Mi chiamo Metal Gear Solid e ho vent'anni
Il 22 febbraio 1999, Metal Gear Solid esordiva in Europa: ricordiamo il viaggio di Solid Snake a Shadow Moses
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a cura di Stefania Sperandio
Editor-in-chief
Informazioni sul prodotto
- Sviluppatore: Konami Computer Entertainment Japan
- Produttore: Konami
- Distributore: Halifax
- Piattaforme: PC , PSX
- Generi: Stealth game
- Data di uscita: 3 settembre 1998 (Giappone) - 22 febbraio 1999 (Europa)
«Cerca questo: cerca Metal Gear Solid».
«Com’è?»
«Metal Gear Solid, è scritto qua».
«Che gioco è?»
«Boh, c’è l’immagine di uno che si nasconde, c’è la neve.» Guardai mio fratello con due occhi carichi di entusiasmo. L’immagine sul retro della confezione della PlayStation sembrava puro fotorealismo, per i miei canoni dell’epoca.
«Non c’è», mi rispose lui.
«Ma come non c’è?»
«Ah è qua, è nei video. C’è solo il video».
«Va beh, metti il video».
Mio fratello si arrese alla mia insistenza e, sulla Demo One, avviò il trailer di quello che all’epoca pronunciavo metàl gèr solid, che per la prima volta mi portò sull’isola di Shadow Moses. Per la prima volta, mi fece scoprire Solid Snake. Per la prima volta – ma ero troppo piccola per rendermene conto – mi fece capire che i videogiochi sono, possono essere e saranno molto più di quello che pensavo.
Quello della sottoscritta è un brevissimo scorcio di una storia personale che possiamo moltiplicare per milioni di persone: siamo sicuri che ciascuno di coloro che si sono innamorati di Metal Gear Solid, quando finalmente il 22 febbraio 1999 arrivò anche in Europa, si ricordano esattamente come e quando ci hanno avuto a che fare per la prima volta in assoluto nella loro vita. Anche se è trascorso tanto tempo. Anche se, questo ci dicono i calendari che non hanno compassione del nostro invecchiare, sono ormai passati vent’anni.
Metal Gear Solid: essere videogioco, ma a modo suo
Sulle nostre pagine, abbiamo già avuto modo di raccontarvi nel secondo episodio della retrospettiva dedicata in che modo la serie Metal Gear mutò nell’ancora più ambizioso Metal Gear Solid: con l’arrivo della nuova PlayStation e il supporto delle tecnologie ai videogiochi in tre dimensioni, il cinefilo Hideo Kojima poté trovare nuova benzina per alimentare il motore delle sue passioni. La contaminazione artistica del game designer e regista divenne il marchio di fabbrica dell’avventura di Solid Snake a Shadow Moses, che con il nuovo suffisso “Solid” alludeva proprio alle tre dimensioni che consentivano un approccio tutto nuovo anche alla narrativa, più cinematografico che mai.
Le velleità da designer di Kojima andarono a braccetto con quelle da regista. Le idee visionarie e la narrativa dello stesso Kojima, la scrittura di Tomokazu Fukushima, i personaggi e lo stile di Yoji Shinkawa, il tema cantato indimenticato e indimenticabile di Rika Muranaka: Metal Gear Solid nacque sotto la buona stella di tanti colpi di genio che confluivano in un’opera unica che, vent’anni fa non lo potevamo sapere, sarebbe divenuta un pilastro del medium videoludico, riconosciuta come uno dei più cristallini esempi di cosa si può raggiungere con un mezzo di comunicazione interattivo.
Rifacendosi all’idea degli episodi precedenti – non ti premio se uccidi tanti nemici, ti premio se li eviti – Metal Gear Solid era ricchissimo di unicità: era unico il modo di bussare per attirare i nemici, era peculiare il movimento di camera per sbirciare oltre gli angoli, al di là della camera aerea. Erano straordinariamente caratteristiche le scene filmate e con loro i dialoghi al codec, che davano anima, corpo, vita e credibilità a dei personaggi che componevano un intreccio capace di affrontare temi di incredibile importanza, ancora oggi attuale. Il patrimonio genetico, l’ereditarietà, cosa ci dice su di noi il DNA, in che modo ci guida e, soprattutto, in che modo non lo fa. E, quasi più in sordina, la deterrenza nucleare, la distruzione mutua assicurata, la necessità della nostra specie di non lanciare un ordigno nucleare addosso a qualcun altro solo perché poi me ne tirano indietro uno due volte più grosso – non per altro.
Era peculiare il suo modo di esprimere la violenza – lo stesso videogioco che tortura il protagonista, che mostra con agghiacciante sincerità un’adolescente venire crivellata da tre fucilate per farle dire «volevo essere un soldato, la guerra è orrenda», che ci mostra Liquid stritolare Gray Fox e lo stesso ninja affettare letteralmente i nemici, è quello che si schiera con tutto se stesso contro la violenza. La mostra, ma per svelarla esecrabile, non per farne spettacolo.
