Una devozione inaspettata
Ancor prima del tesoro di Avery, a muovere la storia di Uncharted 4 per almeno tutto il primo terzo è un curioso crocefisso. La caratteristica principe è infatti un dettaglio biblico poco famoso: nella Passione solo Gesù era inchiodato, mentre i suoi due compagni di sventura (il ladrone buono e il ladrone cattivo) erano invece solo legati. Proprio il fatto che la figura sulla croce fosse solo legata è il dettaglio che porta Nate e suo fratello a identificarlo non come Cristo ma come Disma, il ladrone buono. Oltre a nascondere una frecciata sul comune sentire che semplifica ogni crocefisso con Cristo, Uncharted 4 infatti ipotizza che Herny Avery fosse molto legato a questo santo. Si tratta di una devozione di cui storicamente non esistono prove, soprattutto perché Disma non è, almeno ufficialmente, celebrato nella liturgia cattolica, ma solo in quella ortodossa: in quest’ultimo caso viene ricordato ogni 23 marzo. Il motivo per cui Disma è poco conosciuto è il suo comparire solo nei vangeli apocrifi, peraltro in maniera assai defilata.
“Dopo la sentenza [Pilato] aveva dato ordine che la motivazione fosse scritta come un titolo, in lettere greche, latine ed ebraiche, secondo quanto dicevano i Giudei: – È il Re dei Giudei.
Uno dei malfattori appesi si rivolse a lui, dicendo: – Se tu sei il Cristo, salva te stesso e noi!
Ma Disma lo rimproverava, dicendo a sua volta: – Non temi per nulla Dio, tu che ti trovi nel medesimo supplizio? E per noi è giusto, poiché riceviamo la degna ricompensa di ciò che abbiamo fatto; ma costui non ha fatto nulla di male -. E diceva: – O Signore, ricordati di me nel tuo regno!
Gli disse Gesù: – In verità ti dico che tu oggi sarai con me in Paradiso.”
(Vangelo di Nicodemo, Cap. X vv. 7-11)
In Italia comunque Disma è leggermente più conosciuto, ma con il nome di Tito, visto che Fabrizio De André lo elegge a voce narrante della sua ballata Il Testamento di Tito che ne racconta la redenzione spirituale: “Io nel vedere quest’uomo che muore/Madre, io provo dolore/Nella pietà che non cede al rancore/Madre, ho imparato l’amore”.
In ogni caso è probabile che il celeberrimo cantautore abbia preso questo nome da un altro vangelo apocrifo, precisamente il Vangelo dell’Infanzia arabo-siriaco. Qui, nel capitolo XXIII, Gesù e i suoi genitori si imbattono nottetempo in una compagine di briganti che si sta riposando. Due di questi, chiamati Tito e Dumaco, li notano – ma Tito fa desistere il compare dal rapinarli. Gesù assiste alla scena, e dice alla madre che sono proprio i due ladroni che verranno crocifissi insieme a lui in futuro. Nei vangeli canonici invece i due non hanno nome.
In sé comunque Tito/Disma è ricordato appunto come simbolo del ladro redento, e simboleggia in un certo qual modo l’idea che non è mai troppo tardi per pentirsi delle proprie cattive azioni. Non a caso è stato più volte identificato come patrono dei prigionieri, dei becchini, dei condannati a morte e come invocazione di fede per coloro che si occupano del recupero e reinserimento dei criminali nella società. Un’impresa che spesso si rivela non solo improba ma anche con il concreto rischio di insuccesso.
Il paradosso del pirata
C’è infatti un concetto abbastanza importante correlato al ruolo di San Disma: Henry Avery era molto devoto a tale santo proprio per la sua natura di “ladro redento”, che appunto si sposava con il suo considerarsi una sorta di proto-ladro gentiluomo. Un esempio di ciò lo troviamo nuovamente nel suo colpo alla Gunsway, in cui ordinò che non venissero compiute efferatezze nei confronti delle donne, ordine però bellamente ignorato dai suoi uomini.
Racconti e azioni che vestono i panni del bagno di realtà: nonostante tutte le romanticizzazioni, la nobiltà d’animo e gli ideali, tanto il pirata quanto il cacciatore di tesori rimangono figure che non sono in grado di produrre ricchezza, ma solo di vivere arraffando quella altrui. L’unica differenza sta nel fatto che il cacciatore di tesori “ruba” a chi non è più vivo, quindi in linea di massima è più moralmente accettabile. Un concetto per certi versi già esplorato anche in anni precedenti – del resto ne parlava anche Assassin’s Creed IV: Black Flag. In Uncharted 4, però, tutto ciò viene eletto a collante tra passato e presente.
