Sogno di un videogioco di mezza estate: ricordi dalle estati videoludiche
C'è sempre, per tutti, quel singolo gioco che richiama l'estate, i ricordi delle vacanze, i momenti di pace della stagione calda: tra feels, memorie e nostalgia, abbiamo deciso di raccontarvi i nostri
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a cura di Redazione SpazioGames
Il fatto che non ci fosse scuola, apriva le porte a frontiere che nel resto dell’anno erano difficili da esplorare: d’estate potevi fare tardi e, soprattutto, avevi tanto tempo libero non solo per andare al mare, in montagna, a spasso con gli amici, anche solo a tirare calci a un pallone. No, d’estate avevi tanto tempo libero per giocare ai videogiochi.
Ci sono dei titoli che sono rimasti marchiati a fuoco nella memoria di ognuno di noi, in un’associazione per cui quello specifico gioco è sinonimo stesso di vacanze estive. Per qualcuno è un titolo che ha scoperto proprio durante la stagione calda, per altri possono essere quelli vissuti in compagnia degli amici con cui si passavano le ferie: tutti hanno il loro gioco dell’estate custodito nei ricordi e la redazione di SpazioGames non fa eccezione.
Dal momento che, in fondo in fondo, siamo tutti come quegli arzilli anziani che ciclicamente esordiscono con «ai miei tempi…», abbiamo deciso di raccontarvi un piccolo ricordo sul gioco dell’estate di ciascuno di noi, sicuri che molti dei nostri lettori si rivedranno in questa ondata di feels e nostalgia e, perché no, magari per aiutarvi a scoprire titoli ai quali non avete ancora messo mano.
La spiaggia di Besaid
Stefania Sperandio – Editor-in-chief
Quando abiti in Sardegna, ci sei nata e cresciuta, di spiagge belle ne hai visto – e tante. In tanti parlano della nostra splendida costa nord-orientale, ma la realtà è che si possono scoprire scorci paradisiaci anche altrove, spesso con una peculiarità: aree di montagna e di mare che si compenetrano, vallate che lambiscono le coste e si abbandonano a distese di sabbia che d’estate diventano abbaglianti. Uno di questi paesaggi estremamente suggestivi rimasti nel mio cuore, però, non appartiene alla mia isola, ma a un’altra: è la spiaggia di Besaid, per quell’estate del 2002 in cui, a tredici anni da compiere, in compagnia di mio fratello maggiore passai parte del mio tempo libero a scoprire le lande di Spira.
Final Fantasy X è, curiosamente, il mio gioco preferito della generazione PlayStation 2 – e i ricordi mi riportano sempre lì, a un pomeriggio di luglio a far galleggiare Tidus nelle acque di Besaid, alle partite di BlitzBall in cui mi alternavo a giocare con mio fratello e arricchivamo le gare con tanto di telecronaca improvvisata, che dall’altra parte ci fossero i fortissimi Al Bhed Psyches o i più teneri Kilika Beasts. Mi riportano al Bosco di Macalania, in una notte torrida, con l’odore del pane che arrivava dal forno vicino già all’opera, a caccia di farfalle, guida strategica ufficiale alla mano – che internet costa, quando hai il 56k.
Ogni volta che ripenso al viaggio (emozionante e bellissimo) di Tidus e Yuna su Spira, quei ricordi sono legati a doppio filo con l’estate, da Zanarkand a… Zanarkand. Ma passando sempre, rigorosamente, per Besaid.
Il pianoforte della Midwich Elementary School
Domenico Musicò – Senior Editor
Difficilmente potrò dimenticare l’estate del 1999, cristallizzata in un ricordo che rimane vivo ancora oggi e che forse col passare del tempo ho quasi mitizzato. Quando ad agosto iniziai a giocare al primo Silent Hill avevo appena quattordici anni e in me si era sedimentata solo un’idea molto vaga di ciò che avrei vissuto, con aspettative senz’altro influenzate dall’altro capolavoro che uscì l’anno precedente e che ha provocato in me “il trauma” di quando nella centrale di polizia, in quel corridoio maledetto, non sapevi mai se sarebbero di nuovo sbucate tra le assi di legno braccia di zombie pronte a ghermirti. Ma Silent Hill era diverso. Era un’angoscia continua, creava un’ansia senza fine; mi teneva costantemente col respiro corto, causandomi qualche deglutizione secca di troppo.
Era l’estate in cui passavano ancora alla radio “What’s my Age Again” dei Blink 182 e i singoli estratti da “Californication” dei Red hot Chili Peppers, che credo di aver consumato a livelli di indecenza assoluta; ma anche il periodo dell’ennesimo Festivalbar e dell’appuntamento fisso con Notte Horror di Italia 1, in cui trasmisero l’inquietante Milo, Halloween VI e Cimitero Vivente. Quando a notte fonda finivano le trasmissioni, in qualche modo avvertivo la malia di Silent Hill e tornavo tra le nebbie, mentre la luce della stanzetta rimaneva rigorosamente accesa tentando di darmi qualche forma di conforto che non riuscivo mai a trovare davvero.
