Sekiro: Shadows Die Twice | I Diari del Lupo Grigio: Pagina 7
La settima pagina dei Diari del Lupo Grigio, la partita su Sekiro: Shadows Die Twice narrata come se fosse il punto di vista del Lupo. Oggi una serie di esplorazioni e scontri molto intensi.
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a cura di Adriano Di Medio
Redattore
Informazioni sul prodotto
- Sviluppatore: From Software
- Produttore: Activision
- Piattaforme: PC , PS4 , XONE
- Generi: Avventura
- Data di uscita: 22 marzo 2019
Bentornati ai Diari del Lupo Grigio, la partita a Sekiro: Shadows Die Twice narrata come se fosse il Lupo a parlare in prima persona. La puntata precedente è stata di tipo più esplorativo, con la definitiva sconfitta dell’ubriacone alla Tenuta Hirata e l’apparente ultimo colloquio del Lupo con il Gufo, suo padre adottivo. La puntata di oggi è però parecchio intensa, quindi non indugiamo oltre e vediamo cosa ha da raccontarci il nostro ninja preferito.
Giorno 15: Serpente
Il tempo qui pare non scorrere mai, e per somma parte è proprio così. Solo il conteggio che tengo grazie a queste pagine mi sta dando una qualche prospettiva. Un conto distorto dalle molte morti che ho dovuto subire, ma che nei fatti rappresenta l’unico modo che ho di misurare quanto tempo è passato dal mio risveglio al pozzo. Bisbiglio un mantra all’Idolo dello Scultore alla Tenuta e mi sposto a quello che ho trovato dopo l’orco incatenato. Sulle scogliere continuano ad affacciarsi spessi rami, che per quanto un po’ inquietanti nel loro ondeggiare mi reggono perfettamente. Prima vado verso destra, imbattendomi in una torretta con un avviso attaccato. Scritto su carta di riso, mi scoraggia ad andare avanti perché nelle caverne sotto Ashina si nascondono minacce inquietanti. Un avvertimento sensato, e che avrei sicuramente seguito se non avessi avuto l’appoggio dell’Erede Divino. Pertanto proseguo, spiccando anche due salti molto rischiosi ma che spezzo aggrappandomi al momento giusto a un bordo. Mi infilo in una caverna… solo per imbattermi in un inquietante mostro senza testa. È un colosso alto due volte un uomo normale e dalla pelle bluastra.
La sua spada è proporzionalmente lunga: in sé non sarebbe neppure una gran minaccia visto il suo incedere che appare goffo anche solo a un primo sguardo, ma è circondato da una nebbia innaturale che mi compromette i movimenti. Con dei riflessi che neanche io sapevo di avere scatto oltre di lui e mi infilo nella prima rientranza che trovo. Qualche altro colpo di rampino e davanti a me si apre l’ennesimo insediamento montano. Sono giunto però su una scogliera a precipizio, dove intravedo un lungo ponte di massiccio legno. Accanto a me e all’Idolo dello Scultore si trova invece una grande campana di bronzo, del tutto uguale a quella di certi santuari di cui questa terra è piena. Sullo spesso tronco tradizionalmente incaricato di suonarla c’è un altro avvertimento: suonare la campana libererà una “terribile minaccia”, che potrebbe infestare la mia già molto precaria esistenza. Non mi pare veramente il momento di sfidare la sorte, dunque uso l’Idolo e torno indietro. C’è una strada alternativa che si diparte dall’Idolo dello Scultore nascosto sotto il ponte crollato, dopo l’orco. Sfruttando la mia innata resistenza alle cadute scendo uno sperone alla volta, fino a che non comincio a notare degli elementi inquietanti: sulle rocce penzolano come stracci delle gigantesche strisce bianche e squamose. Segni di muta… Ma di qualcosa di così enorme da essere innaturale.
Ho avuto la risposta poco dopo. Le rocce hanno cominciato a tremare come improvvisamente divenute di carta, e dal convoluto insieme delle montagne è sbucato un enorme serpente a sonagli, inquietante e pallido oltre ogni dire. Ho visto questo essere attorcigliarsi incurante della neve e della mia presenza, e per quanto possibile mi sono nascosto nell’erba ingiallita dal freddo. Il momento dopo, il più inquietante: mi sono appiattito lungo il muro, schiacciandomi dietro a delle stalattiti mentre l’essere si muoveva a pochi soffi da me. Il suo sibilo serpentino si confondeva con quello del vento, quasi fosse suo complice. Ma poi la sporgenza è finita, e il rischio è diventato troppo forte: allora ho visto un palanchino in rovina attorno a cui il serpente si era inconsapevolmente acciambellato. Vi sono entrato subito, quasi trattenendo il fiato. Ho cercato di scorgere i movimenti del mostro attraverso la tenda lacera di quel povero veicolo, fino a che non è accaduto l’orrore: il serpente ha cominciato ad avvicinare l’occhio sinistro proprio al palanchino. Quella fessura che ha per pupilla è diventata sempre più grande, sempre più orribile… Finché non ha commesso l’errore di avvicinarsi quel tanto che bastava a risvegliare il mio istinto.
