Bungie e Activision, dietro le quinte di un matrimonio turbolento
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a cura di Paolo Sirio
La storia di Bungie è più unica che rara. Si tratta infatti del solo sviluppatore del suo livello ad aver lasciato non uno, ma ben due publisher delle dimensioni di Microsoft e Activision; il primo da vero e proprio studio first-party, il secondo come ‘semplice’ partner alla pubblicazione. Per un team che ai tempi di Halo veniva accostato, per qualità e per filosofia (si esce solo quando convinti di un’idea, non perché lo impongono le scadenze, come vedremo avanti), alla Naughty Dog di Sony, un percorso sì abbastanza turbolento ma anche alquanto naturale, se consideriamo che la capacità di partorire dal nulle franchise multimilionari e innovativi va per forza di cose di pari passo con la volontà di vedere idee e stimoli rispettati se non messi davanti a tutto, pure al mero ritorno commerciale.
Ma – ben inteso, siamo fan prima di tutto di chi i videogiochi li fa, e soltanto poi di chi li vende – questo percorso non è certo stato privo di ostacoli disseminati dallo stesso sviluppatore e la narrazione, facile, facilissima, che vede in Activision il lupo cattivo non è sempre corretta; per questo, ricalcando le parole di Jason Schreier di Kotaku e del responsabile marketing di Epic Games, siamo notevolmente curiosi di vedere, ora che Bungie ha salvato se stessa da Activision, chi la salverà da Destiny. O perlomeno dal Destiny ai margini dell’industria come non mai degli ultimi anni.
La prima key art inviata alla stampa nel 2013.
Il matrimonio tra Activision e Bungie risale all’ormai lontano 2010, celebratosi nell’aprile di un anno che vide lo studio di Bellevue impegnato nell’ultimo capitolo di Halo, il poetico Reach, che sarebbe uscito a settembre e cioè a firma già apposta sul contratto di collaborazione col publisher di Call of Duty.
Una situazione insolita ma che fu accolta con grande entusiasmo – si parla, tra il serio e faceto, di prima dichiarazione d’indipendenza della software house americana -, sia perché si sarebbe potuto finalmente vedere quest’ultima all’opera su un prodotto che non appartenesse alla storica serie sparatutto Xbox, sia perché finalmente la platea PlayStation avrebbe potuto trarre godimento del suo immenso talento.
In quella Bungie profondamente cambiata, trasferitasi da Chicago a Seattle per lavorare da vicino coi vertici di Redmond, Microsoft lasciò una quota di minoranza e una stima immutata, che ancora oggi porta Phil Spencer ad indicarla come “uno dei miei studi indipendenti preferiti”. Di acqua sotto i ponti ne è passata, però, e non solo non ci sono margini per un ritorno all’ovile, ma non c’è nemmeno la materia prima visto che Destiny rimane al centro della vita dello sviluppatore e continuerà a farvi crescere la sua influenza com’è stato con Fortnite ed Epic Games.
Quel matrimonio, dicevamo, ebbe fin dal primo istante qualche inusuale sussulto, ben oltre il classico dubbio con cui ci si avvicina alle nozze. Nel 2012, nell’ambito di una causa tra Activision e gli ex Infinity Ward Vince Zampella e Frank West, trapelò ancor prima del reveal del gioco il nome di Destiny e ancor più sospettosamente una programmazione cadenzata a ritmi che avrebbero sfiancato persino il Varenne dei tempi migliori. In quel contratto si parlava infatti di pubblicare: gioco, DLC, DLC, espansione, DLC, DLC, gioco, DLC, DLC, e così via, per la bellezza di dieci anni. Un contratto firmato e controfirmato da entrambe le parti in causa, certo, ma anche un ritmo che Bungie capì molto presto essere insostenibile specie per alcune sue limitazioni strutturali.
Il primo ViDoc di Destiny
Prima e forse più importante, un engine molto complicato da gestire, che per ogni minimo cambiamento richiedeva agli sviluppatore di avviare un editor addirittura la sera alla fine del proprio turno per ritrovarlo poi utilizzabile – salvo errori e complicazioni nella notte – il mattino seguente, con venti minuti necessari solo ad aprire la mappa e altri venti minuti appena di programmazione per completare il compito assegnato.
In secondo luogo, ma neppure tanto, i continui reboot dello sviluppo. Quando parlavamo di filosofia simile a quella di Naughty Dog, prendendo in prestito il commento di Cory Barlog di Santa Monica Studio, ci riferivamo a questo: loro, Rockstar Games e pochi altri studi, tra cui ci permettiamo di aggiungere Bungie, lanciano un prodotto soltanto quando sono convinti di averlo lavorato al 100% delle proprie possibilità; e se anche un’idea viene portata avanti per anni, nel caso in cui ci si accorgesse alla fine che non funziona, non ci si fa alcun problema nel cestinarla e ripartire da zero.
