Anche questa settimana si rinnova l’appuntamento con la rubrica Vite in Gioco. Il personaggio scelto è, ancora una volta, un personaggio sia videoludico sia letterario. La “vita” sulla quale questa settimana si cercherà di riflettere è, infatti, quella di Geralt di Rivia, protagonista dei romanzi fantasy di Andrzej Sapkowski e dei videogiochi, prodotti da CD Project RED, ad essi ispirati. The Witcher uscì il 26 ottobre del 2007 e fu un successo straordinario, che fece conoscere la splendida figura di Geralt a tutto il mondo. Nel 2011 uscì The Witcher 2: Assassins of Kings, titolo che circa un anno dopo uscì anche in versione Xbox 360. La figura di Geralt presenta, a dire il vero, una serie di tòpoi abbastanza classici: la guerra, l’emarginazione, le maghe, l’amore conflittuale, eppure è un personaggio che riesce ugualmente, con grande facilità, a restare impresso tanto al lettore quanto al videogiocatore. Un cacciatore di mostri solitario che, a conti fatti, non è così privo di sentimenti come potrebbe sembrare. Già, perché Geralt è un mostro, un mutante…uno strigo. Una parola che designa la realtà, ma nell’universo in cui ci si cala essa è usata, quasi sempre, in tono assolutamente dispregiativo e mai come una semplice designazione di essenza reale. Ed ecco, quindi, che dinanzi al videogiocatore profondo si dipana la prima grande domanda che l’avventura di Geralt sottende, ma non nasconde: cosa significa, in realtà, essere umani? Si può essere uno strigo senza perdere la propria umanità?
Umano o non umano, questo è il problemaIn effetti è proprio questa la parola che più fa riflettere; “Umanità” è, all’interno dell’universo che circonda Geralt, una parola quasi incomprensibile, pericolosa, a tratti vaga e decisamente abusata. Tuttavia, esiste un piccolo, ma decisivo dettaglio, una presa di coscienza che restituisce, al videogiocatore profondo, una piena comprensione della vita di Geralt e del suo significato. Già, perché al di là degli aspetti eminentemente semantici, esiste una consapevolezza che riesce a trascendere, in un modo semplice e nuovo, l’aspetto esclusivamente videoludico, un insegnamento che trascende la finzione dello schermo, e delle pagine di un libro, per giungere in tutta la sua profondità all’interno del nostro mondo, reale, percepibile, assoluto: se la “Prova delle Erbe” decide su chi può veramente essere definito uno strigo, su chi “diviene” uno strigo, allora non possiamo far altro che renderci conto del fatto che, in fin dei conti, è la “Prova della Vita” che decide su chi può veramente essere definito un essere umano, su chi “è” umano. Questo è, a mio avviso, il messaggio più importante che le avventure di Geralt trasmettono al videogiocatore. Una comprensione di ciò che è, per essenza, umano; poiché se umane sono le guerre e gli intrighi dei politici, allora Geralt di Rivia non è affatto umano, ma se essere umano significa combattere per una vita migliore, per un mondo al di là di ogni giudizio, per un amore più sano e profondo, allora Geralt è umano e, nello stesso tempo, uno strigo, un “mostro”, un mutante. Questo è il significato della prova della vita, una prova che videogiocatore è chiamato ad affrontare assieme al Lupo Bianco, prendendo parte attiva alle sue gesta, alle sue battaglie, alle sue ricerche e, in una parola, alla sua vita. Queste riflessioni, tuttavia, conducono il pensiero verso le loro dirette conseguenze, come un teorema, esige i suoi corollari; sarebbe davvero un peccato non spingere oltre la nostra riflessione, poiché Geralt di Rivia ha ancora una cosa da dire, egli è ancora portatore di una profonda, e nello stesso tempo, terrificante verità. Forse è proprio per tale motivo che Geralt ci affascina e ci fa riflettere, egli è umano, troppo umano per restare confinato nell’immaginazione e nella finzione.
Una vita, un’idea “Quanto vale Gerusalemme?” – chiede Baliano di Ibelin.“Niente…” – risponde Salah Al-Din – “Tutto.”
Una bellissima scena, che molti di voi sicuramente ricorderanno, carica di significato, tratta dall’epico film del 2005 diretto da Ridley Scott, Le Crociate: Kingdom of Heaven. Un film in cui le differenze ricoprono il medesimo ruolo, e il medesimo significato, che le diversità ricoprono nel mondo attorno a Geralt; esse sono vane, aleatorie, profonde ma nello stesso tempo sottili, eppure dividono, lacerano, alienano con l’impeto di un fiume in piena. Le guerre intestine tra gli uomini, la guerra con Nilfgaard, i sogni e gli ideali degli Scoia’tael non sono altro che la somma rappresentazione di quella fitta coltre di nebbia che impedisce, a chi vi è immerso, di comprendere che, in fondo, uno strigo non è molto diverso da un elfo o da un nano; una nebbia talmente radicata da rendere impossibile vedere chiaramente che, in alcune circostanze, un uomo non è poi tanto diverso da un drowner.La vita di Geralt è, in effetti, come una grande Gerusalemme; il suo spirito è come un’immensa ed eterna crociata. Geralt è tutto, Geralt è niente. Un po’ mago un po’ guerriero, un po’ gatto un po’ serpente, un po’ umano un po’ mostro, un po’ oppressore un po’ oppresso, questo è Geralt di Rivia. Il viaggio di Geralt ha il pregio dell’intelligibilità; l’idea di non schierarsi, di rimanere neutrale all’interno dei bagliori della storia e di non lasciarsi coinvolgere nelle guerre dei politici è assolutamente comprensibile, quasi condivisibile. Il destino ha voluto che Geralt fosse al di là di ogni divisione e, allo stesso tempo, in ogni possibile differenziazione. Egli fa parte di ogni schieramento, e di nessuno. Ma la vita, e la società, esigono sempre un prezzo, anche da colui che per essenza è privo di ogni appartenenza: il sacrificio del sé, per la nascita del noi. Solo con questo sacrificio si compirà, finalmente, la sua esistenza, fiera, consapevole, salda; solo allora la sua essenza diventerà il suo essere, il suo esistere, il suo “vivere”, poiché, in fin dei conti, la spada del destino ha due lame, una sei tu…La figura di Geralt porta, in se stessa, un mondo intero. Egli ci ricorda, con il suo peregrinare e il suo combattere, che, a conti fatti, ciò che divide è anche ciò che unisce. Ci rammenta che giusto e sbagliato sono canoni troppo ristretti per racchiudervi ogni esistenza, e che nessuno di noi possiede il diritto di giudicare a-priori la moralità, e i diritti, di un uomo. Il viaggio che il videogiocatore è chiamato a compiere, assieme a Geralt, è come un quadro surrealista: ci ricorda, con l’evidenza della chiarezza, che il nostro mondo, forse, è davvero strano.
Il viaggio di Geralt è pertanto un viaggio profondo, che affascina e fa riflettere il videogiocatore attento e capace di cogliere queste piccole sfumature, semplici chiaroscuri che restano sullo sfondo dell’avventura pur rimanendo sempre nitidi e percepibili. Ancora una volta, come di consueto, chiudo il mio articolo con una frase che rappresenta uno sguardo generale sulle riflessioni effettuate:
“In natura non esistono linee rette” (A. Gaudì)