Metal Gear Solid: Il Serpente in bilico tra passato e futuro - Speciale
A venticinque anni dall’arrivo di PlayStation e ventuno dalla sua uscita, riprendiamo e indaghiamo alcuni temi universali e attualissimi del primo Metal Gear Solid.
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a cura di Adriano Di Medio
Redattore
Informazioni sul prodotto
- Sviluppatore: Konami Computer Entertainment Japan
- Produttore: Konami
- Distributore: Halifax
- Piattaforme: PC , PSX
- Generi: Stealth game
- Data di uscita: 3 settembre 1998 (Giappone) - 22 febbraio 1999 (Europa)
Death Stranding è stato un nuovo inizio per Hideo Kojima, e ne abbiamo abbondantemente parlato. Quello che forse è meno noto è che, ai tempi, lo fu anche un altro videogioco, rimasto inevitabilmente nel cuore di tutti coloro che hanno avuto modo di provarlo, magari neanche avendo l’età giusta. Quel videogioco si chiama Metal Gear Solid, e approfittando del decennio appena concluso che dei 25 anni della prima PlayStation (della quale è stato insignito del riconoscimento di miglior gioco mai uscito su tale console) vogliamo parlarne in maniera differente, evidenziando come forse la missione di Solid Snake a Shadow Moses sia ancora, e volendo purtroppo, di grandissima attualità.
Persone, denaro, interessi, attualità
Se ci pensiamo bene, la trama dei Metal Gear Solid (e dei Metal Gear su MSX) è al suo nocciolo sempre la stessa: un soldato specializzato viene spedito in missione in un luogo isolato, all’interno del quale si sospetta esserci un Metal Gear, ovvero un’arma rivoluzionaria con capacità di lancio nucleare. Chiaramente, la missione ben presto si rivela come ben più stratificata e complessa della semplice indagine e infiltrazione, finendo ogni volta col cambiare la percezione non solo del protagonista ma anche dei comprimari. Come sempre, la forza dei Metal Gear Solid sta appunto nella capacità di creare affezione persino in comprimari con cui è possibile interagire addirittura solo per via telematica.
Allo stesso tempo, però, sappiamo che questa capacità di scrittura è tipica di Kojima, così come lo è la sua costante natura cinefila, che lo porta a riempire i Metal Gear Solid di citazioni e auto-citazioni. Ma, per quanto importante, quello del cinema è solo uno “spettro” per veicolare uno dei grandi temi dei videogiochi di Kojima, ovvero la forte avversione al nucleare.
È qualcosa che Kojima è andato rincorrendo da sempre, sia per motivi cinematografici (ha ammesso più volte che a dargli l’impulso anti-nucleare è stato Il Pianeta delle Scimmie, il film originale di Schaffner del 1968) ma soprattutto culturali: pure se formalmente loro alleato fin dalla ritrovata indipendenza degli anni Cinquanta, il Giappone probabilmente non ha mai perdonato agli Stati Uniti il bombardamento nucleare di Hiroshima e Nagasaki.
Allo stesso modo, la tematica antinucleare mossa in particolare da questo primo Metal Gear Solid si rispecchia non solo nell’imperialismo americano, ma soprattutto nell’idea della mancanza di prospettive. Simbolico e attualissimo è il dialogo tra Snake e Kenneth Baker, dopo che questi l’ha liberato dalla trappola costruita da Ocelot col C4. La parte centrale del loro discorso, accompagnato da spezzoni digitalizzati di riprese autentiche, parla di segreti che oggi sono “scomodi” per il lato opposto a quanto non lo fossero ai tempi.
Se negli anni Novanta l’idea di scorie nucleari in circolazione in nero in tutto il mondo faceva correre più di un brivido, oggi la tensione si sposta sulla componente umana, dove ingegneri e scienziati rimasti senza lavoro e prospettive si rassegnano a progettare bombe e armi pur di lavorare. La stessa successiva conversazione tra Ocelot e Liquid in cui accarezzano anche l’idea di vendere il Metal Gear semplicemente al miglior offerente è a sua volta d’impatto più oggi che ieri, in una società che effettivamente ha cominciato a sentire troppo l’ideale del “denaro a tutti i costi”.
Metal Gear Solid: siamo uomini o caporali?