Magari la casa di Destiny questo processo lo ha preso un po’ troppo a cuore, ma è di certo un’indicazione di come in effetti per lei venga il fruitore prima di ogni altra cosa. Abbiamo ricostruzioni di riavvii e conseguente utilizzo un po’ dubbio del materiale a disposizione sia per Destiny che per Destiny 2, con il caso del capostipite in particolare comprovato dalla qualità insoddisfacente dei contenuti legati alla storia (e non solo) arrivati al day one del 2014, un anno dopo, peraltro, la release concordata inizialmente con l’editore.
Al tempo, il veterano Joe Staten aveva guidato un team di sceneggiatori per alcuni anni alla storia che avrebbe dovuto fungere da base al nuovo universo di Bungie. Parliamo di una delle penne chiave nella creazione della mitologia di Halo, quindi non del primo capitato, questo è sicuro.
Il video d’annuncio della versione PS4 e dei contenuti esclusivi PlayStation
Nel luglio 2013 tutto il materiale che aveva preparato fu scartato perché in una “supercut” di due ore, un lungo video con tutte le cut-scene che sarebbero state incluse nel gioco finale, non convinse il management e il fondatore, nonché game director, Jason Jones.
Nel giro di un anno, ottenuto dopo qualche contrattazione uno slittamento al settembre 2014 (mentre qualcuno all’interno pensava ancora fosse fattibile un marzo di quello stesso ’14), il titolo fu di fatto ricreato per come lo abbiamo acquistato nei negozi, con narrazione superficiale, spiegazioni sommarie e personaggi dalla dubbia utilità nella loro forma finale.
Alcune cose furono prodotte ex novo, con lo stesso Jones che si occupò della storia, della mappa hub e di altre componenti come parte di un team denominato Iron Bar (le cui idee sarebbero poi state passate al vaglio di un altro team chiamato Blacksmith, col compito di levigare quella barra di ferro al pari di un vero fabbro), ma in generale ci fu un riutilizzo di tutti gli asset che erano stati realizzati fino ad allora perché si erano già spesi milioni di dollari per prepararli e si erano accumulati diversi ritardi; chiederne ad Activision un altro che spingesse il lancio a dopo il 2014 o facesse allargare ancora il budget (con un investimento del publisher che, comprese le spese di marketing, si aggirava sui 500 milioni di dollari complessivi) sarebbe stato impensabile.
Il tempo aggiuntivo fu però speso per ripulire il gioco e sistemare particolari di non poco conto come il funzionamento degli spazi pubblici, gli incontri, il gunplay, e non principalmente per improntare una nuova storia e nuove cut-scene. Questa arrivò soltanto mesi dopo e vide il team di narrative designer, già orfano dei suoi componenti di spicco come lo stesso Staten che aveva lasciato nell’estate, messo in disparte per evitare che si perdesse ulteriore tempo sulla scrittura.
Questo spiega ad esempio come mai l’introduzione alle missioni sia così scialba nel primo Destiny mentre in realtà gli sceneggiatori originali avevano creato vere e proprie sequenze d’intermezzo di 30-45 secondi in cui i personaggi che ce le avevano affidate ce le avrebbero illustrate ‘in carne ed ossa’, giusto per citare una delle trovate che vennero tagliate (chi dice per una scarsa qualità della presentazione della supercut, chi per quella della storia stessa che sarebbe stata troppo confusa e accentratrice su un sentiero lineare, con nel mezzo pareri positivi sul lavoro svolto fin lì).
Tale aspetto, ricorderete, ebbe un impatto importante sull’accoglienza del gioco, che nel suo primo mese si assestò tra il 75 e l’80 sui principali aggregatori di recensioni – una media che, pur non essendo malvagia, non fu alta come ci si sarebbe potuti aspettare e non abbastanza da far sbloccare il bonus da $2.5 milioni pattuito tra studio e publisher.
Destiny 2 ha avuto un percorso forse meno tribolato ma comunque non privo di scossoni. Il gioco era inizialmente previsto per il 2016 ma a gennaio di quell’anno si decise si farlo slittare di dodici mesi e rimpiazzarlo con un’altra espansione “d’addio”, I Signori del Ferro. Questo non solo perché sarebbe servito altro tempo per completare il sequel, ma anche perché nel mentre c’era stato un altro reboot con una riorganizzazione dello staff al lavoro sul titolo.
Luke Smith, lead designer di D1 e game director dell’apprezzato Il Re dei Corrotti (con un passato da giornalista in Kotaku e 1UP), fu promosso a game director di D2 al posto di Jones nel tentativo di bissare il successo di quell’espansione che probabilmente diede il momento di maggiore splendore dopo l’assuefazione dei primi mesi all’intero progetto. Nonché di metterci l’ennesima pezza dopo uno o più concept bruciati perché non convincenti.
