La stazione di polizia è il simbolo di cosa c'è di sbagliato in Resident Evil 3 – Speciale
Resident Evil 3 non è un brutto gioco ma, nel tentativo di aprirsi a nuovi orizzonti, ha dimenticato dei pezzi per strada
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a cura di Paolo Sirio
Informazioni sul prodotto
- Sviluppatore: Capcom
- Produttore: Capcom
- Distributore: C.T.O.
- Piattaforme: PC , PS4 , XONE , CUBE , DC , PSX
- Generi: Survival Horror
- Data di uscita: 18 febbraio 2000 - 3 aprile 2020 (Remake)
Tutto quello che dovevate sapere su Resident Evil 3 ve lo abbiamo spiegato nella nostra puntuale recensione la scorsa settimana: parliamo di un gioco dai valori produttivi molto alti, forte di una caratterizzazione credibile dei personaggi primari e secondari, così come – fattore tutt’altro che collaterale – di un Nemesis tirato a lucido che per certi versi funge da vero protagonista e motore della storia.
La nuova Jill Valentine è una riproposizione moderna funzionale al racconto e allo svolgimento del gameplay, mentre l’amata (e ovviamente odiata) B.O.W. dell’Umbrella Corporation è stata ripensata per inseguire il giocatore lungo tutto il corso della storia e dare via ad alcune boss fight piuttosto approfondite e divertenti in cui testare non solo diverse delle armi più potenti del gioco ma anche il sapiente utilizzo degli ambienti.
È allo stesso modo un titolo che si presta a molteplici considerazioni, una più interessante dell’altra, e che evidentemente riserva qualcosa di inaspettato per i giocatori che avevano amato la trilogia originale e il remake di Resident Evil 2 lo scorso anno; non a caso, nella recensione gli abbiamo riservato un giudizio numerico inferiore, premiando le qualità di cui sopra ma rimarcando al contempo che sarebbe stato preferibile perseguire la strada già imboccata con successo anziché svilupparne una così differente.
Capcom aveva avvertito che avrebbe preso una strada differente, ma la sensazione era che si sarebbe andati verso una crescita esponenziale del primo Resident Evil 3 e non si sarebbe puntato invece ad un’operazione che fa della sottrazione la sua parola chiave per cambiare il messaggio dell’amato survival horror per PSX.
Un passaggio del gioco in particolare dimostra quale fosse l’obiettivo, condivisibile o meno, nel rifacimento del terzo capitolo della saga, diventando rapidamente il simbolo di cosa ci sia di sbagliato – in rapporto col materiale d’origine ma anche in senso più ampio – nella produzione per PC, PS4 e Xbox One.
Il seguente articolo include leggeri spoiler su un momento della storia di Resident Evil 3. Si consiglia la lettura solo dopo averlo terminato.
Nella stazione di polizia
All’incirca a metà del gioco, Resident Evil 3 ci porta in uno degli scenari più iconici (forse quello più iconico di tutti, a ben vedere) dell’intera saga: la centrale di polizia dell’R.P.D., location e cuore pulsante dell’acclamato secondo capitolo del franchise. Un ritorno teoricamente graditissimo, che però viene consumato in una maniera quantomeno discutibile ed emblematica dell’intento di Capcom con questa produzione.
La sezione della stazione di polizia viene giocata con Carlos Oliveira, membro dell’U.B.C.S. (Umbrella Biohazard Countermeasure Service), in sostituzione della protagonista Jill Valentine impegnata, per così dire, su un altro fronte. Vi ci avviciniamo lentamente, in compagnia di Tyrell Patrick, passando per un cortiletto poco sulla sua destra che viene adoperato come cimitero di fortuna per liberarsi dei corpi dei non morti che hanno invaso la città di Raccoon City.
