Assassin’s Creed: cosa aveva di speciale il primo episodio

A quattordici anni dall’uscita ripercorriamo l’originale Assassin’s Creed, capendo quanto e perché l’avventura di Altaïr sia stata straordinaria.

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a cura di Adriano Di Medio

Redattore

Dicevano che era impossibile che un videogioco simile potesse veramente esistere. Che nonostante la potenza di calcolo dell’allora nuova generazione, che non si sarebbero riusciti a fare tre città completamente esplorabili, piene di popolazione virtuale ed elementi di interazione.

Eppure, quando nel 2007 Assassin’s Creed fu pubblicato, fu chiaro a tutti che non si trattava di esagerazioni da marketing. Quattordici anni dopo quel momento siamo tornati da Altaïr e alla sua crociata segreta, per riflettere sulla grandezza e sulla debolezza di un videogioco che è stato, in tutti i sensi, rivoluzionario.

https://www.youtube.com/watch?v=Ju3vihcWMCQ

Assassin’s Creed, ovvero un’ambizione pagata cara

Non c’è molto bisogno di stare qui a rimarcare le origini o la trama di Assassin’s Creed. Nato come “figlioccio” di Prince of Persia, grazie all’intuizione di Patrice Désilets e alla produzione di Jade Raymond, il franchise è cresciuto fino a diventare quello di punta di Ubisoft tutta. E lo ha fatto attraverso qualcosa che, per i tempi, era “estremo” a livello concettuale, ancor prima che tecnico.

Eleggere a protagonista un uomo facente parte di una setta di uccisori (prezzolati o meno) e raccontarne il percorso prima di redenzione e poi di consapevolezza era un ribaltamento che cozzava con i ruoli narrativi “canonici”. Non solo: ambientarlo durante un’epoca controversa come la Terza Crociata rendeva il tutto ancor più pericoloso, viste le ferite morali tra l’occidente cristiano e l’oriente musulmano.

Probabilmente più che nei suoi stessi sequel, la storia di Altaïr e del suo percorso di riabilitazione all’interno della Setta degli Assassini è più che altro una scusante per permettere al giocatore di esplorare il vastissimo contesto medievale di cui il primo Assassin’s Creed si fregiava. Ancora lontano da quelli che sarebbero stati gli splendori di Ezio e dell’epoca rinascimentale, Assassin’s Creed racconta appunto il Credo dell’Assassino senza fronzoli o edulcorazioni.

Lo ha fatto andando oltre l’adolescenziale ribellione di “faccio virtualmente qualcosa che non posso fare per davvero” per spiegare e capire le implicazioni filosofiche dietro una frase semplice e ormai inflazionata come “nulla è reale tutto è lecito”. E lo fa con suggestioni che si muovono dalla realtà come costruzione sociale alla tematica del controllo e della manipolazione. Idee che hanno così assorbito gli sviluppatori tanto da far loro “dimenticare” il fatto di stare lavorando a un videogioco. Un inconveniente pagato caro, visto che ha generato quei problemi strutturali e di game design di cui il brand da decenni cerca (invano) di liberarsi.

C’è del marcio in Terrasanta

Assassin’s Creed, quindi, è un videogioco che vive di paradossi. E dove abbiamo appena parlato di quello concettuale, anche la scelta della Terza Crociata come ambientazione era qualcosa di difficile se non addirittura pericolosa. Lo sceneggiatore Corey May lo approcciò rifiutando completamente qualunque parteggiamento, e attraverso un approccio neutrale mescolò storia e fiction in un modo che davvero poche altre volte si era visto in un videogioco, e soprattutto mai in un prodotto con l’ambizione di essere mainstream.

I nove assassinii che Altaïr deve compiere per recuperare l’onore perduto sono infatti equamente distribuiti tra crociati e musulmani. Questa neutralità di intenti si riflette, incredibilmente, anche nelle musiche: Jesper Kyd infatti sfrutta sia sonorità mediorientali che occidentali, contaminando i cori con l’arabo e il latino e usando una cupa orchestra come collante. Basta aguzzare un po’ l’orecchio per sentire come i canti gregoriani del brano Jerusalem accennino versi del Padre Nostro.

Quello che davvero accomuna i bersagli di Altaïr è il fatto che stanno tutti sfruttando la crociata per foraggiare i propri egoismi. Si passa dal semplice (si fa per dire) trafficante d’armi al governante che affama una città intera, fino a concetti più profondi ed etici. Simbolo di questa voglia è Garniero di Naplusa, tra le prime vittime di Altaïr ad Acri. Il gran maestro degli Ospitalieri sfrutta i poveri e gli ultimi come cavie per i suoi esperimenti, infrangendo i principi del suo ordine perché accecato dall’ideale di un “nuovo mondo” e di un “bene superiore”.

