The Elder Scrolls V: Skyrim: Il mondo oltre lo schermo - Speciale
Otto anni e innumerevoli riedizioni dopo, indaghiamo il mistero di The Elder Scrolls V: Skyrim, ovvero come mai non smette di affascinare.
a cura di Adriano Di Medio
Redattore
Informazioni sul prodotto
- Sviluppatore: Bethesda Softworks
- Produttore: Bethesda
- Distributore: Koch Media
- Piattaforme: PC , PS4 , XONE , SWITCH , PS3 , X360
- Generi: Gioco di Ruolo
- Data di uscita: 11 Novembre 2011 - 28 ottobre 2016 (Special Edition) - 17 novembre 2017 (Switch) - 17 Novembre 2017 PS VR
È stato lanciato in tutto il mondo l’11 novembre 2011, prendendosi di prepotenza la scena videoludica natalizia di quell’anno e sancendo il ritorno del fantasy più “genuino”. The Elder Scrolls V: Skyrim è stato tutto questo e anche di più, e il suo clamoroso successo ha spinto sia gli Elder Scrolls sulla scena del nazionalpopolare videoludico, sia ha dato origine a una quantità di edizioni, conversioni e riedizioni da non essere praticamente mai finito. Otto anni dopo siamo qui per indagare un mistero banale ma irrisolto: come mai Skyrim non ci abbia ancora stufato.
Talos, Cesare e diversi altri jarl sotto
Non siamo qui per parlare di come funziona The Elder Scrolls V: Skyrim. Oltre che ridondante, sarebbe il modo migliore per indispettire ogni appassionato (piccolo e grande) che dal 2011 ancora si immerge nell’opera Bethesda. Molto più interessante notare come sia stato gestito il cambio di contesto e l’avanzamento storico della “trama generale” degli Elder Scrolls. Ci troviamo sempre nell’impero di Tamriel, circa due secoli dopo The Elder Scrolls IV: Oblivion. In contrasto con lo splendore minacciato di Cyrodill (simboleggiato dalla grande Città Imperiale) la situazione dell’Impero non è delle migliori. Tamriel ha infatti perso malamente una guerra con il vicino regno degli Alti Elfi, con il quale ha dovuto firmare lo svantaggioso Concordato Oro Bianco. Una pace dal sapore di resa, in quanto ha costretto Tamriel alla cessione di quasi un’intera provincia (Hammerfell) agli Elfi e la proibizione del culto di Talos.
Ciò ha inevitabilmente causato malcontento in tutta Tamriel, sia per il fatto di aver perso una guerra, sia dal punto di vista morale, in quanto Talos è il nome con cui era stato divinizzato il primo imperatore Tiber Septim. La provincia dove questa proibizione è stata maggiormente sentita è proprio Skyrim, cosa che ha segnato l’inizio di una guerra civile nella regione, con la fazione rivoluzionaria guidata da Ulfric Manto della Tempesta (Stormcloak), figura controversa che ha sconvolto il sistema di autogoverno della regione assassinandone il Re dei Re (eletto dagli jarl).
Chiaramente la situazione politica è solo un punto di partenza, e buona parte dei suoi sviluppi o la fazione che vincerà dipenderà per somma parte dalle azioni del giocatore. Piuttosto è interessante notare come la contrapposizione tra gli abitanti di Skyrim e l’Impero sia una contrapposizione costruita anche a livello di riferimenti culturali. La cultura di Skyrim rimanda con veemenza alla civiltà vichinga, con l’utilizzo di termini autentici: jarl è qui utilizzato nella sua definizione più autentica di “capo militare che controlla un territorio per conto del sovrano”, anche se poi nella realtà venne utilizzato anche per indicare un generico guerriero. L’utilizzo del termine thane ha invece origini scozzesi (è un ufficiale locale equivalente al conte) ma viene alle volte associato anche alla cultura vichinga. Addirittura compare nell’Ivanhoe di Walter Scott e nel Macbeth di Shakespeare.
