Hellblade e i suoi fratelli: il videogioco come finestra sull'Io - Speciale
I videogiochi stanno imparando sempre di più a raccontare i conflitti interiori degli esseri umani. Perché sono così efficaci, quando lo fanno?
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a cura di Stefania Sperandio
Editor-in-chief
Informazioni sul prodotto
- Sviluppatore: Ninja Theory
- Produttore: Ninja Theory
- Distributore: Ninja Theory
- Piattaforme: PC , PS4 , XONE , SWITCH
- Generi: Azione
- Data di uscita: 8 agosto 2017 - 11 aprile 2018 (Xbox One) - 11 aprile 2019 (Switch)
«Grazie a questo gioco, ho trovato il linguaggio di cui avevo bisogno per parlare della malattia della mia infanzia. Ho trovato un modo per insegnare la comprensione per le persone che soffrono di psicosi. Nessun altro gioco, libro, film o qualsiasi altra forma d’arte lo ha mai fatto così meravigliosamente bene.»
È solo uno dei tanti commenti dei giocatori che hanno animato uno degli accolade trailer più sinceri (e belli) di sempre: quello di Hellblade: Senua’s Sacrifice. Anziché raccogliere i commenti della stampa nelle recensioni, Ninja Theory decise di mettere insieme quelli dei videogiocatori, che si esprimevano in merito alle tematiche estremamente delicate trattate dal titolo: quelle legate agli angoli più oscuri della mente.
Quando si vive una certa routine, diventa difficile accorciare il proprio sempiterno backlog. Da qualche settimana, però, quella certa routine è saltata in aria un po’ per tutti, motivo per il quale ho approfittato del sano bisogno di un po’ di escapismo extra per recuperare un po’ di videogiochi arretrati. Per pura coincidenza, questi videogiochi sono stati, nell’ordine, Control, Alan Wake ed Hellblade (per il quale la run è in corso, quindi siate generosi e non fate spoiler). In tutti e tre ho trovato un filo comune impossibile da non notare: l’introspezione.
Con il passare del tempo, quel medium che stava appena lallando con i Pong e gli Space Invader ha iniziato a guardare sempre più al racconto, passando efficacemente non solo per conflitti paradigmatici tra forze esterne in contrasto (eserciti con bandiere rivali, super agenti contro terroristi senza scrupoli, invocatrici con guardiani al seguito che lottano contro un male ricorsivo e via dicendo), ma per conflitti interiori che si svolgono nell’Io. E, come ci hanno raccontato gli appassionati che hanno trovato in Hellblade lo specchio di cui avevano bisogno per guardarsi dentro, lo hanno fatto straordinariamente bene. Ma grazie a cosa?
Non ho mai visto una poesia, un libro, una canzone o un gioco capace di rappresentare così bene la salute mentale. Mi riempie di calore sapere che non sono solo. Spero che le persone accanto a me, compreso il mio amore, ora si possano rendere conto di quanto concrete possano essere le tenebre.
—Un giocatore di Hellblade
Introspezione
In Control, i giocatori vestono i panni di Jesse Faden, che fin dal prologo del titolo, al suo arrivo nel misterioso edificio della Oldest House, parla con qualcuno, nella sua mente. Qualcuno che, la nostra protagonista ne è sicura, l’ha condotta lì. Parte del racconto, nel corso del gioco, è affidata proprio al fluire dei pensieri di Jesse, che commenta tra sé quanto ha di fronte e le battute degli altri personaggi, tornando poi ciclicamente a confrontarsi con la misteriosa voce – della quale non diremo altro in questa sede, onde evitare spoiler.
In Alan Wake, l’eponimo protagonista è uno scrittore di best-seller di successo, che vive momenti da incubo quando incappa nell’immancabile blocco e, concedendosi un po’ di tempo per sé con la sua signora, si trova invece intrappolato in un incubo i cui i confini tra orrore inoppugnabile e auto-afflizione gli diventano impossibili da districare.
