Assassin’s Creed IV: Black Flag - Il Pirata dei Caraibi
Edward Kenway: pirata, Assassino o semplice scusante? Indaghiamolo cinque anni dopo l’uscita di Assassin’s Creed IV: Black Flag
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a cura di Adriano Di Medio
Redattore
A cavallo tra il 2013 e il 2014, Assassin’s Creed IV: Black Flag fece lanciare non pochi sbuffi di disapprovazione. Non tanto per la qualità, che vista la progressione tecnologica di Ubisoft e del suo motore grafico Anvil era quasi scontata, ma piuttosto perché diede conferma definitiva di come la serie sugli Assassini si fosse ormai avviata verso un estenuante ritmo di pubblicazione annuale. Ci troviamo qui cinque anni dopo: cosa è successo a Edward e cosa può ancora dirci questo “pirata dei Caraibi sotto mentite spoglie”? Seguiteci nell’Epoca d’oro della pirateria.
Nuova partita, nuova sopravvivenza
Il successo di Assassin’s Creed III (uscito a ottobre 2012) era stato mostruoso ma allo stesso tempo deludente. L’avventura di Connor dava una conclusione fin troppo “artificiosa” e “frettolosa” alle vicende di Desmond Miles. Quando poi pochi mesi dopo Ubisoft tirò fuori dal cilindro proprio Black Flag, quest’ultimo si prese addosso tutto il risentimento. Qualcosa che, ancora adesso, è triste ma anche piuttosto comprensibile: le politiche di Ubisoft erano diventate assai discutibili per molti. Ne abbiamo già abbondantemente parlato, quindi riassumeremo in una frase: nonostante fosse un videogioco profondamente differente rispetto al predecessore, molti considerarono Assassin’s Creed IV: Black Flag solo come una “copia ampliata” del terzo capitolo e le vendite ne risentirono non poco. A questo si sommò un’altra, inevitabile contingenza storica: la cross-gen. Black Flag infatti uscì nel periodo di passaggio tra settima e ottava generazione, cosa che lo portò a tentare entrambe. Come se non bastasse, a questo si aggiunse l’inevitabile paragone con un’altra IP: ci ricordiamo tutti come i tardi anni Duemila fossero stati dominati dalla prima trilogia di Pirati dei Caraibi.
Tutta una serie di paragoni e commenti che non fecero che oscurare quella che altro non era che la realtà: Black Flag è prima di tutto il monologo un po’ alticcio di un solo personaggio, Edward Kenway. Nato probabilmente dall’ennesimo tentativo da parte di Ubisoft di voler creare un “secondo Ezio Auditore”, la storia di questo gallese ambizioso ma orribilmente impulsivo viene narrata attraverso le sue scorribande piratesche e piccoli, dolorosi flashback con la moglie Caroline, che lo attende in patria. In effetti quello che prima di tutto ancora adesso traspare da Edward è come la sua irriverente prepotenza sia prima di tutto un artificio di sopravvivenza in un mondo come quello piratesco. Il suo è ancora una volta un percorso di crescita, che ci sembra meno palese rispetto a quello di Ezio solamente perché avviene in meno tempo e con un personaggio che è già uomo fatto e finito. Ma basta semplicemente rifarsi una seconda volta la storia principale per accorgersene: Edward nasce come semplice manovale d’equipaggio, afferra l’occasione e ruba un’identità, quella dell’Assassino traditore Duncan Walpole, per poi venire scoperto e risollevarsi diventando capitano del brigantino Jackdaw insieme al suo neonominato quartiermastro Adewalé. Ma pure se lo vediamo migliorare, ancora la sua “mutazione” non è completa: appare ancora troppo come un “criminaletto” rispetto agli ingombranti comprimari, di cui la quasi totalità sono figure storiche realmente esistite.
