinventarsi e distaccarsi in maniera sensibile da tutta la produzione a tema Dragon Ball, le cui influenze troppo spesso hanno contaminato altri lavori del maestro giapponese.
Discorso ambivalente anche per quanto concerne il comparto sonoro: se, da un lato, siamo rimasti estasiati dalle solite arie orchestrali di Koichi Sugiyama, qui spalleggiato dalla Tokyo Metropolitan Symphony Orchestra, dall’altro non abbiamo particolarmente apprezzato il doppiaggio inglese, non solo per la scelta di alcune voci e il perdurante anacronistico mutismo del protagonista, ma soprattutto a causa dell’altalenante qualità delle prove recitative e dei fastidiosi problemi di volume e di mixaggio.
Alle impostazioni predefinite, la colonna sonora prevarica ogni cosa, rendendo i dialoghi praticamente impossibili da udire, e, anche modificando le impostazioni nell’apposito menù, si ha sempre l’impressione di non aver trovato il giusto bilanciamento tra voci, effetti sonori e canzoni in sottofondo.
In ogni caso, il consiglio è di mettere le mani sulla versione orchestrale della colonna sonora, perché siamo sicuri che saprà emozionare tanto i più navigati quanto le nuove leve.
Transazione all’Unreal Engine 4 indolore
Meccaniche di gioco intramontabili…
Personaggi indimenticabili
Colonna sonora di grande pregio
Gestione dell’inventario ferma al 1986
…a cui una scossa non farebbe male
Dragon Quest XI – Echi di un’era perduta è un coacervo di meccaniche di gameplay solide come il granito ma anche un tantino stantie, di innovazioni estetiche e rigoroso rispetto di molte tradizioni del franchise, di scelte di game design che sarebbero bollate come “inaccettabili” altrove e qui funzionano più che degnamente.
Nonostante lacune evidenti, su tutte l’anacronistica gestione dell’inventario e lo scarso controllo sulla crescita dei personaggi, l’ultima fatica di Hori-san e del suo team si rivela un JRPG tremendamente solido, capace di non far sfigurare il brand alle soglie della nuova generazione di console.
Con questo episodio Square Enix ha indubbiamente dato un colpo di spugna a livello visivo e tecnico, rendendo l’esperienza più moderna e cinematografica, gettando così le basi per la prosecuzione di una delle saghe più amate della storia dei videogiochi.
Ci saremmo forse aspettati una tale spinta innovatrice anche in certi elementi del gameplay (su tutti la gestione dell’inventario), ma finché ciò che c’è è di questa qualità, dall’offerta ludica alla caratterizzazione dei personaggi, c’è davvero poco di cui lamentarsi.