Ueda, Remedy, Playdead: Epic Games sta restituendo ai videogiochi (e non è sola) – Speciale
I (veri) grandi del gaming, rimasti per anni ai margini, stanno finalmente investendo nella crescita dell'industria
a cura di Paolo Sirio
Questa settimana, Epic Games ha fatto un altro passo nella manovra di “disruption”, come l’ha più volte definita la compagnia di Fortnite, del mondo del gaming; ha, cioè, annunciato che – dopo essersi inserita con un’aggressività senza precedenti nel microcosmo degli store online di videogiochi – inizierà presto a pubblicare titoli multipiattaforma.
Lo ha fatto scegliendo un approccio simile a quello seguito per il suo negozio, ovvero con un colpo di teatro che desse subito l’idea di quanto faccia sul serio in questa nuova operazione: ha coinvolto nella prima ondata di pubblicazioni tre degli sviluppatori più rinomati nella scena creativa, Remedy (Alan Wake, Control), gen DESIGN (The Last Guardian) e Playdead (Limbo, Inside).
Le conseguenze di questa incursione nella sfera del publishing hanno il potenziale per essere enormi e indurre una scossa, similmente a quanto fatto con Epic Games Store, in un’industria dei videogiochi sì cambiata, e parecchio, dall’affermazione dello sviluppo indipendente, ma ancorata da diverse generazioni a modelli che hanno spesso fagocitato e cambiato il volto dei più piccoli.
Se non altro, è l’esempio di come, da circa un anno, i veri grandi del settore – non quelli più esposti mediaticamente, o almeno non soltanto loro – stiano cominciando a restituire qualcosa di quello che per anni hanno portato a casa rimanendo nominalmente ai margini dell’industria.
Gli studi coinvolti
Quando parliamo di “cambiare il volto dei più piccoli” lo intendiamo seriamente. Pensate a quanti studi, nel corso degli ultimi anni, hanno mutato il proprio orientamento di business per favorire una propensione ai service game; per citare alcuni nomi, Platinum Games ha aperto un ufficio a Tokyo che si occuperà esclusivamente di produzioni online, BioWare ha pressato EA con il pitch di Anthem, Bungie ha fatto di Destiny la sua ragion d’essere, idem Digital Extremes con Warframe, e potremmo continuare a lungo.
Non c’è, naturalmente, alcunché di male nel voler ampliare la propria gittata per rispondere ai gusti e alle inclinazioni del pubblico: i cosiddetti GaaS (Games as a Service) sono un’opportunità ghiottissima a fronte di una spesa iniziale relativamente contenuta, ed è soltanto normale che in quanto azienda queste realtà si muovano nelle direzioni indicate – se non a voce, coi comportamenti all’interno dei giochi stessi – dagli utenti.
Tuttavia, da appassionati con qualche anno di gaming alle spalle, è altrettanto naturale che ci sia una certa amarezza nel vedere software house da sempre all’avanguardia nella produzione di modelli sì, ma creativi e narrativi completamente nuovi darsi invece alla pura ragioneria.
Remedy ha da qualche tempo, complice il brutto colpo di Quantum Break e della separazione con Microsoft, implementato un business ibrido in cui affiancare i single-player tradizionali con iniziative più sperimentali (il team Vanguard) e commissioni a publisher con budget spropositati (Smilegate). Ma è chiaro che, senza il sostegno di un editore, non andrebbe da nessuna parte che non fosse un’area vicina ai service game, come abbiamo già visto per un Control che ha comunque faticato a raggiungere il break even – cosa sulla quale al momento non abbiamo neppure certezza, visto che dati di vendita concreti non ne sono stati condivisi.
Ora che ha chiuso questo epico affare, non a caso, si potrà permettere di realizzare non uno ma ben due giochi next-gen ambientati nello stesso universo; e tutto sembra indicare che, similmente a quanto farà Naughty Dog con un single-player (The Last of Us Part II) e un multiplayer annesso, il primo sia un tripla-A story-driven di quelli di Sam Lake che hanno fatto la storia recente del videogioco e il secondo un multigiocatore da mandare avanti e monetizzare col tempo. Visti i termini dell’accordo di publishing, che approfondiremo a breve, diamo per scontato che una parte di quanto abbia convinto gli scandinavi a stringere la mano di Tim Sweeney sia proprio la prospettiva di ripagarsi il finanziamento con uno – mostrando ai gamer al contempo di essere rimasti sé stessi – e capitalizzare con l’altro.
Se lo studio finlandese ci ha in qualche modo indorato la pillola e preparato per tempo ad una svolta (si spera meno radicale del temuto, ora che si è chiuso l’affare con Epic Games), pensate a cosa ne sarebbe stato della poetica di Fumito Ueda – creatore di Ico, Shadow of the Colossus e The Last Guardian – minata da un modello di business incastrato a forza nel suo prossimo progetto. Che questo non sia successo è una splendida notizia per tutti.
