Ghosts’n Goblins, cavalieri in mutande | Parte 1
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a cura di Adriano Di Medio
Redattore
Nell’attuale generazione quando si pensa a “videogioco difficile” viene subito in mente Dark Souls. E non è improprio, perché l’opera di FromSoftware ha recuperato un’idea di sfida e profondità che altrimenti rischiava seriamente di perdersi, nella massificazione del pubblico a cui il videogioco è andato incontro in settima generazione. Quello che però viene dimenticato è che i Souls hanno avuto un “illustre predecessore”, che prima di loro aveva la palma di “esemplare depositato di videogioco difficile”. Stiamo ovviamente parlando di Ghosts’n Goblins, il marchio nato nelle fumose sale giochi degli anni Ottanta e arrivato fino a oggi. In questa retrospettiva ne ripercorriamo la storia.
Cavalieri, castelli, demoni
Ghosts’n Goblins è forse una delle primissime serie videoludiche ad avere un autore ben preciso: Tokuro Fujiwara. Spesso nascosto sotto pseudonimi e futuro maestro di Shinji Mikami, questo silenzioso designer è stato uno degli artefici della “Capcom dei tempi d’oro”, quando la casa giapponese scopriva la pixel-art e cominciava a inseguire affascinata l’immaginario occidentale. Nella prima metà degli anni Ottanta Tokuro è entrato da poco in Capcom, ma già si è distinto nella progettazione di videogiochi da sala. Nel 1984 ha appena finito il maze-game Pirate Ship Higemaru, ma non ha perso lo slancio e il mondo (non solo giapponese) ha ancora fame di coin-op. Egli quindi rielabora la leggenda di Re Artù, amplificandone la componente oscura. E non è difficile immaginare che una delle sue principali ispirazioni sia stata il film Excalibur di John Boorman, uscito tre anni prima.
Egli prende la componente cavalleresca e l’idea del viaggio, ma insieme ai suoi collaboratori ne amplifica l’oscuro, lo stridente, il disturbante. Nel 1985 nasce così Makaimura, che tradotto alla buona dal giapponese significa “villaggio nel mondo dei demoni”. Si interpreta Artù (Arthur), cavaliere in armatura a piastre che deve salvare la sua amata principessa (Prin Prin, ribattezzata dalla traduzione inglese in Guinevre) rapita dalle forze del male. Lo farà attraversando sei livelli rigorosamente a scorrimento orizzontale, lanciando in avanti la sua arma (intercambiabile) e sopravvivendo a letali tranelli, piattaforme instabili e nemici in costante rigenerazione. Se viene colpito perde la sua armatura a piastre rimanendo solo con un paio di imbarazzanti boxer a pallini, mentre un secondo colpo lo uccide. Un videogioco semplice, accessibile nei suoi soli due pulsanti da premere (oltre alla levetta) ma dal gameplay volutamente rigido e ostile, spietato nell’imporci di superare il suo fuoco incrociato solo con le due vite concesse da ogni gettone.
Nonostante la mitizzazione, è più probabile che la difficoltà per cui ancora oggi il gioco è ricordato sia il frutto di una scelta obbligata da parte degli sviluppatori. La natura primaria di un videogioco da sala è proprio quella di incoraggiare a inserire quante più monetine possibili nel cabinato. La difficoltà esagerata di questo debutto assolveva a questo compito, mentre la fulgida atmosfera horror e il senso di scoperta aiutava a sopportare i ripetuti fallimenti. Perché contrariamente alla leggenda popolare Ghosts’n Goblins si può finire, e anche adesso basta un giro in Rete per vedere come questo sia possibile con l’allenamento giusto. Ma nell’epoca delle monetine contate i livelli del cimitero, le caverne e il castello demoniaco sono così difficili che solo pochi virtuosi arrivano ad affrontare il boss finale.
Medioevi, cavalieri, zombie
Inutile ripetere quanto Ghosts’n Goblins abbia fatto successo ai tempi. Un’acclamazione che non si ferma neanche quando il gioco viene distribuito (grazie a Taito) in nord America. È in tale occasione che gli viene attribuito il nome con cui è universalmente conosciuto. A questa ondata segue una serie esagerata di porting, e il piccolo capolavoro di Tokuro Fujiwara viene convertito per una quantità smodata di piattaforme. Ne ricordiamo l’Amiga, l’Atari ST, il Commodore 64, NES, MSX, ZX Spectrum e l’Amstrad CPC (la nemesi del Commodore). Molte di queste versioni, tutte pubblicate nella seconda metà degli anni Ottanta, sono ricordate per essere a loro volta opere notevoli. Ai tempi il lavoro di porting era molto difficile: i cabinati da sala erano infatti sempre più potenti dei computer casalinghi. A causa delle estreme differenze a livello di hardware tra una macchina e l’altra la maggior parte delle volte i “porting” erano riprogrammati praticamente da zero rispetto agli originali. Talune versioni (come quella NES) verranno poi addirittura riproposte in anni assai più recenti, sulla collana NES Classics per Game Boy Color. Una versione emulata dell’arcade originale è stata poi pubblicata per iOS poco più di un anno fa.
Ma mentre il mercato si sazia con queste conversioni, Capcom comincia a pensare al sequel. La dirigenza lascia dirigere a Tokuro Fujiwara qualche altro videogioco arcade (il primo Bionic Commando) e console (si dice abbia prodotto anche il primo Megaman), ma a tempo debito lo rimette a lavoro su Arthur. Nel 1988 arriva quindi Ghouls’n Ghosts (Daimakaimura), seguito diretto della prima avventura. Inalterato nei comandi e nella brutalità del porsi al videogiocatore, il principale discriminante col passato sta nella resa visiva. Il processore proprietario CPS-1 (in sostituzione al Motorola 6809) permette infatti un livello di dettaglio per i tempi grandioso, amplificandone il respiro e la grandezza di livelli, ambienti e animazioni.