Il culto di Talos invece ha delle notevoli analogie con Caio Giulio Cesare. Oltre a essere definito postumo come “primo imperatore”, egli stesso sfruttò furbescamente a fini propagandistici l’aura di divinizzazione derivatagli dalle sue conquiste e dal suo carisma. Il suo processo di divinizzazione venne portato all’estremo dopo la sua morte, oltre che ufficializzato con la costruzione del tempio del Divo Giulio, i cui resti sono ancora esistenti presso la via Sacra di Roma. Il luogo dove venne assassinato viene invece identificato come l’odierno Largo Argentina, sempre a Roma. Senza poi dimenticare che Talos nella mitologia greca era un uomo meccanico di bronzo (una sorta di robot ante-litteram) forgiato da Efesto, che gli aveva infuso la vita con un particolare liquido che gli aveva versato tramite un buco su un piede.
Una sensazione inconsapevole
Esattamente come la guerra civile, l’esito delle molte altre storie di The Elder Scrolls V: Skyrim dipende per somma parte dalle azioni del nostro personaggio. È essenzialmente un recupero della meccanica già raffinata nel 2006 con The Elder Scrolls IV: Oblivion, seppure per somma parte ridisegnata per evitare il più possibile le scelte univoche (ovvero quelle che se intraprese ne rendano altre impossibili da avviare nella partita corrente). Ciò che, volendo, traspare da questa scelta è però una sensazione che ancora adesso è un po’ difficile da classificare, ovvero che il mondo di gioco esista solo in funzione del giocatore. Chiaramente a livello tecnico è necessario che sia così, altrimenti l’inserimento del giocatore stesso all’interno di un mondo “aperto” non avrebbe senso alcuno. La bravura degli sviluppatori sta nel dissimulare questa sensazione tramite qualche artificio, che essendo ogni volta unico non può avere una definizione univoca.
Anche perché The Elder Scrolls V: Skyrim ha il suo punto di forza in tutt’altro. Non si può negare che anche per essere il 2011 l’opera di Bethesda era tecnicamente molto basica. Il livello di dettaglio (chiaramente del gioco non moddato) era basso, la vegetazione “artificiale” quando osservata da vicino e gli abitanti quasi tutti uguali specialmente nella corporatura. Quello su cui Skyrim vince ancora oggi è l’estetica e la cura degli ambienti, che sanno di “vissuto” e “comunità” come poche altre volte si è visto nelle ultime generazioni. Il disegno simmetrico dei templi, le pietre intagliate delle città umane costruite su quelle naniche, i tunnel lugubri illuminati dalle torce e la natura impetuosa, fredda e inospitale. Uno splendore tanto e tale che riesce anche a farci fare una risata degli sporadici glitch e bug di cui il gioco (anche nelle conversioni su attuale generazione) non riesce a liberarsi. Tuttora Whiterun e la sua fortezza di Dragonsreach è forse una delle città “fantasy-videoludiche” più fattibili anche da un punto di vista architettonico, se si ipotizza che le tecniche di progettazione e costruzione come riconducibili a quelle dell’Alto Medioevo.
Una costruzione di “eterni domani”
All’inizio non è subito chiaro, presi come si è dall’esplorare ancora una volta The Elder Scrolls V: Skyrim e a scoprirne i luoghi, ritentare questo o quel dungeon oppure a racimolare il denaro necessario a comprare una casa e quindi poterla usare tra le altre cose come “magazzino virtuale” per tutti gli oggetti inutili ma non così tanto da renderne necessario l’abbandono. The Elder Scrolls V: Skyrim è un videogioco che per avere un senso deve continuamente spingere il giocatore verso qualcos’altro, verso un’altra avventura e un nuovo nemico da abbattere. Di qui il sistema delle Radiant Quest, che aggiunge missioni i cui obiettivi e destinazioni sono determinati casualmente dal programma a ogni partita. Skyrim è quindi costantemente orientato a un “eterno domani”, mentre “ieri” viene simboleggiato dagli equipaggiamenti indossati dal giocatore e dalla sua crescita con i livelli e i perk.
