Storia, videogames e la loro reciproca influenza
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a cura di Marino Puntorieri
Redattore
“Qualsiasi evento storico, per quanto nefasto possa essere, è sempre posto su di una via che porta al positivo, ha sempre un significato costruttivo”. Con queste parole, Sant’Agostino si unisce alla cerchia di pensatori e personaggi più o meno famosi che nel corso del tempo hanno dato il proprio parere sull’importanza della storia e del suo tramandarsi di generazione in generazione. Certo, magari non aiuta a trovare un lavoro, ma apprenderne le nozioni sulle gesta degli uomini del passato insegna molto di più di quanto si voglia credere. “Storia magistra vitae”, ed effettivamente quante volte ci siamo sentiti dire che comprendere il passato permette di avere una maggiore coscienza sul presente per costruire un futuro? Personalmente tante volte, ma mai abbastanza da dare per scontato il messaggio che si vuole far passare.
Anche dai videogames possiamo imparare
Nel tempo si è voluto anche il modo per trasmettere al prossimo le più disparate nozioni riguardanti il corso degli eventi; dalla semplice comunicazione verbale, alla scrittura, fino alla più moderna comunicazione visiva con l’avvento della televisione e di internet: il linguaggio comunicativo si è evoluto sotto ogni punto di vista. Anche i videogiochi, nel contesto appena citato, possono essere rilevanti, ponendosi l’obiettivo di insegnare qualcosa e superare la forma di intrattenimento quale comunque sono e rimarranno. Già nel lontano 2004, passavo interi pomeriggi davanti alla tv con History Channel e le sue incredibili battaglie campali fedelmente riproposte con l’ausilio degli scontri in tempo reale di Rome: Total War; i racconti sulle gesta di Alessandro Magno in Medio Oriente, mostrati attraverso combattimenti in game tra interi eserciti greci e persiani, sono ancora oggi impressi nella mia mente. Durante le fasi di realizzazione di un videogioco gli sviluppatori possono decidere quanto sbilanciarsi per intraprendere questo intricato sentiero; cercare di armonizzare sapientemente la trasposizione di un realismo storicamente accurato (da un lato) senza intaccare la parte più sana ed immediata del divertimento ludico (dall’altro) non è affatto semplice, ed anzi rischia di trascendere da quegli stessi schemi logici che qualificano un buon videogame, andando ad ammassare features che snaturano e diminuiscono il valore della prodotto finito. Ma allora fino a dove può spingersi il realismo per impreziosire una serie videoludica e dove invece deve fermarsi per lasciare spazio alla parte più fantasiosa dell’intrattenimento?
Titolo che giochi, storia che trovi!
La serie di Assassin’s Creed è sempre riuscita a trovare un buon bilanciamento per i suoi titoli, ovviamente sempre pendente verso il videoludo. Soprattutto nei primi capitoli, Ubisoft ha condito un gameplay da open world con una caratterizzazione storicamente accurata di luoghi e personaggi non indifferente, capace di spronare l’utente a scoprire di più su ciò che lo circondava. Già il primo capitolo, uscito nel 2007, era riuscito a farsi apprezzare per le atmosfere evocative e così reali da mettere tutto il resto quasi in secondo piano. Gerusalemme, Damasco, Antiochia erano città maestose, ognuna con i propri luoghi sacri, numerosi cittadini ed araldi sparsi qua e là pronti a sventolare sopra ogni cinta di mura come simbolo dell’occupazione militare in un periodo storicamente delicato come quello della Terza Crociata. Con l’introduzione di Ezio Auditore da Firenze è stato enfatizzato ancora di più questo elemento grazie a luoghi e personaggi dell’Italia del Rinascimento a dir poco affascinanti, talmente suggestivi da far apprezzare questo periodo storico ai fan di tutto il mondo; Piazza della Signoria a Firenze, Monteriggioni, i cunicoli veneti in festa durante il Carnevale, la militarizzata Forlì: una rappresentazione delle location in grado di rendere giustizia all’immenso patrimonio storico-artistico italiano. Senza dimenticare la quantità di informazioni sulle famiglie più influenti del periodo, su tutte quella dei Borgia approfondita in ogni possibile sfaccettatura.