Nella passeggiata relativamente tranquilla che ci porta alla centrale di polizia si avverte una certa “pesantezza” dell’azione, sia perché abbiamo un incontro con un personaggio secondario storico del franchise, sia perché il ritmo viene, come raramente abbiamo visto in Resident Evil 3, abbassato per rendere l’idea di starsi in effetti approcciando ad un momento importante della storia.
Arriviamo all’ingresso della centrale, e dopo pochi istanti abbiamo la consapevolezza che qualcosa nella sua resa non sia andato come avremmo previsto e auspicato. Carlos è libero di muoversi – grazie, Tyrell – mentre il suo collega esperto di informatica rimane nell’atrio principale, e questo ci permette di girovagare senza particolari e apparenti limitazioni per quegli ambienti.
Nel farlo, scopriamo però alcune scelte “bizzarre”, che rivelano un trattamento che questo posto iconico dell’intero mondo dei videogiochi probabilmente non meritava.
L’enigma sotto la Statua della Dea è stato coperto da un telo, in modo che non potessimo confonderci e pensare che ci fosse un puzzle da risolvere lì come nel secondo episodio; allo stesso modo, le porte speciali sono state sigillate in modo che non potessimo pensare di recuperare le chiavi da qualche parte ed entrarci.
Girando per l’ambientazione, si nota un’atmosfera surreale – vi è mai capitato di girare in una tech demo, vuota di contenuti e progettata per mostrare, in un ambiente asettico o giù di lì, una determinata funzionalità di un gioco o di un motore grafico? Ecco, la sensazione qui è molto simile a quella, e non avremmo mai pensato che l’avremmo provata in un gioco mainline di Resident Evil.
Non c’è una ricompensa nello girovagare per quei pochissimi metri quadrati all’infuori di un pacchetto di munizioni 9mm nascosto al primo piano e uno scambio di battute, banale ma pregno di significato, tra Carlos e Tyrell; guardando una delle porte sigillate, il mercenario si chiede come mai ne facciano di così strane a Raccoon City, e il collega gli risponde sbrigativamente che non c’è tempo da perdere e deve concentrarsi sulla sua missione.
Una scelta di design simbolica
La scelta di fondo è molto controversa: Capcom ha ripreso pari pari la stazione di polizia così come rifatta in Resident Evil 2 e l’ha rimessa senza modifiche strutturali all’interno del nuovo remake, limitandosi a bloccare il 90% dei punti che avrebbero permesso una piena esplorazione della location.
Non è stata posta una barriera, ad esempio, che “spiegasse” da una prospettiva visiva e narrativa come mai non si potesse procedere oltre; si è scelto abbastanza pigramente di non toccare alcunché, né per sottrazione né per addizione, in modo che questo scenario non andasse contro una decisione di design presa a monte – ovvero, Resident Evil 3 sarebbe stato un action in piena regola, e il suo passo sostenuto non avrebbe contemplato pause per la soluzione di enigmi.
De facto, questo rifacimento ha giusto un enigma nella prima parte – quello dell’attivazione della metropolitana, e forse definirlo così, per via della sua immediatezza, è persino un eccesso -, e probabilmente tale parte all’aperto a Raccoon City avrebbe dovuto fungere da segno premonitore di quanto sarebbe successo di lì a poco.
Tuttavia, immaginiamo che vedendo la stazione dell’R.P.D. figurarsi davanti ai propri occhi i giocatori abbiano potuto sperare in un’apertura orizzontale di un titolo (sorprendentemente) relativamente lineare, cosa che non è stata perché sarebbe andata contro il principio stesso della produzione. Un principio che è stato servito anche dalla rimozione dell’ambientazione della torre dell’orologio, come se un solo “omaggio” ai canoni della serie fosse stato ritenuto abbastanza e non ci sarebbe stato bisogno di un altro passaggio simbolico.