Era il periodo in cui non esistevano gli smartphone, non esisteva YouTube, non c’era nessun aiuto e nessuna soluzione semplice a portata di mano. C’era quel pianoforte al secondo piano della Midwich Elementary School che non riuscivo far suonare come mi indicava il bizzarro enigma di “A Tale of Birds Without a Voice”. E non ci riuscivano nemmeno quelli che all’epoca erano i miei compagni di scuola, bloccati lì e in attesa della prossima rivista di videogiochi, che forse avrebbe pubblicato la soluzione.
Accadde però l’inaspettato: uno di noi ce la fece. Nessuno gli credette, ma quando raccontò con dovizia di particolari di come dopo quell’ostacolo l’atmosfera diventasse ancora più opprimente e malsana, la curiosità divenne talmente spropositata che ci dovemmo fiondare a casa sua sia per verificare la veridicità delle sue parole, sia perché inconsciamente sapevamo che la comunanza avrebbe aiutato a minimizzare gli orrori che avremmo visto di lì a breve. Io rimasi lì solo per un’ora, fremendo già all’idea di ciò che desideravo scoprire in totale solitudine, avvolto nel silenzio del mio antro e godendomi quello che fu di fatto l’inizio di un amore che non è mai più scemato.
Fable e l’evoluzione del protagonista
Paolo Sirio – Senior Editor
Quando mi è stato chiesto di rivangare un ricordo videoludico a tema estate, ho avuto pochi dubbi su quale avrei pescato: Fable. Il primo capitolo della serie era uscito da anni quando quello che sto per raccontarvi è successo: c’era già Xbox 360 in circolazione e al tempo ero solito portarmi dietro l’Xbox originale alla casa al mare sia per recuperare qualche perla e passare del tempo in compagnia di giochi che avevo amato particolarmente, sia per evitare di danneggiare la console nuova fiammante.
Quell’anno, come per un altro paio di anni successivi, trascorsi l’estate con un mio caro amico conosciuto al liceo e che ancora oggi, nonostante ci separino diverse regioni, sento praticamente tutti i giorni. Lui aveva completamente saltato Xbox perché aveva PS2 a casa e così, quando passammo le vacanze estive insieme, gli mostrai alcune delle cose che si era perso; conoscendolo, sapevo che Fable avrebbe fatto colpo all’istante, e così fu.
Il ricordo più divertente, che ancora oggi di tanto in tanto rivanghiamo, è legato alla particolare progressione dell’action RPG di Lionhead Studios, che prevedeva che l’aspetto del protagonista venisse plasmato dalle azioni che gli facevamo compiere.
Quando ero io a giocare, il mio amico restava estasiato a fissare il televisore ma, complici il caldo e le abbuffate a tavola, capitava che si appisolasse e che al risveglio trovasse il personaggio che stavamo sviluppando insieme completamente trasformato dalle decisioni che avevo preso alle sue “spalle”. Vedendo cos’era successo, non appena tornato vigile lui era sempre a metà tra l’indispettito e l’estasiato per quest’evoluzione che avevo portato avanti in sua assenza, con la seconda sensazione che, anche per la curiosità di sapere cosa fosse successo, prendeva sempre il sopravvento.
Questo particolare ci ha sempre divertito un mondo, e ha contribuito a fargli acquistare una Xbox 360 principalmente per giocare Fable II e Fable III, oltre che l’edizione Anniversary del primo capitolo, a distanza di pochi mesi. Ora che Playground Games ha finalmente ufficializzato di essere al lavoro su un nuovo episodio, indovinate a chi ho fatto la prima chiamata per parlargliene?
Nier Automata e la culla della memoria
Gianluca Arena – Senior Editor
Premessa: se la memoria non mi inganna, potrei aver giocato a Chrono Trigger su Super Nintendo nella parte finale dell’estate del 1995, quasi quattordicenne e già perdutamente innamorato dei videogiochi da diversi anni. Considerando che parliamo, a tutt’oggi, di uno dei miei titoli preferiti di sempre (tanto che, nonostante i fondi limitatissimi, mi presi la briga di acquistare di importazione insieme ad un adattatore), l’opera magna di Square avrebbe potuto essere il candidato perfetto per il ruolo di gioco dell’estate.
E invece, a sorpresa, il vincitore è Nier Automata. Per tre motivi, due strettamente personali ed uno oggettivo.