Nel rapporto con Activision, si provò a barattare un alleggerimento nel calendario delle uscite con l’introduzione delle microtransazioni; queste avrebbero dovuto compensare gli introiti di almeno uno o due DLC, che si sarebbero potuti saltare arrivando dunque ad uno schema che avrebbe alternato solo gioco principale ed espansione senza passare per altri contenuti aggiuntivi a pagamento.
In questo modo, lo sviluppatore si evitò di dover realizzare altri due add-on per il post Il Re dei Corrotti, limitandosi a I Signori del Ferro giusto per compensare l’assenza di un seguito completo nei tempi stabiliti (sarebbe arrivato poi nel 2017). Questa è probabilmente l’unica grande colpa dell’editore, che con l’assillo dell’azionariato non se la sentì di lasciare maggior respiro e margine di manovra ad uno sviluppatore che non è, chiaramente, una fabbrica da prodotto annuale in stile Call of Duty, alienandolo nel contempo agli occhi di una certa fanbase.
In ogni caso, non si può negare il suo apporto nel corso degli anni: al di là della pura finanza, parliamo di un editore che ha di fatto messo al lavoro due suoi sviluppatori, High Moon Studios e Vicarious Visions, per completare espansioni o versioni dei giochi com’è stato con quelle per le console old gen e quella per PC in seguiti, garantendo quindi una maggiore sostenibilità e autosufficienza del progetto che sarebbe altrimenti gravato per intero sulle spalle della software house. L’idea era scaricarla il più possibile da compiti ‘manuali’ e lasciarla lavorare in pace sul design dei contenuti che avrebbero dovuto arrivare per il secondo capitolo con una frequenza superiore, dopo che i lunghi silenzi del capostipite avevano irritato la pur fedelissima community.
Inoltre, escluso per un momento il fattore manovalanza, c’è stata pure una condivisione di saperi di certo non banale: nel dicembre 2014, Josh Mosqueira incontrò i vertici di Bungie per raccontare loro come avesse risollevato Diablo III di Blizzard dopo il lancio disastroso a livello strutturale e infrastrutturale, dando alcune delle dritte che avrebbero poi portato al design finale de Il Re dei Corrotti (come una minore componente casuale). Naturalmente, il progetto nome in codice Comet, in pre-produzione dal tardo 2013, fu resettato a marzo 2014 per inglobare queste dritte.
Una partnership che ha portato la bellezza di 50 milioni di giocatori su una IP nata appena (meno di) cinque anni fa, a conferma, come affermavano in apertura, che Bungie è ancora uno studio dalle mani d’oro e che col… destino nelle sue mani, potrà fare grandi cose se riuscirà ad avere un piano più preciso e concreto fin da subito riguardo ai futuri titoli della serie.
Una partnership però che, e veniamo ai giorni nostri, si è incrinata pubblicamente in una maniera insolita, cui non ci eravamo mai trovati davanti almeno in tempi recenti. A novembre 2018 arriva la (lecita) considerazione del COO di Activision Coddy Johnson riguardo al fatto che ci siano state performance sotto le aspettative, complice il fatto che, nonostante il suo progetto fosse proprio quello, Bungie non era riuscita a ri-attirare l’utenza originale con un’espansione dal deciso piglio hardcore come I Rinnegati.
La perplessità era dovuta dunque all’idea di base del prodotto: I Rinnegati, da espansione hardcore che lo sviluppatore aveva voluto fortemente per soddisfare i suoi giocatori prima che tentare di ampliare la base d’utenza com’era invece successo (senza soddisfazione) con Destiny 2, non aveva centrato l’obiettivo, almeno stando alle considerazioni su investimento e ritorno di Activision. A quel punto, perché non insistere nel tentativo di D2 di ampliare la platea di consumatori?
Qui accade qualcosa che ha pochi precedenti nell’industria: il fallo di reazione a mezzo Twitter di Bungie. Il game director Luke Smith si lascia andare ad una precisazione relativa al fatto che, contrariamente a quanto possa ritenere l’editore, lo studio vede I Rinnegati come un ritorno di successo dell’IP a ciò che l’ha resa amata da così tanti Guardiani intorno al mondo e un segnale di come si debba proseguire su quella strada per far sì che si replichino i giorni di gloria della saga. A prescindere dalle vendite, evidentemente, perché c’è la convinzione che continuando così anche queste arriveranno presto o tardi.
Una visione che, al di là dello sbugiardamento pubblico, è conclamatamente in contrasto con quella del publisher. Non sappiamo se al momento del lancio del tweet di Smith le strade stessero già cominciando a separarsi, ma di certo è quello il momento esatto in cui il rapporto tra le due parti appare irrimediabilmente compromesso. Che lo sapessero già o meno, il divorzio si era consumato. Adesso tocca a Bungie: dietro l’angolo c’è un Destiny 3 che dovrà dimostrare che la lezione è stata assimilata, fin dal primo istante in commercio, e che certi errori non saranno ripetuti ora che l’alibi dell’editore cattivo non c’è più. Per aspera ad astra.
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