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Mandragora: Whispers of the Witch Tree | Recensione

Mandragora: Whispers of the Witch Tree è un riuscito mix tra metroidvania e soulslike a cui dovreste dare una chance: ecco la nostra recensione.

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a cura di Domenico Musicò

Deputy Editor

1

In sintesi

  • Un riuscito mix tra meccaniche metroidvania e soulslike.
  • Lungo, appagante e con tanti segreti.
  • Molte dinamiche di gioco e sezioni sanno tanto di già visto.
  • Pro
    • Un riuscito mix tra meccaniche metroidvania e soulslike.
    • Lungo, appagante e con tanti segreti.
  • Contro
    • Molte dinamiche di gioco e sezioni sanno tanto di già visto.
    • Pur cercando una sua identità, non riesce a porsi come un'opera di grande unicità.

Il Verdetto di SpazioGames

8
Mandragora: Whispers of the Witch Tree un'opera davvero molto valida e solida, un importante esponente di un genere troppo inflazionato che sta perdendo progressivamente il fattore novità. Proprio per questo, Mandragora non riesce a spiccare per originalità o per quel senso di unicità che ci si aspetterebbe da un'opera del genere. Eppure, nonostante ci sia davvero tanto di già visto, di trito e ritrito, la sua grande coerenza di gioco e le sue scelte quasi sempre tutte azzeccate riescono a inquadrarlo come un titolo a cui va data senza dubbio una convinta chance.

Informazioni sul prodotto

Immagine di Mandragora: Whispers of the Witch Tree
Mandragora: Whispers of the Witch Tree
  • Sviluppatore: Primal Game Studio
  • Produttore: Knights Peak
  • Testato su: PC
  • Piattaforme: PC , SWITCH , PS5 , XSX
  • Generi: Azione , Soulslike
  • Data di uscita: 17 aprile 2025

Nel vasto e inflazionato fronte degli action RPG a scorrimento orizzontale, Mandragora: Whispers of the Witch Tree vuole porsi come un'opera che non intende solo accontentarsi di ricalcare formule consolidate, ma che tenta di trovare una propria direzione badando poco all'originalità ma molto al suo carattere distintivo.

Il progetto di Primal Game Studio si innesta su una duplice eredità: da un lato il retaggio dei metroidvania più tradizionali, dall’altro l’influenza ormai dominante del modello soulslike, a cui guarda non solo per struttura e difficoltà, ma soprattutto per il tipo di coinvolgimento che pretende dal giocatore.

L’intento è chiaro sin dai primi minuti: costruire un mondo riconoscibile, oscuro e stratificato, in cui ogni passo, ogni attacco e ogni decisione pesino davvero. Non si tratta solo di evocare un’estetica o replicare una curva di sfida; Mandragora: Whispers of the Witch Tree cerca coerenza interna, tensione tematica, persistenza.

E spesso le trova, pur scontrandosi talvolta con le proprie ambizioni.

Mandragora: schemi rodati, formula convincente

Il mondo di Faelduum è l’ennesima incarnazione della decadenza, ma non è mai soltanto una scenografia fine a se stessa. Le rovine, le città svuotate, le foreste malate, ogni fondale, ogni scorcio di architettura crollata è composizione, è ritmo, è senso.

L’uso del colore, dominato da toni plumbei e desaturati, non serve a colpire, ma a deprimere lo sguardo, a trasmettere un universo in cui l’entropia – concetto centrale della lore – non è solo forza cosmica, ma principio visivo, concettuale e narrativo.

L’estetica pittorica non è puro esercizio formale, ma il veicolo attraverso cui il mondo prende forma: non iperrealismo, non pixel art nostalgica, ma una stilizzazione elegante, malinconica e decadente.

La narrazione, affidata in parte alle parole e in parte al silenzio, rifiuta la linearità esplicativa, pur essendo decisamente lontana dai modi molto sibillini tanto cari ai metroidvania con una decisa declinazione in chiave soulslike.

L’Inquisitore protagonista non parla, non commenta, non lascia tracce. I dialoghi sono essenziali, ambigui, spesso carichi di sottotesti. Il contributo di Brian Mitsoda alla scrittura si sente, ma è mediato da un'impostazione narrativa che sa anche come lavorare per omissioni (il gioco, tra l'altro, è localizzato in italiano). 

Non ci sono cutscene troppo invasive, nessuna esposizione ridondante: la trama si compone per frammenti, attraverso descrizioni, simboli, scelte morali che non appaiono mai come biforcazioni evidenti, ma si insinuano nel modo in cui si interagisce con il mondo e con i suoi abitanti. L’etica dell’Inquisitore è rimessa interamente al giocatore, e non è mai innocua.

Anche il sistema di combattimento riflette appieno la filosofia dell’opera: lento, gravoso, esigente.

Anche il sistema di combattimento riflette appieno la filosofia dell’opera: lento, gravoso, esigente. Ogni colpo ha un peso specifico, ogni animazione deve essere letta con attenzione, e la punizione per l’errore è immediata.