Ueda ha già passato un brutto quarto d’ora nel tentativo di avere i fondi a disposizione per creare soltanto un prototipo da proporre ai publisher (operazione andata in porto grazie ad una “generosa” incubatrice), ed è evidente che – esaurito l’apporto di una Sony che stavolta, scottata evidentemente dalla lunga gestazione dell’avventura di Trico e con il ruolo del suo mecenate Shuhei Yoshida notevolmente ridimensionato, si è smarcata in scioltezza – senza una mano avrebbe finito con lo snaturarsi o, conoscendolo, abbandonare l’industria.
Playdead è probabilmente la realtà che, tra le tre, avrebbe mantenuto ugualmente la propria identità inalterata senza l’intervento dell’etichetta di Fortnite; tuttavia, si è trovata di fronte al dilemma che prima o poi tutti affrontiamo, ovvero se rimanere dove e così com’era oppure provare a fare un salto di qualità che, per quanto abbiamo visto finora, è decisamente nelle sue corde.
Lo studio di Copenaghen ha fatto della sua visione artistica – da confermare adesso che il co-fondatore Dino Patti si è dato ad un’altra avventura – il proprio selling point, indicando la strada per decine e decine di giochi sia indipendenti che pubblicati dai big del settore. Però, lo ha sempre fatto con un manipolo di dipendenti (nell’ordine della decina) a carico e con risorse che prevedevano lunghi cicli di sviluppo con frequenti stop and go: le due cose che possono succedere al team, come testimoniato dalla campagna di assunzioni lanciata istantaneamente, è una crescita esponenziale dell’organico e una riduzione delle tempistiche necessarie alla lavorazione di ciascun gioco, con Inside arrivati all’inammissibile cifra di sei anni.
La questione economica
Si parla chiaramente d’affari e pensare che Epic Games sia mossa da pura magnanimità sarebbe un’ingenuità che, per l’esperienza che abbiamo, non possiamo certo permetterci. Gli accordi sono stati resi pubblici nelle loro minime sfumature di significato, e analizzarle ci aiuta a comprendere come mai siano stati proposti in primo luogo e accettati in secundis.
«Controllo e libertà creativa totali» significa, al di là delle belle parole, che gli sviluppatori manterranno il possesso delle rispettive proprietà intellettuali; qualcosa che stiamo iniziando a sentire sempre più spesso nell’industria del gaming, mano a mano che gli autori prendono coscienza del proprio ruolo e visibilità presso il grande pubblico, ma che è bene sottolineare considerando gli errori del passato recente (si pensi, per rimanere nell’alveo dei nomi citati, all’andirivieni di Alan Wake).
«Progetti completamente sovvenzionati» significa che Epic Games Publishing coprirà non soltanto le spese accessorie come la pubblicazione, il marketing, la localizzazione e il testing, ma anche il 100% dei costi legati allo sviluppo, compresi gli stipendi degli sviluppatori (questo spiega l’ondata di assunzioni che travolgerà le tre label coinvolte sinora).
Fino a questo momento sono tutte rose; ora parleremo di una voce che non comporterà un peggioramento netto della faccenda, ma che ci darà una mano a comprendere cosa ci potrà guadagnare Epic Games al di là dell’operazione simpatia che è una di quelle componenti appresso alle quali il summenzionato Sweeney si sta dannando da qualche tempo: la nuova realtà dovrà prima di tutto recuperare l’interezza di quanto spenderà, dopodiché si passerà ad una suddivisione del 50/50 tra editore e sviluppatore.
Una suddivisione del 50/50 dei profitti prevede una quota piuttosto alta per un publisher, tenendo presenti gli standard attuali nell’industria, ma è anche vero che in questo momento l’industria non si sta muovendo nella direzione di uno standard che preveda il rischio di un finanziamento completo; sono due momenti di unicità dell’accordo, e a metterli su una bilancia virtuale è pacifico che il secondo abbia un peso specifico maggiore del primo.
Da questo processo, i giocatori in quanto giocatori e in quanto consumatori non possono che uscire soddisfatti forse fino alle lacrime di gioia per come stiano andando le cose: tre dei team di sviluppo più amati continueranno a fare esattamente quello per cui sono così amati, senza il pericolo che debbano chiudere i battenti dopo un’operazione andata male (non perderanno niente perché niente investiranno) o snaturarsi per barcamenarsi in questo mondo di ladri.
La situazione si è evoluta al punto che sono già in tanti a chiedersi della sostenibilità di questo modello implementato da Epic Games. Lo scorso anno, Sweeney (CEO della compagnia, per chi non lo conoscesse) ha affermato candidamente che la spesa per le esclusive e i giochi gratuiti di Epic Games Store avrebbero superato le entrate della vendita di software di terze parti in tutto il 2019.