Sono scattato fuori dal palanchino e ho affondato Kusabimaru proprio quel malefico occhio scrutatore. I sibili sono divenuti orribili lamenti e il serpente ha alzato la testa d’istinto, dandomi la possibilità di allontanarmi. Ho corso nella direzione opposta alla ricerca disperata di un appiglio per sfuggire alle movenze inconsulte di un corpo strisciante ormai fuori controllo, eppure proprio con queste ultime sono stato travolto: le scaglie del serpente mi hanno preso in pieno, spezzandomi ogni singolo osso del corpo e riportandomi a un brutale risveglio presso l’Idolo dello Scultore.
Giorno 16: Fortino
C’è un vantaggio che mi rende sensibilmente più forte rispetto al resto di Ashina e a questa situazione critica: ogni volta che muoio il tempo si riavvolge, ma i ricordi delle mie azioni rimangono. Grazie a questo io posso imparare dai miei errori, cosa che le mostruosità che affronto non possono fare. Il serpente gigante continua a cadere sempre nella medesima trappola, e dopo qualche altro tentativo riesco effettivamente a salvarmi dal suo contorcersi. Grazie al rampino riprendo ad arrampicarmi sul fianco della montagna, nei fatti facendo il percorso inverso rispetto a quello che mi ha portato dal serpente. Qui ad Ashina ciascuna cima di montagna ha un proprio avamposto militare. È una cosa strategicamente assennata, del resto conquistare l’altura è una delle basi dell’arte della guerra; quello che non mi torna è che tutti i ponti di collegamento sono stati abbattuti. Che sia colpa del serpente che ho appena evitato, oppure gli abitanti di questo complesso hanno paura di qualcosa?
Nei fatti l’unico modo per spostarsi in mezzo a queste “isole” è il mio, con il rampino. Già cerco di immaginarmi come arrangiarmi con il serpente e raggiungerne l’altro occhio (il destro) che l’arrampicata mi porta a un altro avamposto, così grande da meritarsi il nome di fortino. Sono un paio di giri di mura quadrate che confinano con un grosso mastio: è facile capire che mi sto avvicinando al nucleo del Castello Ashina. I soldati qui dentro sono leggermente più svegli, l’unico a non esserlo è un altro di quegli uomini flaccidi, che brandisce un martello di legno simile a quelli che si usano per pestare il mochi. I colpi di fucile ormai li conosco, ma le movenze di questi grassoni sono ancora illeggibili e spesso mi colpiscono in quanto ritardano il loro colpo dall’alto e sono impossibili da interrompere. Malgrado siano come tutti sensibili a un colpo mortale non sempre riesco a piazzarne qualcuno, e il mio povero corpo fa appunto la fine del mochi.
Quando finalmente sono riuscito a ripulire un po’ la zona mi avventuro nella seconda cinta, approfittando di un buco di nuovo opera di qualche artiglieria gaijin. Ma all’ingresso ho una strana visione: il padroncino Kuro conversa con Genichiro Ashina. L’uomo che ho visto rapire il mio signore gli parla della sua volontà di legarsi al patto immortale, ma l’Erede Divino ancora rifiuta. Quando lo troverò, avrà l’obbligo quantomeno morale di darmi qualche chiarimento.
Giorno 17: Cavaliere
Mi pare palese che da queste parti c’è un buon potenziale per accumulare denaro, tuttavia non ha molto senso farlo per la situazione in cui sono adesso. L’unico mercante che ho incontrato è Anayama, che finché non gli porterò qualche informazione non credo riuscirà a espandersi. Per un po’ mi esercito con i nemici della zona e alla silenziosità, rendendo i colpi mortali più semplici da piazzare. Il ciccione in particolare è piuttosto ebete, e basta che interrompa il contatto visivo o che mi rifugi sulla cima della torretta con un colpo di rampino perché si dimentichi di me in breve tempo. Nel secondo giro di mura la sorveglianza è meno stretta, solo un fuciliere che fa avanti e indietro in una lunga linea retta. Sono subito sotto al mastio, che ha il cancello sbarrato.
Ci sono due grossi alberi ai lati della costruzione: uno è sgombro ma è abbastanza spesso da reggere il mio peso, l’altro è sottile ma ha qualcuno ai suoi piedi. Mi avvicino a quest’ultimo e scopro che è un uomo inginocchiato accanto alla carcassa di un cavallo. È troppo contrito per essere consapevole di ciò che gli accade intorno, quindi ne approfitto per origliare: l’animale era suo, ed è morto spaventato da un forte scoppio. Sembra uno di quei trucchetti utilizzati dai cinesi per quelli che gli occidentali chiamano “fuochi artificiali”. Forse tale marchingegno è ancora da qualche parte qua intorno.
