The Last of Us Part II, GameStop e digital delivery: perché non dobbiamo perdere i negozi di videogiochi – Speciale
Ma The Last of Us - Part II non poteva uscire solo in digitale? No. Assolutamente no. E vi spieghiamo anche perché.
a cura di Valentino Cinefra
Staff Writer
Viviamo in un momento molto delicato da interpretare nella sua completezza. La crisi sanitaria che stiamo vivendo si porta dietro una crisi economica che nel breve termine aggraverà solamente quella precedente, partita dal 2008, che già prima dell’inizio della pandemia aveva lasciato segni indelebili.
Per quello che ci riguarda, l’industria dei videogiochi ha retto il colpo in maniera considerevole finora. Paragonata ad altri mercati e industrie di ogni tipo, la nostra ha saputo mantenersi su un livello di sopravvivenza molto alto. Sono nati studi di sviluppo grandi o indipendenti, sono uscite nuove console, l’indotto ha continuato ad esistere.
Adesso, però, bisogna cominciare a farsi qualche domanda su quello che sarà il futuro del mercato del videogioco, inteso propriamente in videogiochi venduti e da vendere. La notizia delle ultime ore è quella relativa a The Last of Us Part II che, al momento, non sapremo quando uscirà. E, lo diciamo purtroppo sapendo che difficilmente verremo smentiti, sarà solo il primo delle grandi produzioni tripla A che dovrà rivedere le proprie intenzioni nel prossimo futuro. Ve ne abbiamo parlato recentemente, cercando di rispondere anche a qualche domanda relativa all’annuncio.
Proprio da una di queste domande voglio partire per parlare di negozi di videogiochi, retail contro digitale, e del perché non possiamo assolutamente permetterci che i negozi di videogiochi scompaiano in un futuro prossimo o remoto.
The Last of Us Part II può uscire solamente in digitale?
La risposta è no, come detto anche dal nostro Paolo Sirio nell’articolo di cui sopra. Citando lo speciale, “Sony ha fatto sapere che il 61% delle sue entrate ha avuto una matrice digitale”, qualcuno potrebbe pensare che sia tanto il 61%, ma c’è l’altro 39% da considerare. Una percentuale composta da acquisti su Amazon, catene videoludiche o “negozietti” che siano, catene di elettronica, nonché collector’s edition, ma anche edizioni limitate che siano.
È impossibile, al momento, ignorare un mercato del genere. Sony (ma anche Microsoft e Nintendo e qualunque azienda del settore) ha bisogno di non perdere quel 39 percento di moneta sonante perché sì, è bene ricordarlo considerando una parte dei commenti che ho letto purtroppo alla notizia di TLOU 2, queste sono aziende che per generare devono generare guadagni. Animal Crossing: New Horizons non deve essere solo bello, simpatico e antidepressivo, ma deve anche portare a casa più soldi possibili, cosa che sta facendo agilmente, tra l’altro.
Legato a questo c’è il problema del rapportarsi con realtà come Amazon, GameStop, Walmart, e chiunque per lavoro venda videogiochi in formato fisico, a cui è impossibile voltare le spalle per sempre. Per le software house è fondamentale che questi negozi aiutino la campagna pubblicitaria attraverso contenuti in esclusiva, collector’s edition da comprare solo in un negozio invece che un altro, ed in generale a far accrescere la presenza fisica dei videogiochi nel mondo.
Un altro problema, infatti, legato all’eventuale sparizione dei negozi di videogiochi, è che i videogiochi non esisterebbero più fisicamente. A prima vista potrebbe non sembrare un problema nell’epoca di Xbox Game Pass, PlayStation Now e servizi similari, ma in realtà sarebbe una ferita profondissima da non sottovalutare.
I videogiochi nella vita di tutti i giorni
Prendiamo ad esempio il cinema, che nella situazione attuale è l’industria dell’intrattenimento che sta soffrendo più di tutte. Con le sale cinematografiche chiuse tutto l’indotto è fermo, dalla pubblicità ai siti di informazione. Lo dimostra il fatto che Netflix, Amazon Prime Video, Disney+ e le altre piattaforme di distribuzione digitale stanno vivendo il loro momento migliore da sempre, probabilmente, in termini di visibilità.