L’analogia tra le due professioni è infatti totale –o quasi. Entrambe viaggiano per ambienti pericolosi o inesplorati come carceri, isole e giungle, ricorrono a ogni mezzo per procurarsi informazioni e hanno a che fare con quelle che molti chiamerebbero le parti peggiori dell’umanità: ladruncoli, banditi, tagliagole, trafficanti, mercenari. Il tutto perché sospinti da un’insaziabile febbre dell’oro, in questo caso incarnata sia dall’antagonista Rafe che da Sam Drake, redivivo fratello di Nate; tuttavia, anche quest’ultimo ne subisce gli effetti, specialmente nel suo rapporto con la moglie Elena.
Tutte tematiche molto più umane, e che si ripercuotono anche a livello di gameplay. Pure se quest’ultimo di fondo non cambia tra enigmi, esplorazione e sparatorie – anzi, aggiunge un’amorevole sensazione di libertà – è palese come lo sentiamo più “pesante”. Uncharted 4 abbandona quasi completamente l’incedere spaccone per concentrarsi sull’essenza meno piacevole dell’avventura, mettendo davanti al giocatore l’ovvietà che in quel mestiere la maggior parte delle volte tutti gli sforzi fatti finiscono con l’essere vani.
Nate realizza che è in debito con la fortuna da quattro cacce al tesoro (cioè i quattro capitoli della saga), e il peggio è che lo è in ogni suo aspetto, dal sopravvivere a continui scontri a fuoco con i mercenari alle arrampicate sospeso sul nulla, fino alla sua stessa situazione sentimentale. Qualsiasi altra donna diversa da Elena sarebbe scappata a gambe levate a fronte del suo comportamento. Eppure, nonostante i suoi difetti, l’ultimo Nate raggiunge la saggezza che prima era stata solo appannaggio di Victor “Sully” Sullivan, imparando finalmente a discernere quando conviene inseguire il tesoro e quando no.
Uncharted 4: Ogni utopia è una perversione
Di fatto Uncharted 4 è composto da due storie parallele, quella di Nate e quella di Avery: per esplicarle i Naughty Dog ricorrono rispettivamente alla narrazione diretta e a quella silenziosa. Dove infatti Nate (e non solo) è il romanzo “cinetico”, in quanto lo controlliamo direttamente, la storia di Avery assume i tratti del romanzo epistolare, o per meglio dire di una rovinosa ambizione. Proprio per la sua devozione a Disma, Avery non aveva tentato di “sopprimere” la sua natura, ma di costruire un contesto in cui appunto fosse condivisa. È proprio in questo senso che egli aveva inseguito il sogno di una colonia libera per ogni pirata, appunto la già citata Libertalia.
Come abbiamo visto, la collocazione di Libertalia proprio in Madagascar da parte di Uncharted 4 è tutto meno che casuale. Oltre a essere base sia per Avery che per Tew, il Madagascar si è ritagliato negli anni la nomea di covo dei pirati.
La descrizione che viene data di Libertalia è praticamente identica a quella che poi Uncharted 4 mostra: i pirati avevano fondato una colonia con le proprie regole e leggi, abbandonandosi poi a un lusso sfrenato, tra harem e schiavi, fino ai cittadini comuni che vivevano sotto la protezione dei fondatori. Ma senza spingerci nelle città fittizie, quella della repubblica piratesca fu qualcosa di realmente esistito: è durata circa undici anni e aveva come capitale Nassau, città delle Bahamas in cui (guarda caso) ai suoi tempi fece tappa lo stesso Avery dopo il saccheggio della Gunsway. La storia di Nassau come repubblica pirata comunque avrebbe avuto la sua triste conclusione nel 1718 per mano di Woodes Rogers, che offrì il perdono a tutti coloro che rinunciarono alla pirateria e impiccò (per opera dell’ex pirata Benjamin Hornigold) chi non accettò o non si arrese.
Tanto la reale Nassau quanto la fittizia Libertalia erano la concretizzazione di un’utopia a lungo inseguita: un luogo dove ogni pirata fosse libero e uguale, ciascuno con il diritto di godersi i propri soldi, fossero tanti o pochi. È infatti noto che, almeno formalmente, i pirati inseguissero un paradossale egualitarismo quando si trattava di decidere dove andare e cosa fare.
Se da un lato questo li portava a essere estranei a qualunque tipo di programmazione, a volte aveva conseguenze notevoli quali la spartizione egalitaria del bottino a ciascun membro dell’equipaggio. Del resto possiamo immaginare che, per quanto illecitamente ottenute, considerassero che fosse meglio spendere le ricchezze per sé piuttosto che lasciarle nelle mani di Stati europei che, in teoria, le avrebbero solo utilizzate per finanziare l’ennesima inutile guerra. Una paradossale nobiltà di intenti, ma che poi appunto finiva con il far emergere come in realtà Avery non fosse per niente redento.
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