Il primo consiste nel fatto che un redattore da decine di giochi all’anno non può che utilizzare i mesi estivi, generalmente più tranquilli, per recuperare i titoli che non ha avuto tempo di giocare durante i mesi invernali, per non perdersi il meglio che l’industria videoludica ha da offrire. E quell’anno, il 2017, uno dei migliori per il nostro medium, Nier Automata era rimasto schiacciato tra Persona 5 e The Legend of Zelda: Breath of the Wild, entrambi giocati a fondo per le rispettive recensioni, e slittò a fine giugno, quando il calendario delle uscite mi diede un po’ di respiro.
La seconda ragione è insita nel fatto che, a livello strettamente personale, quell’anno, così florido videoludicamente parlando, si rivelò nefasto, e mi portò via non una ma due persone care nel giro di pochi mesi. Questo, in qualche modo, amplificò le percezioni e le emozioni legate a Nier Automata, la cui colonna sonora (poi acquistata separatamente in versione fisica) mi portò le la lacrime agli occhi in almeno un paio di circostanze.
Il terzo motivo, se non l’avete ancora capito, è che il titolo di Yoko Taro è un dannatissimo capolavoro, che merita di essere giocato non una, non due ma addirittura tre volte da tutti coloro che si professano amanti dei videogiochi.
Una cittadina del Maine
Marcello Paolillo – Redattore
L’estate del 1999 rimarrà la più torrida e spaventosa della mia vita. Il perché è facile: la trascorsi in una piccola cittadina statunitense del Maine, alla ricerca della mia figlia adottiva, sparita nel nulla dopo essere finito fuori strada con la mia auto. Senza alcun preavviso, mi ritrovai invischiato in luoghi da incubo avendo a che fare con loschi figuri ancora più inquietanti, come l’agente di polizia Cybil Bennett, la raccapricciante Dahlia Gillespie, il dottor Michael Kaufmann e Lisa Garland, un’infermiera che – ne sono certo – non me l’ha mai raccontata giusta. Senza parlare del culto pagano che mi ha tormentato per tutto il tempo del soggiorno, il cui obiettivo era – davvero – quello di far resuscitare un nuovo dio. Insomma, non proprio il villaggio vacanze ideale.
Silent Hill, poi, mi è parsa tutto fuorché una ridente località da visitare con la propria famiglia, per godersi un po’ di tempo libero: nebbia perenne, presenze inquietanti a ogni angolo di strada e un repentino cambio di clima davvero fastidioso (vi immaginate la neve in pieno agosto? Ebbene, a Silent Hill questo e altro). Pensate, la miglior compagna di viaggio è stata una radiolina in grado di captare la presenza delle oscenità che mi circondavano, da creature senza pelle volanti, passando a varie mostruosità dall’aspetto canino (e c’è chi si lamenta delle zanzare o del caldo, dilettanti).
Capiamoci, da – troppi – anni ormai non torno a Silent Hill per una nuova gita fuori porta, anche fosse un singolo weekend di sano terrore e raccapriccio. Mi dicono che la città sia stata lasciata un po’ allo sbando e che a una certa Konami non importi un granché farla tornare tra le mete più desiderate dai turisti in cerca di orrori ed emozioni forti. Un po’ un peccato, considerando che quella piccola cittadina del Maine troppo male non è (demoni a parte).
Un cabinato, scazzottate virtuali e tante monetine
Antonello Buzzi – Redattore
Abitando in un paese molto vicino al mare sono sempre stato un gran frequentatore delle sale giochi, soprattutto negli anni ’90 (ancora adesso ne sono presenti diverse ma ormai l’interesse è andato scemando nel corso del tempo). Proprio in concomitanza con le vacanze estive, e con tanto tempo libero a disposizione, mi trovavo quindi abbastanza spesso a girovagare per questi ambienti, giocando ed ammirando titoli che non avrei mai potuto far girare, almeno con la stessa fedeltà, a casa.
Potrei nominarne diversi, ma se provo a pensare ad un videogioco in particolare che ha caratterizzato un’intera estate, e che ancora oggi mi trovo a giocare e finire di tanto in tanto, quello è sicuramente Mortal Kombat II, uscito nell’estate dell’ormai lontano 1993. Come ben saprete, in quel periodo il mercato dei picchiaduro 1vs1 era in piena espansione, grazie soprattutto al successo mondiale riscosso da Street Fighter II di Capcom, che ha rivitalizzato il genere dando vita a diversi cloni e proposte alternative.
Il primo Mortal Kombat, distribuito nel 1992, aveva saputo catalizzare l’attenzione del pubblico grazie ai suoi personaggi digitalizzati ed una violenza mai vista prima in un titolo mainstream. In quegli anni, data la mancanza di Internet, non era possibile accedere in modo istantaneo ad informazioni provenienti da tutto il mondo, affidandosi solo alle riviste vendute in edicola. Fu quindi una sorpresa vedere Mortal Kombat II in sala giochi con il suo bellissimo cabinato che riproduceva una plancia scavata nella roccia e con un Raiden piuttosto “elettrizzato” che mostrava il suo potere sulle fiancate del coin-op.