Dove la tematica dell’ingegnere utilizzato a sua insaputa per seminare distruzione avrebbe trovato compimento nella piccola grande tragedia di Otacon, un altro tema sotteso di Metal Gear Solid è quello dell’umanizzazione e della dis-umanizzazione. È un tema se vogliamo più sotteso, anche per il suo essere in parte “mascherato” dalla lingua inglese. Basta però tradurre un minimo per vedere come tutti i combattenti abbiano tutti nomi in codice di animali, cosa che fa regredire la loro coscienza a un inconsapevole (ma terribile) stato ferale. Ecco quindi l’ocelotto (Ocelot), il polpo (Octopus, in inglese si usa il nome scientifico latino), il corvo (Raven), la mantide (Mantis), la volpe (Fox) e infine il lupo (Wolf). A certi di loro è addirittura associato il nome di un’arma nella seconda parte del loro nome in codice, come a ribadire il fatto che sono lì per uccidere, ma in maniera paradossalmente più “raffinata” rispetto all’animale da cui prendono il nome.
Quelli che si salvano sono i “gemelli terribili” Solid e Liquid, ma nei fatti, dove Liquid si lascia andare alla follia dell’antagonista (specialmente nel finale), Solid Snake non prova risentimenti nei confronti della maggior parte dei suoi avversari. Simbolica in tal senso è la sua frase quando parla di Gray Fox, asserendo che “la guerra non è una buona ragione per terminare un’amicizia”. Pure se Naomi liquida la frase come un pensiero stupido, che subito associa al “maschile”, in realtà Snake è molto più paritario.
Un concetto che raggiunge compimento in quello che per molti è il punto più alto di Metal Gear Solid, ovvero il monologo della morente Sniper Wolf. Con poche parole, Snake fa in modo che la morte della donna-cecchino sia il meno amara possibile, raccontandole come lui stesso abbia imparato durante i suoi anni in Alaska che il lupo va rispettato come un cugino. Un pensiero semplice, ma che si riaggancia anche al fatto storico che il lupo in Giappone è stato cacciato fin quasi all’estinzione.
Il motivo per cui Snake non ha dei veri e propri risentimenti per quasi nessuno a Shadow Moses è duplice. Il più semplice è il fatto di essere un professionista, concentrato solo sulla propria missione. Quello più profondo è il fatto, proprio in virtù della sua “professionalità”, di aver capito che tutti coloro che si aggirano a Shadow Moses sono vittime dello stesso sistema, per il quale sono tutti pedine prima da sfruttare e da sacrificare quando la loro utilità è esaurita. Un sistema troppo grosso e apparentemente impossibile da sovvertire, sia perché si maschera da grandi ideali (il Paese, il dovere, la nazione, le regole) sia per una condotta subdola e ingannatrice (il virus FoxDie iniettatogli a sua insaputa, il coprire la verità con le bombe, l’apparente impossibilità di uscirne se non da morti). Se vogliamo, è da questa sua consapevolezza che viene parte del suo eroismo, diretto e indiretto: riuscire a provare empatia in un contesto in cui farlo è la via più breve per perdere la vita. È solo nel finale, qualunque esso sia, nel rivelare il suo nome David, che il nostro protagonista si riprende simbolicamente la propria umanità.
Premere START per iniziare
Se la componente umana è quella che ha il suo riscontro più “immediato” nel pubblico, le cose si fanno ancor più interessanti quando si prova a confrontare storia, fiction e “futuro”. Metal Gear Solid ha infatti una componente storico-speculativa sottesa ma anche piuttosto complessa. Mediamente, infatti, ciascun capitolo della saga è ambientato sette anni dopo il suo anno “reale” di pubblicazione. Ma dove inizialmente era solo un modo per dipingere una sorta di “Realtà+1”, quindi un espediente per inserire accenni fantascientifici, dopo ci si è trovati a dover fare i conti sia con la storia reale che con il “futuro” ideato dalla saga e poi effettivamente non realizzatosi.
Il Metal Gear Solid per PlayStation non aveva ancora né la fantapolitica di Snake Eater né tantomeno gli “enigmi” narrativi da sbrogliare per MGS4, ma piuttosto si concentrava su un curioso “messaggio di speranza internazionale”, incarnandolo nello START-3. Storicamente gli START (sigla per STrategic Arm Destruction Treaty) sono stati degli accordi internazionali per la non proliferazione degli armamenti nucleari firmati da Stati Uniti e Russia, ai tempi i maggiori detentori di tali armi. Ai tempi della pubblicazione di Metal Gear Solid era ancora in vigore lo START-II, firmato nel 1993 ma ratificato diversi anni dopo. Nel 1997 erano comunque iniziate le negoziazioni per un possibile START-III, di cui Kojima ne ipotizza la firma appunto nel 2005, anno di ambientazione della storia.