In Hellblade: Senua’s Sacrifice, i giocatori vestono i panni di Senua, una guerriera partita alle volte dell’inferno norreno per cercare l’anima del suo amato perduto. Nel suo viaggio, però, Senua non è sola: ad accompagnarla, fin dalla primissima sequenza del gioco, sono le voci che albergano nella sua mente, una continua ed estenuante litania di bisbigli che ghignano e ansimano nel fluire dei pensieri – resa magistralmente da Ninja Theory con l’audio binaurale in tre dimensioni.
Sono solo alcuni degli esempi possibili di videogiochi introspettivi, di opere interattive che iniziano a raccontare a partire da dentro, come a ricordare che è da lì, da quel filtro, che si origina la percezione del mondo che è al di fuori. L’analogia che mi sovviene – e perdonerete la mia deriva da aspirante Alan Wake della bassa Sardegna – è quella con i libri in prima persona e quelli in terza: una scelta nell’uso del medium e del punto di vista completamente diversa. Raccontare una storia a partire dal fluire dei pensieri della mente del suo protagonista ha un livello di coinvolgimento che diventa viscerale, di sovrapposizione.
Come ci spiegano il professor Stefano Triberti e il professor Luca Argenton in Psicologia dei videogiochi: come i mondi virtuali influenzano mente e comportamento (Maggioli Editore, 2013), possiamo parlare di tre diverse identità che ci proiettano all’interno di un videogioco: vediamole.
Non soffro di schizofrenia, ma come la maggior parte delle persone combatto contro le mie tenebre. Mi avete mostrato che non sono da solo, che ci sono altre persone che capiscono. Lo sapevo anche prima di questo gioco, ma ora… me lo sento nell’anima.
—Un giocatore di Hellblade
Le identità e la proiezione nel videogioco
Citando James Paul Gee e il suo What video games can teach us about learning and literature (McMillan, 2003), i due studiosi italiani evidenziano che, quando siamo coinvolti in un videogioco, stiamo passando per tre identità. La prima è quella dell’identità reale, ossia la persona che siamo normalmente, seduta davanti al gioco; la seconda è l’identità virtuale, il nostro personaggio controllato all’interno dell’esperienza ludica.
Tra le due, si pone invece l’identità proiettiva: si tratta, citiamo letteralmente, delle «rappresentazioni, dei significati e dei caratteri selezionati che dall’identità reale vengono trasportati in quella fittizia.» Si tratta di un’identità che fa da canale di trasmissione e che sancisce il nostro legame con il personaggio. Per tenerci all’esempio di Hellblade, tra Stefania e Senua galleggia un’identità proiettiva che porta qualcosa di Stefania nell’esperienza di gioco. È grazie a questo tipo di legame che riusciamo a provare emozioni e sensazioni reali, nonostante l’esperienza si stia verificando “solo” in virtuale.
Il videogioco ci consente quindi di proiettare parti di noi nell’esperienza ludica, anche quando i personaggi hanno una loro caratterizzazione definita che no, non soffoca il coinvolgimento dal giocatore – ma anzi lo amplifica. Se molti titoli propongono dei personaggi che sono avatar estensivi dell’identità del giocatore (come in The Elder Scrolls, ma anche in quei giochi dove il protagonista non ha battute, non ha una personalità tangibile, ma è solo il mezzo per portare il punto di vista dell’utente nel mondo di gioco), i protagonisti di queste forti esperienze introspettive sono di solito avatar alter ego del giocatore.
Alan, Senua e i loro fratelli hanno personalità definite, che non minano il coinvolgimento dell’utente, ma anzi amplificano la rappresentazione dei temi presi a oggetto del viaggio narrativo. La proiezione nelle tematiche diventa ancora più forte: le voci nella mente di Senua mi dicono qualcosa di chiaro su di lei. Ma la mente di Senua, adesso, è anche la mia.
Ho avuto un crollo psicotico diversi anni fa. Mio fratello non ha mai capito: l’ho sentito dire che si vergognava di me. Dopo aver giocato questo gioco, è venuto da me e mi ha chiesto scusa. Siete riusciti a far passare un messaggio che io stesso non ero riuscito a far passare.