Ovviamente, andai subito a scambiare 5.000 lire in monete da 200 lire (per chi se le ricorda) per gettarmi a capofitto in questa nuova sfida. Il primo impatto fu piuttosto spiazzante, dato che lo stile grafico era un po’ cambiato rispetto all’originale ed erano presenti molti combattenti nuovi. Il primo giorno riuscii con difficoltà a raggiungere, a suon di monete, il maestoso Kintaro, boss semifinale che mi separava dall’incontro con Shao Khan, ma non riuscii a batterlo. Nel corso dei giorni seguenti, tornandoci sia da solo che con i miei amici, nonché confrontandomi con altri avventori della sala giochi e scoprendo diverse mosse ed anche qualche fatality, riuscii a diventare molto bravo, soprattutto usando Baraka, e terminare il picchiaduro senza troppa difficoltà.
Ovviamente, si trattò di un processo graduale durante il quale spesi molte ore – e monetine – sul gioco, caratterizzando in modo indelebile quell’estate, in attesa dei porting per le home console – che arrivarono solo nel 1994. Sicuramente anche moltissimi altri che hanno vissuto quel periodo ricorderanno con affetto Mortal Kombat II, l’impatto che ha avuto nel mondo videoludico e le numerose discussioni con gli amici sui presunti personaggi segreti ed i metodi più o meno veritieri su come sbloccarli.
Per fortuna che c’è Mario Party
Valentino Cinefra – Redattore
Se penso al gioco dell’estate, personalmente, mi viene in mente Super Mario Sunshine. Però è uscito ad ottobre 2002, quindi non vale. Il mio gioco dell’estate, uno dei videogiochi dell’estate, è probabilmente Mario Party per Nintendo 64. Il primo, quello che ha creato un franchise fatto di alti e bassi, che aveva inventato quasi un intero genere videoludico. Successivamente li acquistai quasi tutti per ogni console Nintendo che ho posseduto, ma il primo capitolo è legato ad un momento della mia vita che difficilmente dimenticherò.
Perché nel giugno del 1999 mi ruppi tibia e femore in maniera scomposta cadendo da un’altezza relativamente pericolosa. Una cosa che, a pensarci oggi, mi fa torcere le budella quasi ogni volta dalla paura. Potevo finire veramente male e, invece, me ne sono rimasto fortunatamente solo per qualche mese incastrato in una cosa che si chiama Apparato di Ilizarov che non vi consiglio assolutamente di cercare su Google.
E se al ritorno a scuola, che per me è stato poco dopo settembre visto che facevo fatica ad essere autosufficiente nei movimenti, mi sarei sfondato di Pokémon Blu tra scambi, leggende metropolitane, e tornei sottobanco con il Link Cable, per tutta l’estate incendiai la cartuccia di Mario Party a suon di partite con gli amici che mi venivano a trovare mentre ero quasi immobile in casa. Faccio fatica a rievocare più di due minigame presenti all’interno, ma in generale ricordo il periodo molto intensamente, per motivi più o meno felici.
Imprese calcistiche furtive
Matteo Bussani – Redattore
Mare, sole e cricca di amici: questa è la combo videoludica da critico delle estati scorse. Le passavo nell’appartamento dei nonni a cinquanta metri dalla spiaggia. Il televisore, un piccolo cassone Mivar da 13”, era appannaggio esclusivo del nonno tra telenovele post pasto, Formula 1 (anche se era più la nonna a guardarla) e cartoni animati di soppiatto quando era il momento della pennica prima di tornare in spiaggia. Questo significò estati senza console fissa in casa, ma non sono mai mancate quelle portatili. Su tutte il fedele GameBoy Color che con il tempo si è tramutato in PSP e in NintendoDS. I giochi erano i più disparati: Pokémon, tutti e senza esclusioni, Donkey Kong, Mario Kart, Monster Hunter Freedom – e la lista potrebbe andare avanti e coprire lo spazio riservato ai miei colleghi, perciò mi fermerò qui.
Estate, però, significa anche fare qualcosa di birbante. C’era l’amico della spiaggia (c’è sempre quell’amico) che dalla casa di Roma trasferiva la PS2 con Pro Evolution Soccer, che ogni anno si aggiornava di conseguenza. L’unico problema è che non poteva “ufficialmente” invitare gli altri della compagnia, ma non riusciva a resistere alla tentazione di farlo. A quel punto, mentre i genitori scendevano in spiaggia, con la scusa di qualche giro per i lidi adiacenti, sgattaiolavamo in casa e accendevamo la console. Così le estati passavano, tra giorni a costruire la squadra del lido con moduli e nomi scelti a partire dalle mirabolanti imprese del calcio in spiaggia serale e tornei che finivano immancabilmente con il durare tanto da farci sgamare e non poter più vedere la console per i giorni successivi.