Pure se narrativamente era più che altro un artificio per creare tensione, il fatto che l’America stesse progettando un’arma come il REX quando di facciata fa invece finta di opporsi al nucleare è qualcosa di tuttora molto graffiante. Pure se il trattato nella realtà quindi non è mai nato, ha in qualche modo rivissuto dopo: nel 2010, infatti, Barack Obama ha firmato insieme al presidente russo Dmitrij Medvedev il New START, attualmente in vigore e che scadrà nel febbraio 2021.
Metal Gear Solid: Non è tutto scritto nelle cellule
Infine, c’è il tema di fondo di tutto Metal Gear Solid: i geni. La genetica e la sua capacità di determinare il futuro e le predisposizioni dell’individuo è qualcosa che non ha mai smesso di affascinare l’essere umano, specialmente perché anche adesso, dopo ventidue anni, ancora siamo profondamente ignoranti sulla struttura intima dell’umanità.
Il fatto che Solid e Liquid siano due cloni (uno con gli alleli dominanti, l’altro con quelli recessivi) è la manifestazione più evidente, quella su cui viene costruito tutto il resto della saga. Ma in realtà il tema si infiltra (simbolicamente come un virus) nella narrativa fin dall’inizio. Dall’iniezione del peptide anticongelante fino al personaggio di Naomi Hunter, diventata genetista per darsi un surrogato di spiegazione per capire le proprie origini, negatele dal non aver mai conosciuto i genitori.
In realtà, un simile tema viene reso palese da un nemico, ovvero Psycho Mantis. Lo scontro con lui è reso memorabile dal suo continuo infrangere la quarta parete, in realtà c’è la follia scaturita dall’aver letto la mente umana e dell’avervi trovato solo l’intenzione ferale di “trasmettere il proprio seme”, l’intenzione animale di conservazione della specie.
Un istinto vero, ma che non va represso o distrutto, ma incanalato e vissuto nel modo giusto – che nella maggior parte delle volte trova “redenzione” nei sentimenti amorosi. Nel caso di Snake saranno quelli che maturerà per Meryl, e che faranno riaffiorare (in un modo prevedibile ma anche universale) la forza di volontà per andare oltre, per liberarsi da tutte le dolorose verità e dalle follie autodistruttive di Liquid e dei suoi.
Metal Gear Solid, quindi, denuncia come il ricorso alla genetica come spiegazione omnicomprensiva abbia fatto assurgere il DNA a qualcosa di simbolicamente accostato al destino, inteso come una catena che vincola a un modo di essere che non è “natura”, ma un’imposizione dovuta al contesto, all’educazione e a quello che ciascuno ha passato nella propria vita.
E in tal senso, il senso “assoluto” della genetica viene smontato un po’ alla volta, ribadendo con disarmante semplicità come certe cose, come i sentimenti, non si possano spiegare con lo sperperato termine DNA. La stessa Naomi Hunter prima odia Snake (pure se lo nasconde) ma quando ne vede l’umanità cambia idea. E poco prima di essere scoperta da Campbell, arriva a lasciarsi sfuggire (nel doppiaggio italiano) un “io ti…” equivocabile ma non troppo. Ed è proprio lei a chiudere la storia, con la frase forse più celebre del videogioco: “Non devi lasciare che il tuo destino ti incateni a sé… che i tuoi geni ti dominino. Gli umani possono scegliere la vita che vogliono vivere. La cosa più importante è che tu abbia scelto la vita… E allora, vivi!”
Metal Gear Solid è una di quelle opere videoludiche che fa solo finta di invecchiare. Piuttosto, i suoi messaggi prendono valore man mano che il tempo passa. Dalla genetica al destino, dalla guerra alla politica, sono molte le interpretazioni che si possono dare a un’opera così sfaccettata, che pure se si “ripete” in realtà sta solo ribadendo temi importanti. Di cui, forse, il più grande sta nell’attacco concettuale al videogioco stesso: un’accusa pesante che Kojima muove utilizzando Mantis, indirettamente, incolpando il giocatore di essersi divertito durante l’azione, di aver “goduto” nelle scene più violente. E quindi di pensarci due volte a prendersi una vita, o cercare solo quello a ogni esperienza virtuale. Ed è un concetto che già diceva nel 1998, ventun anni prima di Death Stranding. Alla fine quindi sono vent’anni che Hideo Kojima continua a ripeterci sempre la stessa cosa, cioè che uccidere, anche virtualmente come nei videogame, non è bello. E puntualmente, sono vent’anni che nessuno lo ascolta.