Le esclusive hanno fatto storcere il naso a molti e possiamo comprendere le ragioni dei seguaci di Valve, ma al contempo non possiamo ignorare che gli sviluppatori aderenti hanno incassato denaro fresco per il solo fatto di uscire alcuni mesi prima sullo store di Epic (avendo poi la libertà di cambiare casacca, o meglio indossarne pure un’altra successivamente) oltre ad una percentuale dell’88% sulla vendita – +12% rispetto al concorrente più blasonato.
L’iniziativa dei giochi gratuiti è stata essa stessa messa in dubbio alla fine dello scorso anno, salvo venire poi rinnovata e persino ampliata con un numero maggiore (e probabilmente un lignaggio superiore) di titoli garantiti su base settimanale. Segno che, evidentemente, c’è la volontà di continuare in questa manovra di “disruption” del settore che non ha ancora indotto rivoluzioni ma ha portato, ad esempio, Steam a cambiare anche se soltanto marginalmente le proprie policy – di recente, la quota del 70% concessa agli sviluppatori è stata ampliata per The Witcher 3 dopo che aveva venduto un certo numero di copie in un dato lasso di tempo.
Il dubbio su queste operazioni (oltre che per l’impatto a lungo termine da verificare: Steam ha appena registrato il suo record di utenti, dopo mesi di esclusive di EGS) così dispendiose è che potrebbero non venire portate avanti in eterno, e che l’aggressività nel campo del publishing non faccia altro che lanciare l’etichetta americana in business poco prolifici – e in definitiva non duratura per team di sviluppo che invece potrebbero volerci fare affidamento sul lungo termine – in un momento in cui, al netto delle smentite, la miniera d’oro Fortnite sembra stare iniziando ad incamminarsi sul viale del tramonto. Il possesso delle IP dovrebbe bastare per mettere al riparo i creativi da eventuali disimpegni, che sarebbero comunque poco auspicabili.
I grandi del gaming cominciano a “restituire”
Quello che è certo è che Epic Games Store ed Epic Games Publishing rientrano in una fase storica in cui i grandi dei videogiochi – i veri grandi, non quelli che sono semplicemente sulla bocca degli appassionati tutti i giorni – stanno cominciando a restituire a questo mondo qualcosa di quello che avevano guadagnato a suon di exploit come le microtransazioni e le nuove trovate, un po’ fortuite e un po’ ingegnose, in termini di generi.
È una fase che non sappiamo quanto potrà durare ma che sta cominciando a mostrare quantomeno il suo potenziale, una in cui le realtà che per anni si sono limitate a portare avanti un singolo prodotto e farci soldi sopra ogni legittima aspettativa si stanno impegnando per portare qualcos’altro, metterci qualcosa di proprio nel settore che hanno guardato con una (per certi versi paradossale e forse persino inspiegabile) distanza.
Basti pensare a Tencent e NetEase, conglomerati cinesi delle comunicazioni che dopo aver fatturato miliardi a suon di giochi per mobile hanno avviato operazioni di investimento negli sviluppatori occidentali come Funcom e Ubisoft o Bungie e Quantic Dream, oppure ad un caso magari più eclatante come quello di Riot Games.
La casa di League of Legends ha per le mani il titolo più giocato al mondo e alcune delle microtransazioni che hanno fruttato di più negli anni, ma si è sempre limitata a quello ed è restata nell’ombra persino quando travolta da scandali come quello relativo all’opinabile gestione del personale o nei momenti peggiori della tossicità di una userbase drogata dalla competitività del suo MOBA (oltre che, in certe circostanze, da palesi turbe psichiche).
A The Game Awards è iniziata la sua operazione di invasione del gaming, che prevede anch’essa una restituzione a questo mondo o comunque un maggiore impegno: Legends of Runeterra è un gioco di carte tra i pochi all’apparenza capace di competere con i big (il big) del segmento e Valorant è uno sparatutto che sta impressionando non poco il nostro Valentino Cinefra – avremo altro da raccontarvi presto -, mentre Conv/rgence di Double Stallion e Ruined King di Airship Syndicate sono i primi due progetti di Riot Forge, che immergeranno League of Legends nel mondo del gaming anziché farlo restare un ambito completamente avulso.
Epic Games Publishing è un nuovo passaggio di una roadmap ben pianificata non soltanto dalla casa di Fortnite ma anche da altri facoltosi player, che facoltosi lo sono diventati proprio grazie ai videogiochi. L’aspetto positivo della vicenda è che, al di là del fatto che i creatori rimarranno in possesso delle loro creazioni nate grazie ai rischi assunti da altri e dai loro finanziamenti, gli investimenti di questi giganti stanno rimanendo nel settore, iniettandovi fondi e fiducia che potranno contribuire ad una crescita esponenziale; se questa sarà sana e sostenibile potremo scoprirlo soltanto tra qualche anno, quando i semi sparsi oggi inizieranno a dare i loro frutti.