La sorpresa Mewtwo
Francesco Corica – Redattore
Ho tanti ricordi delle mie estati legati a diversi giochi, ma i più piacevoli li ho avuti sicuramente con Super Smash Bros. Melee, il titolo probabilmente più famoso della serie uscito su Nintendo GameCube. Era la prima volta che mi approcciavo a questa serie, sapevo solo che era un multiplayer e me ne serviva uno per convincere mia sorella a giocare insieme a me. Anche se quel tentativo fallì miseramente, il gioco mi piacque talmente tanto che passai tantissime ore in solitaria cercando di sbloccare tutti i segreti.
In una di queste giornate estive ci fu l’occasione di ospitare a casa nostra due buoni amici che frequentavano la mia stessa scuola, ma avendo a disposizione solo due controller mandai mio padre “in missione” alla ricerca di un terzo. Rientrò in casa con un bellissimo controller ufficiale arancione, che ancora oggi funziona perfettamente e che diventò uno dei miei accessori preferiti di sempre.
Risolto il problema dei controller e convinto di aver già sbloccato tutti i personaggi del roster, ci mettiamo a fare diverse scazzottate cambiando continuamente lottatori. Dopo che uno di questi scontri venne vinto da un mio amico, ci fu una enorme sorpresa: il Pokémon leggendario Mewtwo era pronto per essere sfidato e sbloccato. Da grandissimi appassionati dei mostricciatoli tascabili, non riuscivamo a credere che potesse esserci anche lui, in un roster che credevamo già completo e perfetto. Comprensibilmente sotto pressione, il mio amico fallì nell’impresa di buttarlo fuori. Sapevamo però che dopo un’altra partita avremmo avuto un’altra possibilità, così feci di tutto per batterli e poter sbloccare personalmente il Pokémon numero 150.
Col senno di poi, Mewtwo non era proprio il personaggio più forte del roster, ma la cosa non ci importava minimamente e passammo il resto della giornata a picchiarci virtualmente usando solamente lui. Le giornate successive di quell’estate le passai a scoprire cosa altro poteva essermi sfuggito di quel gioco che ai miei giovani occhi sembrava davvero infinito. Ogni estate ripenso sempre a quei giorni e, nonostante la serie si sia andata evolvendo nel tempo, ogni tanto rimetto ancora dentro la console quel vecchio disco e faccio qualche scazzottata contro la CPU, in memoria dei vecchi tempi. Con in mano il mio pad arancione ed utilizzando almeno una volta il buon Mewtwo, naturalmente.
Dragon Quest VIII e l’Italia Campione del Mondo
Adriano Di Medio – Redattore
Pure se tecnicamente non si tratta di un ricordo di infanzia bensì di adolescenza, uno dei videogiochi cui ancora oggi associo di più l’idea di estate è Dragon Quest VIII. Mi venne regalato per il mio quindicesimo compleanno proprio nell’estate del 2006, quando era ancora conosciuto come semplicemente Dragon Quest – L’Odissea del Re Maledetto, e ci misi praticamente due estati per finirlo la prima volta. Dopo la prima adolescenza sui Final Fantasy, ai tempi ero appena reduce dalla totalizzante esperienza di The Elder Scrolls IV: Oblivion e, un po’ impropriamente, Dragon Quest mi pareva una sorta di suo equivalente giapponese.
Più che l’attrattiva (nei fatti scontata) del tratto di Akira Toriyama, ad affascinarmi era la colonna sonora, una magniloquente orchestra che non faceva che amplificarne i panorami. Le grandi pianure verdi e il loro sole perenne si sposavano alla perfezione con l’atmosfera estiva: era davvero la conversione a videogioco di una di quelle grandi epopee fantasy che il Giappone aveva sfornato tra gli anni Ottanta e Novanta. Una serie animata da centinaia di episodi da vedere uno alla volta come appuntamento quotidiano. Un metodo di fruizione della serie tv che, purtroppo o per fortuna, ormai non c’è più.
Chiunque l’abbia giocato si ricorderà bene che il sistema di Dragon Quest VIII era intuitivo ma anche molto severo e per certi versi criptico, e questo per me si tradusse in ripetuti game over e una progressione particolarmente rallentata, tanto che quasi per “disperazione” mi comprai la guida strategica ufficiale. Uno dei ricordi più vividi fu la fretta che ebbi una sera dei primi di luglio del 2006, quando mi costrinsi a salvare i progressi perché non volevo perdermi la finale dei mondiali Italia-Francia che avrebbe consacrato la nazionale nostrana come campione del mondo.