La Terza Crociata di Assassin’s Creed

La morte di Garniero di Naplusa è solo una delle tante “licenze poetiche” che il primo Assassin’s Creed si prende a livello storico. Volendo è anche fare di necessità virtù, in quanto delle Crociate sappiamo solo i grandi eventi. E a parte i “grandi eroi” delle nazioni come Barbarossa, Saladino o Riccardo Cuor di Leone, tutti gli altri hanno destini oscuri o risultano morti in circostanze non chiare. Solo appunto con l’avventura di Ezio si sarebbe andata definendo la regola di non contravvenire (se non in rarissimi casi) allo svolgimento degli eventi storici autentici.

Come conseguenza di questo, anche la componente temporale del primo Assassin’s Creed non è molto chiara. Solo dal susseguirsi degli eventi cui Altaïr assiste possiamo infine dedurre che l’avventura si ambienti nell’estate 1191. Acri è appena stata riconquistata dai crociati, ma sono anche le settimane e i mesi immediatamente precedenti alla battaglia di Arsuf. Lo scontro avrebbe visto contrapposti Riccardo e Saladino e storicamente si è svolto il 7 settembre di quell’anno. Un periodo che scotta anche in funzione di un avvenimento immediatamente recente, di cui si era macchiato proprio Cuor di Leone.

Nella terza crociata (1191) scoppia l’aperta ostilità fra tedeschi e francesi, francesi e italiani, francesi e inglesi, inglesi e austriaci. C’è poi l’inimicizia fra i crociati e i cavalieri franchi «del luogo», che appartengono già più al mondo orientale che all’occidente. Quando le trattative col Saladino vanno per le lunghe, Riccardo Cuor di Leone fa massacrare due o tremila prigionieri musulmani. Nelle viscere dei cadaveri si cerca l’oro nascosto, inghiottito dai prigionieri; i corpi sono bruciati per poter cercare l’oro nelle ceneri. Questa strage di prigionieri suscita orrore e diffidenza insuperabile nel mondo islamico. La terza crociata non riuscì a riconquistare Gerusalemme. Essa costò immensi sacrifici di sangue; le vittime erano valutate a 500.000. Solo un decimo di questa cifra significava una spaventosa emorragia per la cristianità occidentale.

(Friedrich Heer ed. 1971, Il Medioevo 1100-1350, Il Saggiatore, p.139)

Quello che verrà ricordato appunto come Massacro di Acri (curiosamente sfruttato come incipit anche di Dante’s Inferno) è antefatto all’agire di Altaïr, e il gioco stesso non manca di sottolineare la giusta indignazione da parte degli arabi. Gli ostaggi avrebbero dovuto essere rilasciati dai crociati anche in cambio di un frammento della Vera Croce. Questa reliquia era finita in mano a Saladino a seguito della sua clamorosa vittoria nella battaglia di Hattin (1187), simbolicamente ricordata per essere l’inizio del declino dei regni crociati in Terrasanta.

Per il primo Assassin’s Creed tuttavia la politica e la storia “ufficiale” è più uno sfondo che altro: lo stesso evento di Arsuf è presente quasi come atto dovuto, e la figura di Cuor di Leone è presente in maniera assai periferica. Il momento più memorabile è il suo pungente dialogo con Guglielmo del Monferrato, uno dei bersagli di Altaïr, che avviene mentre il re inglese gli lascia la reggenza di Acri per andare incontro a Saladino.

Il giovedì 22 agosto [1191] Riccardo fece uscire da Acri l’esercito crociato. Corrado e molti baroni indigeni erano assenti ed i francesi, agli ordini del duca di Borgogna, seguivano a malincuore nella retroguardia. Nessuno dei soldati desiderava lasciare la città dove avevano vissuto così comodamente nell’ultimo mese, con cibo in abbondanza e donne dissolute per soddisfare le loro voglie; non erano certo molto soddisfatti nell’udire che le uniche donne ammesse a seguire l’esercito erano le lavandaie. Ma la forte personalità di Riccardo li dominava.

(Steven Runciman ed. 1993, Storia delle Crociate, Einaudi Tascabili p. 732)

Nonostante Riccardo sia famoso ed etichettato come uno dei grandi eroi del mondo anglosassone, la storiografia più recente ha decisamente “smontato” il mito di Cuor di Leone. Era sì un grande condottiero e un uomo incredibilmente carismatico, ma era anche una persona sanguigna, sleale e poco incline al mestiere regale.

Ciononostante Ubisoft ha volutamente evitato di insistere troppo sul suo conto, apposta perché sapeva la sua importanza a livello folkloristico anche in Francia. Con un’unica curiosità: nella vocalizzazione originale Riccardo parla con un accento francese, cosa storicamente accurata in quanto, pur se nato in Inghilterra, aveva trascorso la maggior parte della sua vita pre-crociata nella Francia meridionale, precisamente in Aquitania.