Non consentire l’apertura delle porte nella centrale di polizia così come coprire con un velo la statua e gli ingressi dei medaglioni si rivela pertanto una scelta di design estremamente esplicativa di come sia stato portato avanti lo sviluppo di Resident Evil 3 e con quale scopo; una che dice molto di più di quanto non faccia il valore della longevità, salito agli onori della cronaca perché notevolmente basso ma che dice poco di quale sia il problema reale del gioco rispetto alle aspettative, legittime o meno, dei fan.
La tentazione action di Capcom
Ma cosa c’è dietro questa scelta di design, ossia ripulire l’ossatura del Resident Evil 3 originale degli elementi ritenuti non tanto superflui quanto capaci di abbassare un passo che si voleva invece all’altezza degli action blockbuster più testosteronici?
Le considerazioni che possiamo fare dall’esterno sono due. La prima è che Capcom ha impresso una cadenza annuale al suo franchise di punta, e Resident Evil – un gioco che sull’ispirazione delle atmosfere e sulla cura maniacale del particolare ha incentrato il suo successo – probabilmente non è in grado di sostenerla a livello produttivo.
Fare certe cose nell’industria del gaming potrà sembrare facile ma elaborare un plot credibile, personaggi realistici che abbiano alti e bassi, e in definitiva stilare un piano di design che porti in dote funzionalità raffinate e appaganti è qualcosa di complesso, che richiede tempo non soltanto in fase di sviluppo ma (soprattutto) in quella del pensiero.
Una serie che abbia release ogni dodici mesi fa evidentemente fatica a trovare questi spunti, e il fatto stesso di essersi messo in mano a realtà esterne come la M-Two Inc. del veterano Minami – per quanto permetta di portare a termine il lavoro in maniera più che dignitosa – non fa altro che annacquare i punti focali di un franchise. L’espediente dell’aggiunta del multiplayer per evitare una svalutazione troppo rapida del prodotto e dilatarne il ciclo vitale ci è parso solo questo, un espediente, che non pare avere la sostanza per sopravvivere a lungo.
La seconda riflessione è relativa alla più grande tentazione della software house giapponese, ovvero quella rappresentata dal segmento dell’action: Capcom ha provato per anni a sfondare nel mainstream e, al netto di dati di vendita più che soddisfacenti, un survival horror si presta per definizione poco all’obiettivo di raggiungere il grande pubblico.
Sfruttando una tecnologia di livello stellare qual è diventata il RE Engine, l’etichetta asiatica ha pensato che sarebbe bastato, ed evidentemente per certi versi lo fa, spuntare gli elementi che avrebbero abbassato il ritmo della produzione come gli enigmi e un eccessivo backtracking (che si nota soltanto in un paio di aree, tra cui l’ospedale) per abbracciare una nuova e più approcciabile dimensione.
È un tipo di ragionamento dal quale pensavamo di essere stati messi al sicuro, dopo una doppietta facile da digerire con Resident Evil 5 e 6, grazie all’esperimento vincente della transizione in prima persona di Resident Evil 7 e al successo del remake di Resident Evil 2; evidentemente, però, il tema è ancora piuttosto sentito in Capcom, al punto da riversarsi non su un nuovo capitolo ma addirittura su un rifacimento – sotto la cui blasonata egida, forse, il team di sviluppo voleva ripararsi.
Ciò non vuol dire che Resident Evil 3 non sia un buon gioco, tutt’altro: solo che nel tentativo di aprirsi a nuovi orizzonti ha dimenticato dei pezzi per strada, e maltrattato qualcuno di essi che, per quello che ha dato al franchise, non se lo meritava.
Il segmento della stazione di polizia di Resident Evil 3 è emblematico della logica adottata da Capcom nella realizzazione di questo nuovo remake, che prova a fungere da ponte tra la sua dimensione classica e una nuova alla quale lo studio giapponese frequentemente anela; l’aspetto più paradossale è che proprio quando fa il Resident Evil, producendosi nell’amata gestione dell’inventario o nelle safe room, il gioco tira fuori il meglio di sé, e forse è questo più di ogni altra cosa che dovrebbe far riflettere i creatori della saga.