Associai Dragon Quest così tanto all’estate che, quando questa finì, lo misi in pausa a tempo indefinito. Ma proprio per questa sua associazione, l’estate successiva (2007) lo rimisi nella PlayStation 2, caricai il salvataggio e fu tutto come se l’avessi semplicemente spento la sera precedente. Questa volta, attenendomi anche ai consigli della guida, lo finii per la prima volta, arrivando in fondo a quell’avventura dell’Eroe, di Yangus, Jessica e Angelo.
La magia di un cabinato
Giulia Garassino – Redattrice
Un leggero soffio del vento, il rumore delle onde che si infrangono sugli scogli, il sole che fa breccia con i suoi intensi raggi: in una parola, estate. Tutti ne possiedono un ricordo diverso, forse qualcuno meno positivo, eppure per me questa stagione è sinonimo di libertà e allegria. Ogni anno ha lasciato vivo un ricordo splendido e anche una passione immensa – perché l’estate non è stata soltanto sole, mare, spiaggia e partite sulla sabbia, ma è stata anche l’inizio della mia enorme passione per i videogiochi. È iniziata proprio lì, in un oscuro e abbandonato angolo di un negozio di giocattoli: nascosto dietro i materassini gonfiabili, poco distante dalla porta sul retro, si apriva un mondo inaspettato.
Era un caldo pomeriggio d’agosto quando, con la mia combriccola di amici, ci addentrammo per questo luogo cupo e quasi dimenticato. Eravamo spinti da quella grande curiosità che muove i ragazzini alla scoperta del mondo e fu così che, mentre i nostri genitori ci osservavano da lontano, varcammo le soglie della nostra Narnia.
Ad attenderci in quella buia stanza c’era qualcosa di magico: un cabinato. Era lì, nascosto da sguardi indiscreti, eppure pronto a diventare la nostra ossessione. Inserita la prima moneta fu amore a prima vista: la scritta Metal Slug apparve su quel vecchio schermo e i nostri occhi cominciarono a brillare. Le meccaniche sembravano facili, ma niente era scontato: una mossa sbagliata ed era subito game over. Così, moneta dopo moneta, la nostra passione si fece sempre più forte. Tutte le sere, dopo la spiaggia, il mare e le giocate sulla sabbia, ci recavamo lì, per arrivare – una monetina alla volta – all’endgame.
E, da quell’estate, nulla fu più lo stesso: i videogiochi divennero parte di me, un inseparabile pezzo che continua a farne parte da oltre vent’anni.
Wario Land 4 e #miocuggino come pubblico
Pasquale Fusco – Redattore
Tra le diverse console che hanno accompagnato la mia infanzia e la mia giovinezza, il Game Boy Advance di Nintendo è quella a cui ho affibbiato gli episodi migliori. Ricordo ancora i salti di gioia mentre spacchettavo la mia copia di Pokémon Zaffiro il giorno di Natale, così come rimembro le imprecazioni in quel di Metroid: Zero Mission. È un altro, però, il gioco di cui ero follemente innamorato, quel titolo che ho giocato e rigiocato fino alla nausea, un certo Wario Land 4.
“Your time is over, I’ve had enough. Here I come, look out, here I come!“, per me l’estate è la canzoncina di quella strepitosa intro. Per me l’estate è la boss fight con la malvagia Golden Diva, o quella con l’inquietante Cractus. Per me l’estate è una body slam di Wario.
Premetto di essere cresciuto a pane e platform, partendo da quel Super Mario 64 che mi aveva coccolato da pargolo. Wario Land 4 rappresentava però una piccola rivoluzione, almeno ai miei occhi: un gameplay essenziale e tuttavia frenetico, una quantità esagerata di nemici e di livelli dai colori sgargianti, così come una colonna sonora tanto stramba quanto ipnotica – alcuni brani risuonano ancora nella mia testa, a distanza di svariati anni. E quei minigiochi? Semplicemente fuori di testa, e tutt’oggi mi domando come facessero a creare una tale dipendenza.
Credo di aver trascorso almeno due estati in compagnia di Wario Land 4. In una di queste, ricordo di aver portato il mio Game Boy Advance – rigorosamente viola – in spiaggia, per pavoneggiarmi con i miei cuginetti mentre prendevo a ceffoni Condor Cucù per l’ennesima volta. Mentre i miei genitori si concedevano la solita pennichella, io mi concedevo la quarta/quinta/decima run, magari quella giocata al livello di difficoltà S-Hard. Se la memoria non mi inganna, Wario Land 4 dovrebbe essere persino il primo (e forse l’unico) gioco su cui io abbia mai azzardato una speedrun – e gli unici spettatori erano i cuginetti di cui sopra.