Facendo un excursus al recentissimo passato, Kingdom Come: Deliverance, nonostante uno sviluppo difficile e travagliato, ha puntato a una combinazione ancora inesplorata, ovvero quasi interamente votata alla ricerca storica, non solo grazie alla mole spropositata di informazioni inserite a carattere storico. Un vero e proprio spaccato della società del Tardo Medioevo, risultato di un minuzioso lavoro di documentazione del team di sviluppo concentrato a portare su schermo una rappresentazione il più veritiera possibile dell’instabilità politica della Boemia dei primi anni del 1400. Ciò si è riflesso anche nella valorizzazione di alcuni elementi di gameplay, come nei dialoghi arricchiti con varie ramificazioni e conseguenze a seconda del ceto sociale dell’interlocutore.
Il divertimento è l’unica cosa che conta (?)
Non sempre però si può impreziosire un videogioco con elementi fedeli alla realtà e contestualizzati in un determinato periodo storico, cercare poi di forzarne l’inserimento rischia solo di danneggiare il risultato finale agli occhi del consumatore. Riprendendo il brand di Assassin’s Creed, gli ultimi capitoli hanno svecchiato un gameplay considerato dai più troppo ripetitivo e l’abbraccio al genere RPG, introdotto come nuova linfa in Origins e poi consolidato con Odyssey, è diventato sinonimo di una nuova tendenza in contrasto con la veridicità storica tanto acclamata precedentemente. Non che sia un male, sia l’Egitto del I secolo a.C. sia la Grecia dilaniata dalla Guerra del Peloponneso sono comunque tra le migliori ambientazioni della serie, ma a livello di gameplay effettivo l’influenza più fantasy si è fatta sentire a dismisura tra creature mitologiche, destrieri infuocati ed armi in grado di scatenare attacchi incredibilmente letali anche contro più nemici contemporaneamente. Rimane comunque uno studio, una volontà di ricerca dei riferimenti e dei personaggi che interpretano l’esperienza di gioco, e il legame tra storia e videogioco non muore, ma viene semplicemente reinterpretato.
Persino la serie Battlefield con gli ultimi capitoli ambientati durante le due guerre mondiali è dovuta scendere a dei compromessi per dare ai videogiocatori un comparto multiplayer sempre di prim’ordine e ricco quantitativamente senza intaccarne il divertimento. Così DICE ha inserito mirini che strizzano l’occhio a laser/olografici più moderni per rimpinguare le modifiche possibili per le bocche da fuoco, armi al tempo ancora in fasi sperimentali e veicoli che nonostante i numerosi progetti disponibili in bozze erano lontani dalla reale messa in produzione. Anche l’introduzione dell’ampio ventaglio di elementi personalizzabili per la propria recluta in Battlefield V incentiva alla valorizzazione del sistema di progressione online, rischiando però di far storcere il naso. Niente di esagerato, a tratti evitabile, ma che rappresenta il risultato di alcune incongruenze adottate dagli sviluppatori per realizzare al meglio la propria idea di prodotto ludico per il pubblico, con tutte le considerazioni eventuali del caso.
Al giorno d’oggi il connubio videogames-storia è più forte che mai, una software house può decidere fino a che punto valorizzare la propria offerta con una curata e fedele riproposizione degli eventi solo dopo aver analizzato bene opportunità e rischi di un’eventuale integrazione a livello di meccaniche di gioco. Una regola specifica non c’è, così come gli esempi a riguardo sono molteplici ed estremamente diversificati, ma è inevitabile che storia e compromessi ludici abbiano un loro fascino che gli sviluppatori cercano di esaltare in un prodotto che cerca di attingere da sapiente da entrambi.
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