Oltre i mari cristallini
L’azione e l’esplorazione di Assassin’s Creed IV: Black Flag è stata talmente pubblicizzata, giocata e amata che non vale tanto la pena di riportarla in questa sede. Oltre alle classiche sezioni cittadine (stavolta sono tre: L’Avana, Nassau e Kingston) la maggior parte del tempo la trascorreremo a bordo della Jackdaw, governandola nell’immensa mappa dei Caraibi. Il contesto è infatti l’epoca d’oro della pirateria, dal 1715 al 1718, e Edward è uno di coloro che ha deciso di solcare questo mare di opportunità. La nave è potenziabile e presenta una versione raffinata del già grandioso sistema di guida originariamente progettato per Connor e la sua Aquila. Potremo esplorare le piccole isole, i villaggi e le rovine mesoamericane senza soluzione di continuità, lasciando in qualsiasi momento il timone per tuffarci in acqua e raggiungere a piedi il luogo. Se le sezioni al timone andavano tristemente verso l’abuso in quanto riproposte all’infinito da Ubisoft, è dalla grande sensazione di amorevole (anche se un po’ “finta”) libertà nel solcare i Caraibi che Black Flag ha avuto la sua scintilla di immortalità. Una mappa che ancora adesso esibisce bellezza nei suoi colori sgargianti e nelle tante, piccole accuratezze filologiche quali l’adozione di pronunce e scritture volutamente desuete, più evidenti nell’originale inglese. Ad esempio in questa lingua i sottotitoli addirittura seguono la vecchia regola linguistica che tutti i sostantivi vanno scritti con la lettera maiuscola, cosa oggi rimasta solo nel tedesco.
E di nuovo, questa esplorazione esasperata non fa che nascondere (in qualche modo anche colpevolmente) quello che è il cambiamento in Kenway. La sua vita “di strada” ha un primo cambiamento quando si ferma un momento a riflettere sulla natura del suo mestiere. L’ideale di “libertà” che aveva inconsapevolmente sposato insieme al concetto stesso di pirateria finisce con lo schiantarsi con la dura realtà. Che pure se animato da grandi ideali un pirata non è in grado di produrre ricchezza, ma solo di vivere arraffando quella altrui. Una cosa piuttosto drammatica, che a livello narrativo si concretizza nella rivalità tra Edward “Barbanera” Thatch e Benjamin Hornigold. Questi due comprimari sono le facce della medesima medaglia: Barbanera è il pirata “gentiluomo”, che pure se spietato ha dei principi. Ma è anche malinconico, nella sua consapevolezza di un’età che non riesce più a stargli dietro. Hornigold è invece più pragmatico, se vogliamo più “politico”, anche se questo gli fa dimenticare che, in quanto pirata, sarà sempre un reietto pure se perdonato all’unisono da tutti i sovrani d’Europa.
Bandiere, alcolici e (finte) barbe
La tragedia umana di Thatch e Hornigold si compirà così come ci ha tramandato la storia autentica, e non si tratta di qualcosa di negativo. Erano ancora i tempi in cui Assassin’s Creed si ricordava di sfruttare più intensivamente le “aree di buio della storia” per costruire la propria vicenda. Del resto specialmente qui la filologia era l’unico modo per Ubisoft per contrastare la critica di stare copiando Pirati dei Caraibi. L’ispirazione non è mai stata negata, ma col senno di poi è più facile capire che non insistere sulla componente fantasy e ucronica della vicenda di Edward trova radice dalla volontà di discostarsi dalla cinematografia. Anche perché i paragoni venivano fuori quasi di prepotenza: all’epoca di Black Flag era infatti uscito da un paio d’anni Pirati dei Caraibi: Oltre i Confini del Mare, annoverante tra gli antagonisti principali nientemeno che Barbanera e tra le ambientazioni la sua nave, la Queen Anne’s Revenge. Tra l’altro suddetto vascello è pilotabile brevemente proprio in una sequenza di gioco. Anche a voler in qualche modo tributare la saga di Ted Elliott e Terry Rossio, il personaggio di Calico Jack ha una personalità stravagante e truffaldina, del tutto simile a quella di Jack Sparrow. Del resto la bandiera che nei film è associata al personaggio interpretato da Johnny Depp (teschio con due scimitarre incrociate al posto delle tibie) è storicamente attribuita proprio a Calico Jack.