Ahimè, da qualche anno la mia estate è fatta di giochi, tripla-A e non, da recuperare approfittando dei pochi giorni di ferie. Eppure rinuncerei al mio intero backlog pur di tornare agli anni del GBA, di Wario Land 4, e di rivivere quel genuino stupore che mi accompagnava tra un livello e l’altro della Piramide d’Oro.
Pokémon Oro e la scoperta di Kanto
Nicolò Bicego – Redattore
Quando penso ai videogiochi e all’estate, sono molti i titoli che mi vengono in mente. Ciascuno mi ha accompagnato in periodi diversi della mia vita: da Super Mario Sunshine fino a Super Mario Galaxy 2, da Gears of War 2 fino a Metal Gear Solid 4; sono molti i giochi che associo a questo periodo. Ciononostante, se dovessi scegliere un titolo esemplificativo, la mia scelta ricadrebbe su Pokémon Oro. L’originale, quello per Game Boy e Game Boy Color. Sì, l’età è quella che è, ormai.
Ad essere sincero, ogni capitolo della serie Pokémon è per me collegabile ad un’estate, ma l’affetto che provo per Pokémon Oro è ineguagliabile. Non solo è stato il mio primo gioco di Pokémon, non solo è stato il mio primo gioco Nintendo in assoluto, ma è stato anche uno dei titoli su cui ho speso più ore di sempre. Fu un regalo che ricevetti insieme alla console sul finire della primavera, dunque mi ritrovai a giocarlo appieno durante l’estate. Ricordo distintamente quando, in un’afosa serata, scoprii che il gioco nascondeva al suo interno una seconda regione interamente esplorabile (Kanto, per me completamente nuova). Internet non era ancora così diffuso, e non sapevo assolutamente niente di questa feature.
Pokémon Oro mi accompagnò anche nelle estati successive, quando continuai a preferirlo comunque a Cristallo e quando, nonostante l’amore per il successivo Zaffiro, continuavo a tornarci per rivivere quell’avventura che, per me, era stata unica. Conservo ancora con estrema cura quella cartuccia, nonostante l’esaurimento della batteria interna abbia cancellato i miei vecchi salvataggi. Un vero peccato perché il gioco conteneva, tra le altre cose, una feature molto particolare; era possibile salvare i dati di un giocatore sfidato in una battaglia link per poterlo affrontare nuovamente a piacimento anche una volta usciti dalla battaglia. I dati che avevo erano quelli di un amico d’infanzia, con cui poi persi i contatti nel corso degli anni. Per molto tempo, però, il gioco conservò questo “fantasma”, come un frammento di quell’ultima estate in cui ci giocai a Pokémon Oro. Fortunatamente, ho ancora un vivido ricordo della regione di Johto e dei suoi abitanti, e mi basta riaccendere il buon vecchio Game Boy Color (ancora vivo, nonostante gli anni) per provare il famoso effetto della madelaine di Proust.
Allenatore duro e puro
Daniele Spelta – Redattore
Immagino le scelte dei miei colleghi: qualche platform sgraziato per la Playstation, una manciata di arcade giocati su un cabinato con uno schermo completamente nero a causa dei riflessi del sole della riviera e per i più attempati un paio di vecchie glorie per Neo-Geo. Me la rido delle loro debolezze! L’estate ha un solo sinonimo: Championship Manager. Scegliete pure voi l’edizione e prolungate pure la tradizione con il suo erede naturale, Football Manager.
Le calde giornate erano interamente dedicate a qualche nuovo acquisto scovato nei campionati bielorussi o bulgari, come l’indimenticato Maxim Tsigalko e la leggenda vivente – lo spero almeno – Anatoli Todorov, a quelle assurde formazioni fatte di alberi di Natale e frecce che si incrociavano come in una rotonda di Città del Messico, oppure a portare alla gloria una sconosciuta squadra militante nella quarta lega inglese, allenata a pinte di birra scura e notti passate nei pub di Southport.
La spinta a dare il massimo e a scappare da tavola con il piatto ancora mezzo pieno erano quelle frasi che apparivano accanto ai salvataggi e alle ore di gioco. Ora sono dei tremendi sensi di colpa, ma un ragazzino che ha davanti a sé interi mesi di nullafacenza non aspetta altro che sentirsi dire “È ora di cambiare la biancheria”, “ I veri giocatori di Football Manager non hanno bisogno di mangiare” o, ancora, “Girati le mutande al contrario! Risparmi un lavaggio”.
Naturalmente questa è la storia è una mezza bugia ed è quella che racconto quando voglio fare bella figura, perché in realtà l’estate veniva passata sull’editor di Championship/Football Manager, una serie di schede dedicate a ciascun giocatore da modificare per seguire giorno dopo giorno il calciomercato: non sorprendetevi se oggi il mio videogioco preferito sia Excel.
