Ecco un altro personaggio che ha segnato, indiscutibilmente, gli ultimi anni della storia videoludica. Kratos, il Fantasma di Sparta, si incastra perfettamente nell’atmosfera mitologica ed epica che lo circonda. L’epopea di questo personaggio è un racconto che riesce a catalizzare l’attenzione del videogiocatore, poiché in essa si fondono, in modo assolutamente preciso e compatto, temi moderni e insegnamenti dell’antica mitologia omerica. La serie God of War, infatti, come i poemi omerici, racconta una battaglia, una battaglia apparentemente umana ma che, in realtà, si rivela essenzialmente divina. La hybris dei personaggi omerici è la prima caratteristica che muove le vicende del nostro protagonista, e questa sensazione di “tracotanza” non abbandona mai il videogiocatore che, quasi ipnotizzato dalla realtà delle figure che incontra, riesce a calarsi con estrema soddisfazione all’interno di un mondo in cui gli unici protagonisti sono, a tutti gli effetti, gli déi. Catalogare la storia di Kratos non è un’impresa semplice, e, probabilmente, il modo migliore, anche se non esaustivo, per definire la sua avventura è farlo attraverso la parola che costantemente riecheggia attorno alle sue vicende: Vendetta. La storia di Kratos è, a conti fatti, una storia di Vendetta. Una vendetta che, come da perfetta tradizione omerica, annebbia tutto il resto; una vendetta che esige il sacrificio di tutto ciò che è umano, una vendetta talmente agognata che per lo spartano non esiste nient’altro al di fuori di essa. E così Kratos è già un dio, è desiderio incarnato di esistenza, è hybris, è eroe omerico, e, in quanto tale, è al di là di ogni giudizio morale, né buono né cattivo, né essere né essenza, bensì soltanto esistenza.
Il Tempo degli Déi volge al termine
La storia di Kratos ha un sapore decisamente moderno. Un mondo libero dal comando divino è stata la conquista più grande del mondo moderno, quando le riflessioni di Cartesio e Hume hanno condotto Fichte e Kant ad affermare che l’uomo, con la riflessione della propria Ragione, è in grado di darsi autonomamente una legge morale. In questo senso è possibile leggere anche le vicende di Kratos che, accecato dalla vendetta, diviene il messaggero del nuovo mondo, un mondo dominato dalla speranza ritrovata e libero, finalmente, dall’egemonia degli déi. La scelta finale dello Spartano è la manifestazione più grande dello spirito moderno. La dialettica tra la mitologia e la modernità si compie e si realizza con un ultimo affondo di spada; con la hybris omerica che si sacrifica, distruggendo la vendetta ormai realizzata. Kratos, dall’inizio alla fine, è alla ricerca del “potere di uccidere un dio“, un potere che paradossalmente non può esistere finché in lui esiste solo ed esclusivamente il desiderio di vendetta; ed è così che, come un ritorno di fiamma, l’essenza dell’umano torna ad ardere nell’animo spento e consumato del nostro protagonista, che perdona se stesso, uccidendo quella vendetta che egli stesso rappresenta nella sua forma più divina, mitologica, antica. Per il videogiocatore la vendetta non poteva essere più amara, per gli sviluppatori la vendetta di Kratos non poteva compiersi in altro modo, e così diviene chiaro che il vero nemico di Kratos è sempre stato egli stesso, la sua psiche e, in essa, il suo desiderio di dimenticare ciò che non deve essere dimenticato, di redimere ciò che non può essere redento, di cancellare dalla coscienza ciò che, con dolore e sacrificio, non può che essere accettato.