Il problema è che in Assassin’s Creed IV: Black Flag convivono talmente tante anime e intenzioni che sarebbe stato impossibile accontentarle tutte. Per questo, nonostante il titolo del gioco riporti Assassin’s Creed, la maggior parte dell’attenzione sia invece concentrata sulla componente piratesca. Nonostante gli sforzi anche sceneggiativi l’Ordine degli Assassini è presente in maniera assai più dimessa, prevalentemente nella personalità di James Kidd, in realtà una donna di nome Mary Read (altro personaggio realmente esistito, l’unica donna pirata insieme a Anne Bonny). La stessa introduzione del personaggio di Ah Tabai, Mentore mesoamericano degli Assassini, oggi come ieri risulta piuttosto marginale, sprecando un ottimo potenziale per le varie esplorazioni a tema precolombiano che il gioco sembra quasi aver paura a proporre.
Il bicchiere del commiato
L’ultima parte della storia principale di Black Flag sembra appositamente costruita per trasmettere disagio. La precaria alleanza con Bartholomew Roberts è dettata dall’avidità, e non può che frantumarsi contro l’inutile spietatezza di Black Bart. Le sequenze successive al tradimento di Black Bart sono volutamente fumose e buie, con Edward che si affoga nell’alcol e poi finisce imprigionato. Anche qui, in maniera forse troppo sottesa, avvengono altri eventi storicamente documentati dell’epoca d’oro della pirateria, come Mary Read e Anne Bonny che evitano l’impiccagione dicendo di essere incinte. La successiva liberazione da parte di un redivivo Ah Tabai non serve a nulla: Edward finisce in una spirale autodistruttiva anche a seguito della notizia della morte della moglie, il cui volerle dare una vita migliore era stata l’intenzione iniziale che l’aveva spinto a prendere il mare. Ancora una volta è Adewalé a riportarlo a galla, restituendogli il comando della Jackdaw e soprattutto dandogli una maturazione definitiva. Edward Kenway perde l’avidità come motore portante della sua condotta, capendo che le parole di Mary Read (morente per complicazioni post-partum) non sono solo idealismo.
In un certo senso, Assassin’s Creed IV: Black Flag ci fa credere una cosa ma in realtà sta affermando l’esatto opposto. La battaglia di Edward prima per la propria libertà personale e poi per l’accesso all’Osservatorio sono solo delle scusanti che egli da alla propria coscienza per non voler ammettere di stare semplicemente seguendo la propria avidità. È arrivato a comprendere l’inutilità di una simile condotta solo quando è stato troppo tardi, alla perdita di quasi tutti i legami e del suo gruppo dei pari. Solo afferrando l’autentico significato del Credo dell’Assassino egli compie l’ultimo passo della sua maturazione mentale. Simbolo di questo è il finale della storia principale, ancora adesso di inspiegabile delicatezza. Anne Bonny comincia a cantare The Parting Glass (il bicchiere del commiato), celebre ballata scozzese tradizionalmente suonata alla fine di raduni di vecchi amici. Accompagnato dalla voce di lei Edward rivede per un momento tutti i bucanieri con cui ha condiviso il viaggio, e mentre le parole scorrono raccoglie tre fiorellini e si dirige verso il porto. È nell’inspiegabile del primo incontro tra il padre e la figlia Jennifer che Edward finalmente capisce che c’è altro nella vita oltre all’oro.
In questo speciale abbiamo ripercorso, sei anni dopo, Assassin’s Creed IV: Black Flag e il viaggio nei Caraibi del suo protagonista. Un’odissea prima di tutto mentale, e solo dopo fisica. A fronte di un presente quasi velleitario e ormai sempre più incerto nel trovare una nuova via dopo Desmond, la forza di questo videogioco sta nel fatto di aver messo a disposizione tanto un’amorevole sensazione di “mondo aperto” quanto un personaggio che potesse essere nuovamente tridimensionale. Un’impresa che ancora adesso possiamo considerare come riuscita, seppure non ai livelli di Ezio. E forse in quei piccoli fiori di benvenuto che passano da padre a figlia c’è l’unica vera lezione di Assassin’s Creed IV: Black Flag, una lezione che neppure Ubisoft ha mai assimilato del tutto. Che la vera abilità nel narrare non sta nel raccontare tutto, ma sapere quando fermarsi.
Voto Recensione di Assassin’s Creed IV: Black Flag - Il Pirata dei Caraibi - Recensione
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