Midgar come scuola d’inglese
Silvio Mazzitelli – Redattore
Sono tante le estati legate a ricordi videoludici; ricordo ad esempio con affetto le prime partite online a Diablo e Ultima Online o un’estate passata su un server GDR italiano di Neverwinter Nights. Se però dovessi scegliere la stagione per me più significativa, sarebbe allora senza dubbio l’estate del 1998, quando per la prima volta misi le mani su Final Fantasy VII. Inutile dire che fu un colpo di fulmine, sia per la storia che per i personaggi, un amore che ancora oggi è ben vivo, soprattutto dopo l’uscita del remake.
La settima fantasia finale fu il mio regalo per la sudata promozione a scuola. Ai tempi avevo la fortuna di vivere in una località marittima, dunque per me estate era sinonimo di mare per tre mesi interi, ma con Final Fantasy VII arrivai al punto, per la prima volta in vita mia, di non volerci andare, così da potermi gustare l’avventura insieme a Cloud e al suo gruppo. Non c’è bisogno di specificare la perplessità dei miei genitori, che ovviamente non capivano cosa trovassi in quel “giochino elettronico”.
Final Fantasy VII fu la mia prima esperienza in assoluto con un RPG. Vivendo quell’epica avventura, capii che il videogioco poteva essere qualcosa di molto più profondo e variegato dei titoli più semplici a cui ero abituato, titoli in cui lo scopo principale era soltanto quello di superare un livello dopo l’altro. FFVII fu la svolta che mi fece appassionare profondamente al mondo dei videogiochi; mi insegnò molto con la sua bellissima storia e mi fece vivere le stesse emozioni provate dai suoi personaggi. Fu anche il mio primo insegnante di inglese, che non avevo mai potuto studiare fino a quel momento – e fu anche molto bravo, visti i risultati che ebbi alle superiori!
La scintilla che il capolavoro dell’allora Squaresoft accese dentro di me brucia ancora oggi con passione. Un sentimento che con il passare degli anni non si è mai affievolito, ma che, anzi, è ancora più forte di prima.
Battlefield 3 e allenamenti competitivi
Marino Puntorieri – Redattore
Nella mia ancora breve, seppur intensa, carriera videoludica l’estate che più di tutte è riuscita a lasciare un segno indelebile nel mio spirito di videogiocatore è quella del 2012. Un’estate passata alla scoperta di uno sparatutto che ha cambiato in positivo la mia personale concezione dell’intero genere di riferimento, ovvero Battlefield 3. Dopo mesi passati sull’ultimo titolo di Infinity Ward, quel Call of Duty: Modern Warfare 3 che avevo scelto al day one principalmente per le avventure del Capitano Price, mi sono deciso a scoprire cosa offrisse la concorrenza di casa DICE, ben più focalizzata su tattica e scontri su larga scala.
Passate le prime due settimane a prendere confidenza con le nuove meccaniche online di Battlefield 3, vengo contattato da un clan italiano multipiattaforma semi-competitivo chiamato “Bl4cK” per un periodo di prova e successiva integrazione nella squadra Xbox 360 (console ai tempi posseduta). Da quel momento ho conosciuto alcuni utenti diventati molto più delle semplici spalle videoludiche, una manciata di ragazzi delle più disparate regioni ed età con i quali ho trascorso la maggior parte dei pomeriggi più torridi di quell’estate – tra partite spensierate e veri e propri allenamenti per preparare scontri ufficiali all’insegna dei più pianificati “cattura la bandiera”, dove le ore volavano con facilità inaudita.
Ricordo ancora con un sorriso, quando svariate volte ho dovuto all’ultimo minuto rinunciare a un’uscita con gli amici di sempre in piscina per un allenamento di squadra online a sorpresa, nato da una programmazione piuttosto fumosa dei tornei gestiti nei vari forum a tema. Con il passare degli anni non abbiamo più avuto il tempo di dedicarci con quella costanza alla nostra comune passione, ma nonostante ciò siamo rimasti molto legati e grazie ai social riusciamo tutti a rimanere in contatto per parlare dei videogame a noi tanto cari e non solo; se l’estate del 2012 non è stata rovinata da quella finale di calcio persa contro la Spagna lo devo a Battlefield 3 e quel gruppetto di ragazzi con i quali ho passato fantastici mesi in totale spensieratezza.
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Come avevamo anticipato in apertura, ciascuno dei componenti della nostra redazione ha un suo gioco dell’estate, legato a ricordi indelebili, che possono essere divisi ugualmente tra divertenti, emozionanti o assurdi, che hanno inciso a fuoco quello specifico titolo nella memoria.
Siamo sicuri che anche voi abbiate il vostro videogioco che è sinonimo dell’estate. Vi va di dirci qual è e di raccontarci perché lo è diventato?