Quando le demo ci facevano scoprire i videogiochi - Speciale
Un tempo, le demo erano il modo principale di scoprire nuovi videogiochi – in un mondo non iperconnesso in cui sicuramente non potevamo scaricarle. Eppure, in un eterno-ritorno videoludico, nel 2020, sono ancora qui, più presenti che mai.
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a cura di Stefania Sperandio
Editor-in-chief
Informazioni sul prodotto
- Sviluppatore: Capcom
- Produttore: Capcom
- Distributore: C.T.O.
- Piattaforme: PC , PS4 , XONE , CUBE , DC , PSX
- Generi: Survival Horror
- Data di uscita: 18 febbraio 2000 - 3 aprile 2020 (Remake)
«In queste settimane ho provato le demo di Final Fantasy VII e di Resident Evil 3. Sai cosa ti dico? Mi aspetto grandi cose.»
Sembra una frase che avremmo potuto dire sul finire degli anni Novanta, invece è perfettamente calzante nel 2020: lo è perché Final Fantasy VII sta tornando con un remake, lo è perché Resident Evil 3 sta tornando con un remake, lo è perché entrambi questi grandi classici alla loro nuova giovinezza sono stati anticipati da un assaggio chiamato demo. E le demo ce le ricordiamo tutti: erano quel piccolo antipasto videoludico che ci veniva concesso, con un piccolo morso che doveva lasciarti addosso la voglia di darne un altro, e così di comprarti l’opera completa.
Una via di marketing che, con i suoi alti e bassi, ha trovato modo di affermarsi anche nell’epoca del digital delivery, a volte reinventandosi come “inizio del gioco che puoi portare con te nella versione finale”, a volte travestendosi da teaser, altre ancora, semplicemente, con i vecchi intenti: voglio che questo gioco ti piaccia e te lo compri, ecco perché ti faccio provare questa piccola, piccola sequenza.
Sì, bella la rivista, ma il disco demo c’è?
Sappiamo che sono tanti, davvero tanti, i millennials che ci leggono. Noi nati dagli anni Ottanta in poi, cosa siano le demo ce lo ricordiamo bene. Se lo ricorda soprattutto la generazione cresciuta nell’epoca della prima PlayStation, che in Europa venne accompagnata, nel suo debutto, dall’oggi mitologica Demo One, che includeva i primi bocconi di videogiochi più diventati iconici della piattaforma.
Fu proprio attraverso la Demo One, ad esempio, che molti di noi scoprirono Spyro The Dragon, che potemmo vedere per la prima volta le viuzze del Toad Village di Crash Bandicoot 3: Warped, fu nella Demo One che fuggimmo dall’Area 51 in Tomb Raider III e anche che iniziammo a darle di santa ragione ai maiali in Tombi! e a Eddy (o Xiaoyu, fate voi) in Tekken 3. Un disco che fu un concentrato di futuri system-seller della prima macchina da gioco targata Sony, che aprì un’epoca in cui le demo si intrecciarono a doppio filo all’esperienza di una generazione di videogiocatori.
Certo, le demo esistevano già da prima, anche e soprattutto nel panorama PC – ma non solo. Nel mondo degli anni Novanta la comunicazione era ben diversa da quella quasi ipertrofica dei giorni nostri, quindi consentire ai giocatori di mettere anzitempo le mani sul tuo progetto, facendo possibilmente breccia, era un ottimo modo di fare marketing, di avvicinare il pubblico alla tua opera e possibilmente scalare posizioni nella sua lista desideri.
Ecco perché tutti ci ricordiamo, nessuno escluso, le riviste cartacee dedicate ai videogiochi negli anni Novanta. E, probabilmente, anche nei primi anni Duemila, anche se il fenomeno andò attenuandosi tra le generazioni di PlayStation 2 e di PlayStation 3. I magazine ufficiali delle console dell’epoca, infatti, venivano spesso accompagnati da un disco demo, all’interno del quale era possibile trovare nuove versioni dimostrative di giochi in arrivo (o a volte già disponibili), fianco a fianco con alcuni trailer – che facevano da demo non interattive. Si provavano così i MediEvil e i Metal Gear Solid, i Syphon Filter e gli Urban Chaos, i Cool Boarders 3 e i Point Blank 2.