Era peculiare il suo modo di rendersi rigiocabile, proponendo al giocatore due finali distinti senza svelargli (fino all’uscita di In the Darkness of Shadow Moses, all’interno di Metal Gear Solid 2) quale fosse quello canonico. Spingendolo a rigiocare tutto dall’inizio per prendere, già nel 1998 (da noi 1999) una decisione diversa e vedere l’altro epilogo – diviso tra «è venuto il momento che io viva per qualcun altro, qualcuno come te» e «le persone muoiono, ma la morte non è una sconfitta».
Era peculiare il suo modo di prendersi sul serio senza prendersi sul serio. In Metal Gear Solid si scopre il dramma dei curdi e si prosegue nella storia individuando Meryl in base al suo fondoschiena. Si ascolta il dramma di Chernobyl per bocca di Nastasha Romanenko e ci si fa spedire di qua e di là dentro una scatola di cartone. Si assiste ai traumi della dottoressa Naomi Hunter, ma anche agli attacchi di diarrea del povero Johnny Sasaki. L’autorialità nel videogioco spesso non è riconosciuta: solo in pochi casi, ci troviamo di fronte a espressioni come “questo è un gioco di questa persona”, anziché a “questo è un gioco di questa compagnia”. Kojima fece di tutto, fin dalle origini della saga in poi, per dare un’impronta unica e riconoscibile alle sue opere, nelle loro fissazioni e nelle loro particolarità, fino ad arrivare a quell’etichetta “a Hideo Kojima game” che fu oggetto del contendere con Konami ai tempi di Metal Gear Solid V.
Metal Gear Solid era quel gioco in cui la quarta parete si rompeva ed eccolo lì, il videogioco, che sta parlando proprio con me. Psycho Mantis ce l’ha con me, quando mi fa vibrare il controller. Ce l’ha con me quando analizza il modo in cui gioco e mi dà dell’imprudente. Ce l’ha con me quando dice «hai usato un altro controller». Mei Ling ce l’ha con me quando mi dice, preoccupata, «non ti sembra un buon momento per salvare la partita? Ho una strana sensazione, una sorta di presentimento», prima che Snake venga catturato e torturato. Ocelot ce l’ha con me, mentre mi tortura e mi ricorda «non ci provare con l’autofire, me ne accorgerei», Naomi ce l’ha con me quando per massaggiarmi dopo la tortura mi invita a poggiare il controller sul braccio e lo fa vibrare. E ancora, Baker ce l’ha con me, quando mi dice che la frequenza di Meryl è «sul retro della confezione del CD.»
Metal Gear Solid era un videogioco sfacciato che sapeva essere videogioco in un modo tutto suo. Perché, se così non fosse, non saremmo qui a parlarne e ricordarci tutto per filo e per segno a distanza di vent’anni.
Tornerai mai, Serpente che non sei altro?
Non ci sono dubbi che, vent’anni dopo, Metal Gear Solid rappresenti ancora un punto d’arrivo per il mondo dei videogiochi. Il medium in due decenni è cresciuto in maniera straordinaria, esponenziale, con investimenti e monetizzazioni sempre più corpose che, in un circolo virtuoso, hanno portato a produzioni importanti, a loro volta fortemente cinematografiche, a loro volta fortemente emotive, a loro volta chiamate a lasciare un segno.
Forte anche del fattore nostalgia – che conta sempre, e tanto – in questo universo fatto di prodotti originali, quarti fiscali di cui tener conto e rimasterizzazioni, Metal Gear Solid giace nella nicchia che i suoi fan gli hanno preparato e che gli tengono calda, come una mamma amorevole: quella dei ricordi.
Konami non ha mai dato cenno di voler dare vita a un possibile remake dell’avventura di Solid Snake a Shadow Moses, forse forte del fatto che nel 2004 uscì Metal Gear Solid: The Twin Snakes su Nintendo GameCube. Sono numerosi, milioni, i fan che nonostante le tante produzioni odierne, il cuore a un ritorno a Shadow Moses – questa volta senza Old Snake – lo consegnerebbero immediatamente. Spetterà al publisher, rimasto proprietario dell’IP, decidere se percorrere o meno questa via, per dare una nuova giovinezza a un prodotto che ha fatto da bussola all’ispirazione e alla passione videoludica di addetti ai lavori e fan armati di controller.
I grandi amori sono fatti per durare nel tempo. Vent’anni possono a malapena scalfirli.
Metal Gear Solid ha un posto (meritatamente) privilegiato nel cuore di milioni di videogiocatori di tutto il mondo. Sarebbe facile dire che è perché il primo amore non si scorda mai, il che è sicuramente parte integrante dell’affetto provato dai fan, ma è anche e soprattutto per la personalità unica che, vent’anni fa, il viaggio di Solid Snake a Shadow Moses riuscì ad esprimere. In un’isola costellata di nemici, violenza demonizzata, deterrenza nucleare, patrimonio genetico, clonazione umana, easter egg e autoreferenzialità Kojimana, Metal Gear Solid rimane un pezzo di autentica storia di questo medium, capace di incarnare alla perfezione le ambizioni di contaminazione del suo autore, riuscendo ad eccellere in entrambi i suoi aspetti: l’esperienza pad alla mano e il perfetto incastro che quest’ultima trovava, anche a fronte di una longevità non certo miracolosa, con la forza del paradigmatico comparto narrativo.
Metal Gear Solid compie vent’anni. Tanti auguri, Metal Gear Solid. Lunga vita, Metal Gear Solid.