Un’altra delle licenze poetiche di Assassin’s Creed la troviamo proprio in tandem con Riccardo: il videogioco rappresenta Guglielmo del Monferrato come un uomo tra i quaranta e i cinquant’anni quando in realtà dovrebbe averne più del doppio. Curiosamente invece i bersagli mediorientali di Altaïr sono invece quasi tutti di finzione, probabilmente per una questione di scarsa rintracciabilità delle fonti musulmane.

Il videogioco è nudo

Finora abbiamo parlato delle dinamiche sia concettuali che storiografiche su cui nasce il primo Assassin’s Creed. Eppure la grande opera prima di Désilets, Raymond e dei loro collaboratori ha un paradosso ben più grande e arcinoto: la ripetitività. Quello che più divise pubblico e critica ai tempi della pubblicazione su console fu appunto il fatto che Assassin’s Creed dava al giocatore un mondo per i tempi vastissimo ma poi lo condannava a ripetere sempre le stesse quattro tipologie di azioni, tra indagini e assassinii. Una cosa innegabile e che ancora adesso è il segno più evidente di quanto l’avventura di Altaïr sia invecchiata.

Ma per quanto vera, il paradosso della ripetitività rimane qualcosa di superficiale. Per capirlo meglio dobbiamo andare oltre, capendo come (se vogliamo pure involontariamente) Assassin’s Creed sfrutti il suo paradosso per metterci davanti a una verità che non vogliamo vedere. Ovvero, ci sbatte in faccia che stiamo giocando a un videogioco. Mette a nudo non solo la propria natura, ma anche quella della persona dall’altra parte dello schermo.

Attraverso la scusante finzionale dell’Animus, il gioco genialmente “parla” delle proprie mancanze, dal game design al comportamento “finto” di un’ambientazione ricreata dal computer e quindi limitata. Una quarta parete evidente, dove in un mondo di predestinati Altaïr è l’unico a non esserlo, e in quanto tale è onnipotente. Un’idea che volendo diventa anti-videogioco, poiché ci rammenta che stiamo vedendo qualcosa di “già successo” oppure mai successo, quindi è come se stessimo implicitamente “perdendo tempo” davanti a uno schermo.

Un’idea di Animus che parla del videogioco come “sogno lucido”, e che rinnega la sua stessa natura attaccando quella che era stata la rivoluzione della precedente generazione, ovvero la cutscene di ispirazione cinematografica. In Assassin’s Creed il filmato non esiste se non interagiamo, e solo tramite la pressione di un tasto il gioco passa a visuali più “canoniche”. Senza questo intervento la simulazione rimane immobile, seguendo un Altaïr non più protagonista ma solo “burattino”. E che quindi potremmo non essere troppo lontani dalle ombre che vedevano i prigionieri della caverna di Platone.

Conclusione: il paradosso da cui nasce la rivoluzione

Eppure, è sbagliato dire che il primo Assassin’s Creed è un videogioco che “distrugge e basta”. Anzi, più precisamente non distrugge: semplicemente riprende i pezzi e cerca di metterli in un modo differente. L’avventura di Altaïr era l’ambizione di voler ripartire “da capo”, di non voler ascendenti e discendenti, un “figlio di nessuno” esattamente come il suo protagonista (il nome completo Altaïr Ibn-La'Ahad significa "Altaïr figlio di nessuno"). L’unico modo per non aver davvero nessun legame era appunto solo quello di creare qualcosa da zero.

Già a partire da un paio d’anni dopo il gioco avrebbe (più o meno forzatamente) dimenticato tutte queste implicazioni filosofiche. Assassin’s Creed II infatti avrebbe ripreso una regia e una resa espressiva più canonica, con lo sviluppatore che creava le avventure per il giocatore. Ma il fatto di averle anche solo accennate, e soprattutto in un momento così remoto, è appunto l’ennesima testimonianza di quanto Assassin’s Creed sia, oggi come allora, uno dei videogiochi più rivoluzionari di sempre.

Tanto che lo stesso Désilets dichiarò, nell’ormai lontano 2012, che il primo Assassin’s Creed è il suo preferito non tanto perché è l’esordio, ma soprattutto perché è il titolo della saga più “puro” in assoluto. Lo è perché, nella sua limitatezza, è quello che maggiormente gioca con l’inferenza del giocatore, che mentre gioca in qualche modo “crea” la propria storia e il proprio agire e lo fa in modo consapevole della finzione che lo circonda. In questo senso il primo Assassin’s Creed è quasi poetico. E la poesia, in quanto tale, non deve mai raccontare tutto: deve sapere quando fermarsi.

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