Intendiamoci, la rivista la si leggeva lo stesso: quando perfino i 56k erano ancora tutti da conquistare, le pagine firmate dagli illustri colleghi del cartaceo erano l’unica via per conoscere le novità imminenti del videogioco, per confrontarsi con immagini e idee che arrivavano da creativi da tutto il mondo – che fossero quelli che in Giappone si preparavano a svelarci la guerra dei SeeD alla strega o quelli che negli Stati Uniti stavano per consegnare alle leggende un peramele arancione pronto alle avventure con sua sorella Coco. La magia, però, era tutta nella demo – che rendeva immagini in movimento quegli screenshot su carta, che rendeva improvvisamente concreti i videogiochi di cui avevamo letto.
14.900 lire, che era spesso il costo della rivista e del disco demo, sembravano allora un prezzo tutto sommato onesto da scalare dalla nostra paghetta di giovanissimi, per andare alla scoperta di nuovi videogiochi di cui innamorarsi.
La demo come inizio e la demo come cavallo di Troia
Pur non riscuotendo la stessa popolarità con le generazioni a venire (ditemi che non ero l’unica che, a scuola, assisteva e partecipava a veri e propri scambi di dischi demo con i compagni, ndr), le demo continuano a ritagliarsi un loro importante spazio all’interno dell’industria dei videogiochi – oggi, grazie al supporto della banda larga, che consente, se gli sviluppatori lo hanno previsto, di lanciarsi a capofitto in un primo scorcio di esperienza ludica.
Certo, i modelli di assaggio sono cambiati e in alcuni casi sono diventati collaborativi, finanche a pagamento: ci basti pensare ai titoli in accesso anticipato, in cui si può cominciare a giocare a una versione del prodotto non finale e aiutare gli sviluppatori a capire cosa ci sia da sistemare e cosa no.
E, in tutto questo, permangono le demo. Demo che sono diventate, in alcuni casi, sia primo passo che un vero e proprio cavallo di Troia per svelarti qualcos’altro.
Partiamo dal primo esempio: c’è una regola non scritta (che aziende come Apple hanno elevato a loro religione) che ci dice che se il consumatore ha un prodotto già per le mani e ne rimane bene impressionato, sarà molto più difficilmente disposto a lasciarselo sfuggire. Per farla breve, mettere un iPad nelle mani del consumatore lo rende molto più ben disposto a tenerlo con sé e comprarselo, che mostrarglielo freddamente dietro una teca. Lo stesso succede con le demo di alcuni videogiochi. Provate a pensare all’eccellente Dragon Quest XI: il JRPG di Square Enix è stato anticipato da una titanica demo, comodamente disponibile dopo l’uscita sul mercato, che consente di iniziare la propria avventura e di andare parecchio avanti nel proprio viaggio. Si comincia così a grindare, ad affezionarsi ai personaggi, al mondo in cui si muovono, ai sistemi di gioco, anche per una decina di ore. E poi, di punto in bianco, la demo finisce. Ci ritroviamo a piedi. Vuoi continuare esattamente da questo punto, tenendo tutti i progressi fatti? Comprati il gioco completo.
Gli sforzi fatti fino a quel momento, i progressi già portati avanti in tutte quelle ore, soprattutto nel caso di un gioco ben fatto come quello citato, non possono fare altro che convincere l’utente a eseguire l’acquisto: si torna al menù principale e ci si dice “ma sì”, cliccando magari su “vai su Nintendo eShop” e sborsando la cifra richiesta per rimettersi al cospetto di Dundrasil. Ed ecco che così la demo è proprio come quel tablet già in mano, che mostra in modo cristallino cosa si fa e come lo si fa, e che l’utente non vuole più lasciarsi scappare. Ancor meno, se ho passato con il mio Eroe già dieci ore.