Pensate anche ai Blu-Ray, che attualmente si possono comprare solo su Amazon visto che i negozi sono chiusi per il problema della pandemia. Questo fa sì che nella vita di tutti i giorni, intesa come presenza fisica, il cinema non esista al di fuori delle sale. Ed è così anche quando non c’è una pandemia. I negozi di videonoleggio davano al cinema inteso come medium una ragione d’essere. Camminare per le strade della propria città e buttare l’occhio su una videoteca ci faceva venire in mente un film da recuperare, e che probabilmente avremmo fatto qualche sera successiva recandoci proprio nel suddetto negozio.
Adesso si aspetta lo streaming, legale o illegale che sia, e il problema sanitario attuale ha accentuato questi tipi di comportamenti in maniera inverosimile, ovviamente. Questo fa perdere presa al cinema come medium, non essendoci la presenza fisica il pubblico non si informa, vive in maniera passiva i film senza interessarsi attivamente di cosa sta facendo. Oltre al dramma sociale questo si trasforma in un problema economico. I cinema erano già in crisi prima del Covid-19 perché tanto “aspetto che arriva su Netflix”, e magari neanche lo guardo perché c’è tanta roba da vedere e sfoglio passivamente il catalogo sperando che qualcosa mi convinca dalla copertina. Figuriamoci se scomparisse del tutto la possibilità di acquistare Blu-Ray o, nel paradosso del paradosso, la sala cinematografica.
Ecco, prendiamo questo scenario e portiamolo nel mercato videoludico. Se i negozi, o in generale i videogiochi, scomparissero dalla vita di tutti i giorni, scomparirebbero anche come elemento culturale. Non bisogna sottovalutare anche l’acquisto dell’ultimo minuto, il bombardamento mediatico che porta l’utente medio a dire “oggi esce Titolo X, lo vado a comprare”. Perché le aziende hanno bisogno dei pre-order, ma le vendite reali si fanno dopo il day one, nei primi weekend e nelle settimane successive.
I videogiocatori che non hanno preordinato, quelli più occasionali che passano fisicamente davanti al negozio e si ricordano vedendo la locandina che è uscito il videogioco di cui hanno sentito parlare per mesi, quelli che si fanno consigliare dall’addetto ma anche quelli che vogliono comprare qualcosa, si informano al volo, e vanno in negozio perché non vogliono aspettare le consegne, non hanno interesse ad attendere ore per un download, oppure vogliono un videogioco fisico da prestare ed infine anche da rivendere. Questo è un mercato, ed una dinamica sociale, che il mercato videoludico non può assolutamente permettersi di perdere.
Se i videogiochi esistessero solo in digitale, non passerà molto tempo prima che facciano la fine del cinema: un medium di intrattenimento composto da utenti svogliati, passivi, non appassionati né consapevoli.
I negozi di videogiochi come condivisione e crescita culturale
I negozi di videogiochi hanno plasmato la cultura e l’educazione videoludica di chiunque oggi faccia recensioni o analisi di qualche tipo, tanto per fare un esempio. Molte delle firme che leggete, quelle che hanno dai 25-30 anni in su almeno, si sono plasmate proprio nei negozi, che spesso erano “negozietti” – visto che le grandi catene sono arrivate solo nell’ultimo decennio in maniera massiccia e capillare nel nostro Paese.
Il negozio di videogiochi “costringe” alla scelta, all’informazione, ed anche al confronto con il negoziante. Tutto questo forma videogiocatori consapevoli, ed un mercato con una clientela consapevole cresce di conseguenza. Il fatto che abbiano perso di rilevanza nel corso degli anni ha anche creato un pubblico molto aggressivo, spesso saccente, che attacca giornalisti ed esperti perché il voto di una recensione secondo loro è ingiusto, o perché loro hanno letto questo e quello su Internet e quindi credono di essere nel giusto a prescindere. Ne sono fermamente convinto.
Certo questo non significa che, oggi, i negozi di videogiochi siano tutti esempi di virtù. GameStop, inteso come dirigenza, ha le sue colpe nell’aver creato un modello rivelatosi fallimentare nel tempo nei riguardi dei propri dipendenti ma soprattutto verso i clienti, portando la catena al suo peggior momento di sempre. GameStop era già in crisi da anni, quest’anno era prevista una rinascita, ma tra l’annuncio della chiusura di 300 negozi entro l’anno in corso ed ovviamente l’emergenza sanitaria, non è un grande momento.