Pure se il combattimento è diventato assai più “piantato a terra” rispetto ad Oblivion, ancora adesso è interessante notare come la trovata del linguaggio draconico ancora funzioni. Il combattimento con i draghi e la definizione del protagonista come Dovahkiin (Sangue di Drago) si ricollega alle origini della famiglia imperiale di Tamriel, ma allo stesso tempo impone una lingua artistica appositamente inventata per il gioco, fatta di segni e punti. Oltre a ricordare chiaramente qualcosa di inciso sulla pietra con gli artigli e lo stesso alfabeto runico, il rimando più palese è quello all’antica scrittura cuneiforme assira e mesopotamica. Comunque il “draconico” pare avere una grammatica per somma parte riconducibile a quella inglese, e in tal senso non mancano elenchi più o meno ufficiali (tra cui quello nella guida strategica) che raccolgono tutte le parole in questa lingua fittizia. Parole che nascondono a loro volta qualche riferimento particolare: ad esempio “nord” in draconico si dice “brom”, il che potrebbe essere un tributo all’omonimo mago-guerriero del Ciclo dell’Eredità (composto dai libri Eragon, Eldest, Brisingr e Inheritance) di Christopher Paolini.
Infine Sovngarde, l’equivalente del norreno Valhalla, ha dalla sua il suffisso -gard (anche -gardr, dipende dalla traslitterazione dell’originale -garðr) che in antico norreno significa all’incirca “terra” e designa alcuni regni di Yggdrasil, l’Albero del Mondo (Midgard era il reame umano, Asgard quello degli dèi Aesir). La parola Sovngarde potrebbe essere quindi la sua unione con il termine scandinavo søvn, che significa “dormiente”, quindi “terra dei dormienti” o “terra del riposo”.
Pasta sfoglia alla vichinga
Finora abbiamo parlato solo dei “macro-avvenimenti” che dominano The Elder Scrolls IV: Skyrim, ma non dobbiamo dimenticare che l’esperienza in questo videogioco è per somma parte derivata dal suo esatto contrario, ovvero le piccole cose. Perché la maggior parte del tempo si spende muovendosi per la mappa aperta di Skyrim, che pure se più “piccola” rispetto quanto avevano ai tempi offerto i precedenti Elder Scrolls (chi ha avuto a che fare con Arena e Daggerfall se ne ricorderà) pur avendo un obiettivo definito ci si può sempre imbattere in una quest interessante, in una missione casuale o in qualche animale selvatico. I dungeon prima insormontabili divengono accessibili con l’aumento di livello, l’arrivo del classico “drago casuale” da sconfiggere da minaccia diventa divertissement e poi atmosfera, le abilità crescono a forza di utilizzarle e le quest dei Signori dei Daedra sono foriere di momenti a metà tra il surreale e il goliardico.
Di qui si capisce come The Elder Scrolls V: Skyrim si basi furbescamente sulla costruzione “a strati” dei testi che viene teorizzata in ambito semiotico: ogni testo ha i suoi differenti livelli di lettura, che possono contenere riferimenti ad altri testi oppure messaggi e temi specifici. Con Skyrim questa concezione si applica al videogioco, in quanto esso può essere “letto” (giocato) in molti modi differenti e reciprocamente “incastrabili”. Si può decidere chi essere, come specializzarsi e cosa fare, che sia folleggiare casualmente alla ricerca di easter-egg viventi (sì, il celeberrimo M’aiq il bugiardo esiste) oppure ci si può diventare seri e decidere il destino del mondo o della politica di Skyrim. Oppure si può acquistare una casa, scegliere una tenda come “campo base” e partirvi all’inizio di ogni sessione, per poi tornarvi in maniera abitudinaria prima di chiudere l’applicazione.
Alla fine, il mistero di Skyrim potrebbe essere più semplice di quanto non ci si aspetti. Più che il sistema a gioco di ruolo ormai basico, la modellazione “a stampino” dei personaggi non giocanti e le stranezze (tecniche e non) derivate dall’ambientazione aperta, il motivo per cui dopo (quasi) nove anni ancora affascina è la sua costruzione a strati. Storie grandi e grandissime, piccole e minuscole, casuali e occasionali si sovrappongono e amalgamano con una sapienza e un’armonia che non sente l’età, mentre sullo sfondo si disegna una scenografia ormai “teatrale” ma meravigliosa nella sua ricercatezza. Skyrim è tutto qui, un mondo oltre lo schermo in cui magari non ci si riesce più a perdere come una volta, ma che come un vecchio amico non mancherà di invitarci a casa sua e offrirci da bere.