A livello narrativo però la novità è un’altra: viene infatti abbandonata la leggenda arturiana, preferendo collocare il gioco in un universo narrativo indipendente. La principessa da Guinevre ritorna Prin Prin, e tre anni dopo il primo episodio il suo regno (di nome Hus) viene nuovamente attaccato. A rapirla stavolta arriva Lucifero in persona, che ha sguinzagliato il suo intero regno pur di farla sua. A opporsi c’è di nuovo il nostro cavaliere, a cui dovremo far attraversare altri sei livelli sempre più intrisi di feralità e macabro fascino gotico. Dove la crudezza dell’avanzamento non si discute, il gioco introduce alcune novità come l’ormai celebre armatura d’oro, che quando indossata permette ad Arthur di scagliare un incantesimo (diverso a seconda dell’arma equipaggiata) tenendo premuto il tasto di attacco. A questo si aggiunge nuovamente l’obbligo di finire il gioco per due volte di fila, ottenendo nel mentre un oggetto particolare (il cannone spirituale) nientemeno che da San Michele.
Di nuovo è un gran successo, e le conversioni anche stavolta arrivano a pioggia. Ma dove le molte nuove macchine (molte delle quali uscite nel solo Giappone) rendevano per la prima volta possibili i porting “pixel-perfect”, i vecchi hardware mostravano tutti i loro limiti. Non mancarono anche dei piccoli strascichi morali: la SEGA per la distribuzione sulle sue due piattaforme di allora (Mega Drive e Master System) eliminò i riferimenti religiosi espliciti sostituendoci quelli della mitologia norrena: Lucifero divenne quindi Loki e San Michele venne trasformato in una generica “valchiria”.
Horror, doppi salti, armature d’oro e scudi
Rievocando un percorso a quanto pare divenuto tradizionale per il brand, i porting del gioco si occupano di “fare massa” mentre Capcom lavora all’episodio successivo. Le macchine da gioco casalinghe si stanno però preparando al salto generazionale, e l’azienda si rende conto che l’epoca d’oro delle due dimensioni (specialmente in sala giochi) è destinata a finire in pochi anni. La console di punta della fine degli anni Ottanta è però il Super Nintendo, e a questa viene destinata la nuova avventura di Arthur. Con Tokuro Fujiwara nel ruolo di produttore nasce quindi Super Ghouls’n Ghosts (Chomakaimura), pubblicato in tutto il mondo tra il 1991 e il 1992. Ad un plot e una successione dei livelli ancora una volta prevedibili (Prin Prin viene di nuovo rapita, stavolta da un malvagio imperatore di nome Sardius/Samael) il gioco approfitta della potenza grafica dello SNES per costruire ambientazioni inedite e soprattutto capaci di alterarsi in tempo reale, aggiungendo un elemento di imprevedibilità alla già alta difficoltà.
Dove questo veniva riequilibrato dall’introduzione di nuovi potenziamenti per l’armatura (quella color verde bronzeo, quella d’oro e uno scudo annesso) la novità per cui il gioco è rimasto nei ricordi è l’introduzione del doppio salto. L’intero videogioco viene disegnato attorno a questa mossa inedita, obbligando il giocatore a imparare a dosarla e a farlo anche in fretta. Il salto infatti non si può direzionare una volta compiuto, e non può essere annullato in alcun modo. Si sussegue il solito strascico di cambiamenti visivi, con la Nintendo of America che altera nomi e simboli per togliere dal gioco i riferimenti religiosi.
La crescita del dettaglio grafico però porta a inaspettati problemi di fluidità, tanto che viene anche speculato che l’introduzione del doppio salto e l’incedere assai più ragionato rispetto ai predecessori da sala serva anche a mascherare il fatto che il processore dello SNES non riesce a gestire adeguatamente la mole grafica del gioco. Ad amplificare ulteriormente questi sospetti arriva anche la notizia che la versione europea del gioco esclude alcuni nemici da ciascun livello per evitare eccessivi rallentamenti.
Malgrado i suoi limiti, Super Ghouls’n Ghosts è probabilmente l’esponente della serie che ha avuto maggior fortuna. Per quanto non oggetto di una conversione “di massa” come i suoi predecessori, è stato portato sulle piattaforme “utili” a farsi strada fino ai giorni nostri. Dopo lo SNES fu infatti convertito prima su Game Boy Advance nel 2002 e poi su PlayStation 2 e PlayStation Portable come parte delle raccolte Capcom Classic Collection. Infine è stato recentemente incluso nientemeno che nello SNES Mini.
In questa prima puntata abbiamo ripercorso gli esordi di uno dei franchise videoludici più seminali e amati. Ghosts’n Goblins è stato un videogioco difficile e ostile, ma anche fascinoso ed evocativo, nel suo prima prendere la leggenda di Artù e poi creare un proprio Medioevo horror, da affrontare con armatura, boxer e armi da lancio. Ma dove il terzo capitolo arrivava più o meno indenne fino ai giorni nostri, il brand non aveva esaurito il suo potenziale. La saga del cavaliere in mutande Arthur aveva infatti un’ultima cartuccia da sparare, e stavolta sarebbe stata veramente memorabile. Ne parleremo nella prossima puntata, rimanete con noi!
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