Ma il negozio di videogiochi è anche un luogo di confronto, dove ricevere consigli ed analizzare le uscite del momento. A patto che gli addetti alla vendita siano preparati e competenti, lo ribadiamo. Vi racconto un aneddoto.
L’esperienza inimitabile del negozio
Nel lontano 2005 mi recavo a comprare videogiochi in un negozio distante quaranta minuti da casa mia. Avevo 18 anni ed erano i primi viaggi “lunghi” fuori dalla città. La catena era EB Games, che sarebbe stata acquisita da GameStop pochi anni dopo. Ci andavamo con gli amici perché gli addetti alla vendita erano preparatissimi, si chiacchierava di tutto e di più, ci davano consigli d’oro (“mai comprare una console portatile che non sia scura, perché si sporca subito e devi sempre pulirla”) ed in generale era un luogo piacevole. I prezzi, allora, erano anche incredibilmente convenienti.
Nel citato 2005 mi sono ritrovato, tra le tante cose, ad acquistare Star Fox Assault, titolo che all’epoca mi sembrava incredibile perché ero innamorato di GameCube ma che in realtà era assolutamente mediocre. Soldi e confezione alla mano mi sono ritrovato ad essere fortemente sconsigliato, direi quasi fermato, dall’acquisto da uno dei ragazzi del negozio: “Guarda, io te lo vendo pure se vuoi, però questo qui è abbastanza una m***a”. Poteva scucirmi i soldi, vendermi il gioco, e al massimo riprenderselo quando glielo avrei riportato in preda al disgusto. Ma ha rinunciato ad una vendita perché non voleva creare un videogiocatore scontento.
Questo è un aneddoto che non ho mai dimenticato perché, sostanzialmente, non mi è successo praticamente più. Questa è un tipo di esperienza che non deve scomparire nella vita di tutti i giorni. Perché sono sicuro che, anche se io non ho mai trovato un addetto alla vendita così onesto (seppure tanti altri estremamente preparati e competenti) nel mondo sia capitato a tante altre persone. Certo ci sono anche i commessi che ne sanno poco, o chi proprio non ne capisce, ma soprattutto nei negozi privati non è così – perché sono gestiti da persone che sono prima di tutto appassionate ed hanno scelto di far diventare il loro lavoro proprio quella passione.
In un momento in cui le aziende fanno marketing a volte disonesto, gli sviluppatori scavalcano sempre più la stampa ed i critici che rischiano di creare danni con le loro analisi, per rivolgersi agli influencer che riescono a veicolare un messaggio diretto ai consumatori, perdere l’ulteriore filtro del negoziante esperto significa creare un mercato completamente allo sbando, in balia totale dei claim pubblicitari e del passaparola dei contenuti sponsorizzati.
Non possiamo permetterci di perdere tutto questo. Purtroppo accadrà, perché il periodo in cui viviamo porterà sicuramente alla chiusura degli esercizi commerciali che già erano in difficoltà, ma dobbiamo far sopravvivere quelli che riusciranno a resistere. The Last of Us Part II non può uscire solo in digitale, né qualunque altro grande tripla A, perché non possiamo permetterci di perdere i negozi di videogiochi, né le aziende possono virare totalmente sul digital delivery. Con il tempo, il medium videogioco perderebbe sempre più presenza nel mondo reale: una situazione da cui poi non si torna più indietro.
Il periodo che stiamo vivendo, e gli annunci relativi, ci portano inevitabilmente a riflettere su quello che potrebbe essere il mercato videoludico già da qui a qualche mese. Il digital delivery è una risorsa importante in un momento in cui ci si può muovere poco da casa ed i corrieri fanno fatica a soddisfare le richieste dei consumatori. Nel futuro, però, il digital delivery dovrà rimanere sempre tale: una risorsa, e non l’unica soluzione. I negozi di videogiochi, e quindi il mercato fisico, sono e saranno sempre fondamentali per l’intera industria. Dimenticarlo, per pigrizia e/o opportunismo che sia, rischia di creare ulteriori danni irreparabili ad una industria che sta vivendo un anno a dir poco critico.