Un altro caso curioso è quello della demo come cavallo di Troia. Ricorderete sicuramente la questione del teaser giocabile P.T., che doveva essere la demo di un nuovo progetto in cantiere, poi rivelatosi essere il defunto Silent Hills di Hideo Kojima e Guillermo del Toro. In quel caso, la demo – facendo leva sulla curiosità del pubblico di scoprire in cosa consistesse il progetto – diventò vero e proprio veicolo di marketing, consentendo ai giocatori di scoprire cosa si celava davvero dietro il corridoio pieno di orrori e abomini con il quale si stavano confrontando. E a viverlo furono davvero tantissimi, a dimostrazione che se c’è una demo, i giocatori ci metteranno sopra le mani. Eccome, se lo faranno.
Demo e ricorsività: FFVII e Resident Evil 3
E torniamo così al punto iniziale di questo viaggio tra feels (suona meglio di “vecchiaia”, no?) e versioni di prova dei videogiochi: il 2020. Ci troviamo in un’epoca in cui andare a caccia della demo in edicola è solo un lontano ricordo e in cui questi assaggi di prova dei videogiochi sono più popolari che mai.
Solo nelle ultime ore, ad esempio, il mercato ha accolto la demo di Trials of Mana, e accedendo agli store digitali delle vostre piattaforme potete trovare davvero tanti prodotti che è possibile testare senza spendere nemmeno un centesimo – con il vecchio concetto della “ciliegia” per cui se la prima ti piace, probabilmente vorrai mangiarne qualche altro migliaio.
Non stupisce, allora, che due giganti come Square Enix e come Capcom abbiano deciso di far fare da ariete per le loro produzioni più attese, Final Fantasy VII Remake e Resident Evil 3 Remake, proprio a delle demo. Nel caso del ritorno di Cloud, era importante fare in modo che i giocatori potessero vedere anzitempo come la nuova Midgar vuole cambiare e rimanere fedele al contempo, mentre il tutto si intreccia a un combat system rinnovato che potrebbe avvicinare a questa fatica anche chi con i vecchi turni di FF non voleva averci niente a che fare.
Dall’altro lato, abbiamo una Capcom che partiva già forte dell’idea azzeccata con la demo a tempo del suo Resident Evil 2 Remake, divorata dai fan e preludio a un rifacimento meritatamente premiato da pubblico e critica, con un passo di vendita che ha fatto impallidire la più recente uscita inedita. Resident Evil 3 non poteva che fare altrettanto, intrattenendo i giocatori anche con la caccia all’easter egg (e alle venti statuette di Mr. Charlie) e deliziandoli poi con un trailer finale che, dopo aver toccato le corde più sensibili, porta all’inevitabile schermata: «vuoi accedere allo store per comprare il gioco completo?»
Così, in un mondo in cui continuano (ovviamente) le anteprime di gameplay per noi addetti ai lavori, che sulle nostre pagine vi forniamo i coverage più completi possibili di cosa abbiamo visto e giocato in anticipo rispetto all’uscita, è bello vedere come le demo vivano una certa ricorsività: l’anticipazione è anche direttamente nelle mani dell’utente finale, di tanto in tanto, perfino nelle uscite tra le più attese – come erano attese negli anni Novanta. Con delle demo che riescono a fare breccia – come facevano breccia negli anni Novanta.
Le demo sono un dolce ricordo di noi videogiocatori, cresciuti nei tempi in cui calcolavamo che con 14.900 lire potevamo scoprire magari altri sei o sette nuovi titoli, portando a casa la rivista del mese con il suo ennesimo disco dimostrativo. Colpisce che due dei titoli più attesi del 2020 siano due grandi successi degli anni Novanta, pronti a sbarcare sul mercato anticipati da delle demo – quelle stesse demo che erano così popolari nei loro anni d’oro originari, in una specie di struttura ad anello o di simbolismo di quello che fu. Un po’ come a dire che, una volta dissotterrati, Cloud e Jill non potevano non tornare mano nella mano con quel modello anticipato da una demo – come ai tempi andati, come nel 1998 di Raccoon City.
Voto Recensione di Resident Evil 3: Nemesis - Recensione
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