In un viaggio di Vendetta
“Prima di intraprendere il viaggio della vendetta scava due fosse” affermava il grande maestro cinese Confucio. Ed in effetti per quanto Kratos sembri deciso a contraddire, con le sue gesta, questo insegnamento, i suoi sforzi risulteranno essenzialmente vani e sconfitti in un vortice di vicende che non fa altro che accrescere la consapevolezza interiore del vero significato della vendetta. Il suo impegno nel contrastare una legge reale oltre che etica, sono destinati a rimanere schiacciati dal peso della coscienza, una coscienza che, in un simile viaggio, esce svuotata da tutto ciò che è umano, perché finisce, inesorabilmente, per essere divorata dal sentimento della vendetta definitiva. E così la seconda fossa è quella della della coscienza, quella interiore della riflessione e dello spirito, che non prova nient’altro al di fuori del desiderio di vendetta. Pertanto, ancora una volta, con grande forza e violenza, gli sviluppatori pongono, dinanzi al videogiocatore, un insegnamento che fonde assieme l’antico e il moderno, superando ogni epoca e destinato a restare sempre attuale e presente, e innalzando la figura di Kratos all’interno dell’olimpo videoludico, quell’olimpo che non appartiene agli déi, bensì ai grandi personaggi che hanno segnato, indiscutibilmente e con grande ardore, un piccolo pezzo di storia.
Le vicende dello Spartano si tingono, quindi, di metafore e segni che spingono, il videogiocatore attento, verso una profonda riflessione sul significato intrinseco e realmente consapevole della frase di Confucio. La vendetta è un nemico subdolo, che colpisce l’animo umano; un nemico che, forse, nemmeno Kratos era pronto ad affrontare.
Il Distruttore di Mondi
Esiste un punto incredibilmente anacronistico all’interno della narrazione di God of War. Talmente anacronistico da non essere un caso, o una distrazione degli sviluppatori. Un sincero anacronismo che deve, necessariamente, racchiudere un significato. Questo paradossale punto della narrazione lo si trova in God of War: Ghosts of Sparta, quando l’identità rivelata di Zeus afferma che Kratos è, ormai, “Morte, il distruttore di mondi“. La frase è comunemente ricondotta ad Oppenheimer in riferimento alla distruzione operata dalle armi nucleari, eppure, in realtà, essa ha origine nel testo sacro dell’induismo, la Bhagavadgita; un testo che, con ogni probabilità, risale al III secolo a. C., troppo tardi per essere proferita da Zeus in un periodo che è riconducibile sicuramente a “qualche” secolo prima; ma al di là dell’aspetto cronologico, attorno al quale non esiste un’assoluta certezza, bisogna ammettere che è davvero improbabile che la cultura greca si entrata in possesso, in periodi così antichi, della sapienza contenuta all’interno di tale testo. E non è un caso che attorno alla frase riecheggi la metafora della tomba, con Zeus che, sotto le mentite spoglie del becchino, scava la fossa destinata ad ospitare Deimos, fratello di Kratos, morto durante la lotta con Thanatos. Quella di Zeus è una frase che racchiude un significato profondo; essa è una sorta di previsione sul destino di Kratos e dell’olimpo, una previsione, anacronistica, sul fatto che Kratos, ormai, è destinato a far sopraggiungere un nuovo mondo. Un anacronismo, a parere di chi scrive, volto a sottolineare l’importanza di un passaggio cruciale, volto a catalizzare l’attenzione del videogiocatore che conosce il vero significato, e, soprattutto, la vera origine di quella frase. Una frase che nasce in un testo in cui Krishna, incarnazione di Dio, mostra le tecniche per superare il ciclo delle nascite e morti, ottenendo la definitiva liberazione da esso. Un testo complesso e difficile, la Bhagavadgita, e una frase che non poteva essere più appropriata per Kratos che, nella distruzione di un mondo, non si è ancora reso conto che deve prima liberare se stesso, poiché nella vendetta, nella sua vendetta, non esiste pace, non esiste vittoria, non esiste fine.
La mia passione per l’antichità e per la mitologia, sin da subito, mi ha fatto amare la saga di God of War. Kratos è un personaggio che riecheggia in ogni storia di vendetta, dal Conte di Montecristo a I Pilastri della Terra. La hybris che caratterizza questo personaggio ci spinge a trarre delle riflessioni sulle sue vicende, ricavandone un insegnamento diretto, senza tuttavia il bisogno o l’intenzione di immedesimarsi; accade lo stesso con Achille, Ettore, Ulisse, Menelao, Priamo e tutti gli altri. Eroi di un tempo in cui le gesta “eroiche” erano quelle dello spirito, uno spirito che si può contemplare, ma non imitare.
“Breve corso a te pur resta di vita: già t’incalza la Parca, e tu cadrai sotto la destra dell’invitto Achille” (Patroclo ad Ettore – Iliade)