Il soldato pare troppo provato dal lutto per costituire minaccia, quindi lo lascio a piangere il suo animale. Salgo sull’altro albero e poi sulle mura, ma poi uno spettacolo inaspettato si apre ai miei occhi: sotto di me c’è il grande cortile con il cancello che conduce al tengu. Il posto è completamente ricoperto di cadaveri, armi rotte e sashimono strappati, che ondeggiano macchiati contro il vento freddo di questa montagna. È spontaneo pensare che la “terribile battaglia” che ho visto più volte rievocare dai soldati Ashina si sia combattuta proprio qui. E come al solito, non c’è molta alternativa e devo attraversarlo a mia volta: mi lascio cadere nel cortile, quando una voce tuona: “Il mio nome è Masataka Oniwa Gyoubu! Finchè avrò vita non passerai le porte del castello!” Dal cancello opposto arriva al galoppo un samurai armato di una gigantesca lancia. Avevo origliato qualche informazione nei giorni precedenti: tra i suoi uomini è che noto come “Gyoubu il Demone”. Il suo tozzo e massiccio cavallo da guerra è coperto di piastre metalliche e lui stesso è pauroso nella sua armatura coperta di pelliccia. Al grido di “Onikage alla carica!” parte velocissimo e solo il mio essere molto lontano mi permette di schivarlo. Il problema è che l’affinità col suo destriero è tale che è come se il cavaliere fosse la testa e il cavallo le gambe. Si muove sul posto tagliando l’aria con la sua terribile arma e mi colpisce, arretra velocissimo per poi ripartire di nuovo alla carica. Riprendo a schivare ma purtroppo non basta, e il Demone Gyoubu mi vince più di una volta.
Eppure comprendo che c’è qualcosa di differente stavolta. Il combattimento avviene sempre con intorno il solito bancone di nebbia, eppure questo cavaliere non ha espresso né disprezzo né sufficienza nei miei confronti. Si è rivolto in maniera onesta ed esplicita, annunciandosi come in un duello: vuole un combattimento leale e se lo merita. Dopo pochi altri tentativi capisco che la chiave non è schivare, ma parare: Gyoubu consuma la maggior parte delle sue energie nella carica, quindi i colpi che assesta dopo di questa non sono abbastanza potenti da spezzarmi la postura. Se riesco a mantenermi abbastanza vicino a lui da obbligarlo a girare continuamente sul posto, non avrà il tempo materiale di arretrare e ripartire. La strategia funziona, e mi permette dopo alcuni assordanti cozzi di lama di assestare il primo colpo letale. Non è sufficiente a ridurlo al silenzio, ma me l’aspettavo: dopo di questo si svincola dal suo concentrarsi su di me e riesce a inscenare un’altra carica. E malgrado sia diventato più dannoso, le sue estese spazzate lo lasciano costantemente scoperto sul fianco sinistro. Ancora una volta diviene una guerra d’attrito, in quanto il suo essere in arcione gli dona una postura fin troppo difficile da spezzare. Ho finito le resurrezioni, sono a un passo dalla morte ma schivo altre due spazzate per poi vederlo penzolare dalla sella. E ancora una volta, un altro istinto si risveglia in me: mi arrampico letteralmente sulla testa del cavallo e gli assesto il secondo colpo mortale alla nuca. Lo prendo poi per la pelliccia e sfruttando il suo stesso peso lo disarciono sulla neve: Kusabimaru incontra la sua gola per ben due volte. Le ultime parole del Demone a cavallo sono un’invocazione di perdono a Genichiro, mentre l’istinto spezza il mio usuale silenzio di combattimento per un’inattesa esultanza: Esecuzione Shinobi.
In questa intensa puntata dei Diari del Lupo Grigio abbiamo visto il nostro ninja preferito sfuggire sia al terribile serpente sia affrontare uno dei combattimenti più iconici (nonché accennati anche in campagna pubblicitaria) di tutto Sekiro: Shadows Die Twice. Il cavaliere Gyoubu è infatti un nemico decisamente memorabile, oltre che foriero di qualche altro accenno culturale. Il cavaliere ha tra i suoi titoli una ricorrenza della parola oni, che nel folklore giapponese indica molte entità sia benigne che maligne. Una delle possibili traduzioni di oni è appunto “demone” o “spirito”, ed è nei fatti quella adottata dalla localizzazione italiana. Gyoubu chiama il proprio destriero onikage, che di nuovo tradotto alla buona significa “vento demoniaco” a simboleggiare sia la velocità che la natura spiritica dell’animale, il quale sparisce nel nulla alla morte del suo padrone. Infine Gyoubu stesso continua con le allusioni storiche: il condottiero Takeda Shingen (che dicevamo nella puntata precedente aver storicamente assoggettato il clan Ashina) è rimasto famoso per aver sempre portato sull’armatura un colletto di pelliccia bianco, esattamente come quello di Gyoubu. Ma passate le notizie storiche, rimanete con noi per la prossima puntata!
Voto Recensione di Sekiro: Shadows Die Twice - Recensione
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