Le influenze soulslike sono dunque evidenti, ma non imitate passivamente: Mandragora non punta al virtuosismo tecnico, ma a una dimensione più contenuta e tattile, più affabile verso chi ha solitamente delle difficoltà di troppo.

Ciononostante, la gestione della stamina, la lettura dei pattern, l’uso calibrato delle abilità secondarie restituiscono un senso di progressione basato sull’apprendimento e sulla pazienza.

Il ritmo è volutamente compassato, e chi cerca un combat system reattivo e nervoso potrebbe trovarsi spaesato. Chi invece accetta la ritualità dello scontro, troverà un una conduzione di gioco più compassato, che cresce lentamente, che si affina con il tempo e premia la concentrazione.

Il level design, a sua volta, segue una logica coerente con il tono generale dell’opera. Il mondo non è un labirinto caotico, ma una rete di percorsi intelligenti, interconnessi, pensati per essere esplorati con metodo.

Il backtracking non è una fatica gratuita, ma un ritorno consapevole, spesso necessario, quasi mai fine a sé stesso. La verticalità è gestita con precisione, e ogni nuova abilità acquisita non solo sblocca nuovi accessi, ma modifica la percezione dello spazio già conosciuto.

Il piacere della scoperta attraverso la dedizione

Il bestiario, pur non vastissimo, è costruito con intelligenza. Le creature non sono solo ostacoli, ma declinazioni della corruzione che permea Faelduum. Ogni boss è una variazione sul tema della rovina: non solo sfide meccaniche, ma manifestazioni tematiche, icone decadute, esseri deformati dal mondo che li ha partoriti.

La spettacolarità non è mai il centro della scena, perché Mandragora: Whispers of the Witch Tree non vuole stupire, vuole logorare. E anche quando eccede, quando forse si compiace di una certa teatralità estetica, non perde mai del tutto la misura.

E non la perde nemmeno quando sfoggia l'apertura progressiva della mappa di gioco che si fa piacevole rilettura dell’ambiente, spazio che cambia per far entrare in contatto con nuove possibilità esplorative, proprio come insegna la scuola dei metroidvania.

Tuttavia, si può notare una certa tendenza alla ripetizione visiva in alcune aree, dove la varietà architettonica si appiattisce, smorzando parzialmente l’impatto dell’esplorazione.

Si può notare una certa tendenza alla ripetizione visiva in alcune aree, dove la varietà architettonica si appiattisce, smorzando parzialmente l’impatto dell’esplorazione.

Le classi iniziali orientano il primo approccio, ma non vincolano il percorso. L’albero delle abilità può apparire ipertrofico, ma è costruito attorno a scelte funzionali, capaci di modificare il modo in cui si affrontano i nemici e si interagisce con l’ambiente. L’assenza di build eccessivamente complesse è una scelta di design precisa, che privilegia la leggibilità e l’efficacia.

Anche l’equipaggiamento e il crafting sono integrati senza eccessi: il gioco permette di forgiare e potenziare armi e armature, ma non si affida alla moltiplicazione di statistiche o al grinding compulsivo (sebbene sia consigliato, per superare alcune aree più ostiche). Tutto rimane funzionale al ritmo della progressione, senza disperdersi in microgestioni accessorie che verrebbero presto a noia.

Tecnicamente il gioco si dimostra stabile e rifinito: il frame rate è solido, le animazioni – pur non sempre perfette – risultano espressive, e gli ambienti, anche nelle fasi più complesse, mantengono una leggibilità visiva notevole.

Gli sporadici glitch riscontrabili in alcune compenetrazioni o hitbox sbilanciate non compromettono in modo significativo l’esperienza. L’interfaccia è snella e l’intero impianto di navigazione è pensato per lasciare spazio all’immersione, senza mai diventare eccessivamente intrusivo.

Ciononostante, non si può ignorare che Mandragora sia un titolo che pone delle barriere. Non solo in termini di difficoltà, ma soprattutto nella sua predisposizione a respingere chi cerca gratificazioni immediate. Il ritmo lento, il combat system metodico, la narrazione talvolta implicita e l’atmosfera rarefatta compongono un’esperienza che non accoglie, ma pretende.

Non è un difetto, ma una precisa dichiarazione di poetica ludica: il gioco vuole essere abitato, decifrato, dominato attraverso la pazienza e l’intuizione. Ma è inevitabile che, proprio per questa sua vocazione autoriale, possa alienare chi non è disposto a entrare nella sua logica o a spendere ben più di una trentina di ore per completare il tutto.

Alla fine, Mandragora è un’opera che affascina per integrità e coerenza. Non rivoluziona il genere, né pretende di farlo. È un progetto che respira attraverso le sue atmosfere, che parla una lingua a tratti ostica, ma sincera, e che riesce, nonostante alcune incertezze strutturali, a distinguersi per identità e dignità espressiva.

In un mercato sempre più saturo di omaggi e cloni senz’anima, Mandragora si erge come un lavoro onesto, riflessivo, profondo. Ed è forse proprio questa, oggi, la sua scelta più radicale e significativa.

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