—Un giocatore di Hellblade
I videogiochi e il flow
Mihály Csíkszentmihályi, psicologo ungherese studioso della creatività (e non solo), ha studiato lungamente quali sono i contesti che ci spingono verso uno stato psicologico ottimale. Prendendo in esame numerosi artisti, lo studioso ha rilevato che molti di questi – nonostante avessero minime possibilità di successo con la loro vocazione creativa – non vedevano mutare la loro dedizione e la loro passione per quelle attività.
Perché? Perché proprio quelle attività, con i loro processi creativi, davano loro un senso di compiutezza, di stimolo, mettendoli in una condizione mentale ottimale, definito fluidità della coscienza (da cui la teoria del flow). Parliamo di flow, in termini estremamente semplificati, quando un individuo sperimenta concentrazione, divertimento e dedizione nei confronti di una particolare attività (Flow: the psychology of optimal experience, Harper & Row, 1990).
Ebbene, anche i videogiochi sono tra le attività capaci di far provare il flow, la fluidità della coscienza, la messa in atto di uno stato mentale ottimale e intraprendente, in cui l’individuo riesce a dare il massimo delle prestazioni mentali possibili senza nemmeno avvertirne il peso, ma anzi sentendosi stimolato e appagato.
Si tratta di un concetto di cui parlammo anche diverso tempo fa, su queste pagine, citando Jane McGonigal, una delle più strenue studiose sostenitrici del fatto che i videogiochi, grazie alle loro sfide, siano in grado di metterci nello stato mentale ideale – nello spazio sicuro del cerchio magico da cui possiamo uscire in qualsiasi momento – per affrontare qualsiasi sfida. E non solo: sono anche in grado di darci una «spinta gentile» che ci restituisce al mondo reale come più fiduciosi in noi stessi, con nuove consapevolezze, anche sul nostro stesso Io e le nostre possibilità.
Ed ecco che il mistero sul perché, questi videogiochi, siano capaci così efficacemente di farci aprire una porta verso l’introspezione, proponendoci esperienze che a tratti ci mettono anche pesantemente a disagio (sì, sto parlando di Hellblade), inizia a diradare qualche nube.
La retorica dei videogiochi
Se, quindi, i videogiocatori danno spazio a un’identità proiettata e scatenano in noi un flusso di coscienza che ci mette nelle condizioni mentali di essere al nostro meglio, la loro efficacia nel far passare messaggi di un certo peso è dovuta anche a quella che Ian Bogost chiama retorica procedurale.
Grazie alla peculiarità dell’interazione, infatti, i videogiochi hanno la possibilità di far passare messaggi che altrimenti ci arriverebbero passivamente addosso: guardare Hellblade e giocare Hellblade non sono la stessa cosa. Citando letteralmente Bogost, parliamo «dell’arte della persuasione attraverso rappresentazioni fondate su regole e sull’interazione, piuttosto che sulla parola proferita, sulla scrittura, sulle immagini o sulle immagini in movimento. […] Voglio suggerire che i videogiochi, contrariamente ad alcune altre forme di persuasione computazionale, hanno poteri persuasivi unici. […] I videogiochi sono artefatti computazionali che hanno valore come artefatti computazionali.»
Non ci sono altri mezzi di comunicazione che abbiano la capacità di esercitare l’arte della persuasione con gli stessi mezzi che utilizza il videogioco.
E, quando il videogioco utilizza questi mezzi per scavare non nei conflitti tra agenti segreti e terroristi, ma tra il delicato equilibrio tra io che controllo la mia mente e la mia mente che controlla me, ecco che torniamo al punto iniziale di questa riflessione: la finestra sull’Io.
Take control
Prenderò in prestito un concetto cardine da Control (ribadendo che non farò alcuno spoiler su nessuno dei giochi citati), perché quanto mai calzante per l’argomentazione: assumere il controllo. Una frase che molti di noi sicuramente si saranno trovati a dire a se stessi, nei momenti peggiori: sono io che ho il controllo, dipende solo da me. Una delle voci che, solo sporadicamente, ronzano anche nella testa di Senua.
Tra i vari torna indietro, non ce la farà, ora cadrà e morirà, non farlo, è pericoloso, è spaventata, certo che è spaventata, di tanto in tanto nella mente della nostra protagonista brillano dei barlumi di timida luce come continua, è quasi fatta. Barlumi arrivati fino a giocatori, a giudicare da quelle testimonianze, che sono in controllo di Senua, a sua volta controllata anche dai suoi conflitti e disperatamente impegnata nel tentativo di liberarsi di tutto questo. Di riprendere, appunto, il controllo.
I videogiochi riescono efficacemente a parlarci di tutto questo perché nessun altro mezzo di comunicazione ci mette nella stessa posizione fisica in cui ci troviamo quando giochiamo. Nessun altro medium può farci ronzare da un orecchio all’altro delle voci mentre guardiamo a un mondo reso ancora più ostile dal filtro dei nostri occhi; nessun altro medium potrebbe riuscire a farci avere un atteggiamento positivo di fronte a un’esperienza lineare e poco attraente nelle fasi in cui ci si divincola tra puzzle e rune. Non mi viene in mente un altro medium dove il confine tra la mia identità e quello del protagonista della vicenda sia fortemente intrecciato come nel caso della proiezione.
E così, mentre il videogioco continua a galleggiare senza soluzione di continuità tra il mezzo di comunicazione per bambini e quello così brutale e sincero da avere uno sterminato pubblico di adulti, le sue scorribande nell’introspezione diventano gemme della narrativa. Testimonianze della raggiunta maturità di un linguaggio che sa prendere l’interazione e farne una parte integrante dello storytelling.
Perché ci proiettiamo. Perché viviamo il flow. Perché la retorica interattiva ha tutta un’altra portata. E quando usi tutto questo per andare a scavare in quello che tutti abbiamo dentro (e lo fai bene), l’impatto può essere di quelli da ricordare. Può essere come i tanti raccontati da quell’accolade trailer in apertura.
Anche perché, diciamocelo pure (e come affermano molti giocatori in quel video), a nessuno piace poi così tanto aprirsi in merito alle proprie vulnerabilità.
Videogiochi che sanno parlare intimamente dell’inenarrabile fatto che, da soli con noi stessi, tutto siamo meno che invincibili, fanno saltare quella porta a cui avevamo dato stupidamente una trentina di mandate di chiave, fingendo di poter ignorare quanto fragili fossero i cardini dall’altro lato.
«I videogiochi ci rendono migliori», dice McGonigal, «ci danno una concezione ottimista delle nostre capacità, ci restituiscono a noi stessi con una rinforzata voglia di fare. […] Le persone che sanno come realizzare i giochi devono cominciare a concentrarsi su come rendere migliore la vita per quante più persone possibili.»
Soffro di ansia. E so che ci sono persone che soffrono molto di peggio. Ma la community della salute mentale è diventata molto più forte, da quando Senua si è unita a noi. Ci avete dato la fiducia che serviva per andare là fuori a combattere la nostra battaglia.
—Un giocatore di Hellblade
Bibiliografia
- Psicologia dei videogiochi: come i mondi virtuali influenzano mente e comportamento, Stefano Triberti, Luca Argenton – 2013, Maggioli Editore
- La Realtà in Gioco, Jane McGonigal – 2011, Apogeo
- Persuasive Games: the expressive power of video games, Ian Bogost – 2007, MIT Press
- Flow, the psychology of optimal experience, Mihály Csíkszentmihályi – 1990, Harper & Row
- What video games can teach us about learning and literature, James Paul Gee – 2003, McMillan
Provate a riguardare quel trailer, adesso, e pensate a quanto i videogiochi capaci di parlare dell’introspezione, di quelle incertezze stigmatizzate da una società che gareggia a chi finge meglio di essere impeccabile, stiano aiutando in questo senso, ci stiano avvicinando a certi temi – prendendosi la giusta libertà, che è dovuta ai racconti complessi che nascono dai viaggi dell’eroe interiori. E, come abbiamo visto, non ci sono altri mezzi che riescano a farlo con un tale livello di proiezione, il che rappresenta una freccia non indifferente all’arco tanto dei narratori, quanto del videogioco.
Gli esseri umani virtuali di cui seguiamo le gesta ci somigliano sempre di più – perché è da esseri umani in carne e ossa, che sono realizzati. Ed è di esseri umani in carne e ossa, soprattutto, che in realtà parlano.