Spaziogames Top 10: Le serie che rivorremmo

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a cura di Domenico Musicò

Deputy Editor

In questo secondo appuntamento dedicato alla nostra Top 10, abbiamo deciso di stilare una lista delle serie del passato di cui ci auspichiamo un dignitoso ritorno. Non si tratta dunque di desiderare reboot, discutibili rivisitazioni o furbe operazioni nostalgiche contro cui spesso ci siamo scagliati su queste pagine; ma di fare una classifica di quelli che a nostro avviso sono i franchise che non hanno meritato di essere stati accantonati – forse definitivamente. Di serie grandiose abbandonate da lungo tempo ce ne sono davvero parecchie, molte delle quali hanno influenzato prepotentemente le opere del presente; tuttavia, nonostante nella lista ci siano nomi importantissimi e ben noti, abbiamo ritenuto opportuno inserirne altri meno in voga ma altrettanto meritevoli di attenzione. In questa top 10, che come sempre non numerata, non rientrano ovviamente i giochi singoli di cui vorremmo un seguito, ma solo quelle che possono effettivamente essere considerate delle serie vere e proprie che meriterebbero di proseguire la loro esistenza.
Tombi!
Dopo l’immortale Ghost ‘n Goblins, l’illuminato Tokuro Fujiwara creò anche Tombi!, serie che si dovette fermare al secondo capitolo nonostante gli ottimi pareri della critica e un successo di pubblico più che buono. Si trattava fondamentalmente di un platform a scorrimento orizzontale, ma tra i suoi punti di forza c’era anche l’inserimento di alcuni misurati elementi da GdR che ne arricchivano la struttura e la varietà. Oltre alle numerose quest secondarie da superare, il selvaggio ragazzo dai capelli rosa poteva avvantaggiarsi di un sistema di esperienza non troppo complesso ma certamente efficace, capace di creare dinamiche di gioco differenti da quelle che si vedono solitamente – e ancora tutt’oggi – nei platform classici. Se non era un perfetto esempio di ibridazione riuscita tra generi, poco ci mancava; e oltretutto, il carisma del protagonista, la divertente assurdità della storia e una caratterizzazione del mondo di gioco davvero fuori dagli schemi hanno contribuito a fare di Tombi! un franchise che avrebbe bisogno di almeno un’altra apparizione.
Chrono Trigger/Chrono Cross
Considerato da molti – e non a torto – il miglior jrpg di sempre, Chrono Trigger era uno dei giochi più innovativi e curati dell’era SNES. 
Oltre a presentare una trama affascinante e complessa basata sui viaggi nel tempo, era anche uno dei primi esperimenti che prevedeva l’influenzabilità degli eventi a seconda delle scelte adottate. Creato da un vero e proprio dream team costituito da figure del calibro di Sakaguchi, Uematsu, Toriyama e altre personalità che nel tempo hanno rafforzato lo zoccolo duro delle produzioni nipponiche, Chrono Trigger presentava tra l’altro alcune ottime innovazioni e varianti al sistema di combattimento classico. 
Chrono Cross, seguito spirituale apparso su PSOne, nonostante non vantasse la presenza dello stesso gruppo di persone al lavoro sul progetto, non era di certo da meno. La tematica principale era incentrata sulla presenza dei mondi paralleli e sulla coesistenza di una realtà alternativa dove era il passato a dover essere scoperto e riportato a galla dal protagonista e dalla nutrita schiera di comprimari. Anche per questo gioco arrivarono valutazioni altissime e vendite che superarono abbondantemente il milione e mezzo di copie; ciononostante, Squaresoft abbandonò una serie che, se sviluppata a dovere, avrebbe potuto superare per importanza e fascino persino i vecchi Final Fantasy. Square Enix dovrebbe riflettere seriamente sulle proprie priorità.
Shinobi
Contro la restaurazione di quelle che furono le istituzioni del Giappone feudale si batteva il ninja Joe Musashi, che dal 1987 fino ad arrivare con fortune alterne al 2011 è passato attraverso intere generazioni di console. I più importanti e rappresentativi titoli della serie furono quelli approdati su Sega Master Sistem e su Mega Drive, che presentavano il ritmo di gioco più compassato rispetto ad altri titoli dedicati ai ninja. Gli scenari scorrevano orizzontalmente e ci si spostava solitamente lungo due piani disposti orizzontalmente, stando sempre molto attenti a non essere troppo avventati e a scegliere il giusto tempismo tra attacchi e salti in grado di evitare le azioni nemiche. Su PS2 arrivò il primo episodio 3D della saga con un altro protagonista, Hotsuma, abbigliato con una sgargiante e lunghissima sciarpa rossa. Il nuovo eroe dovette saltare l’appuntamento con Dreamcast per via del fallimento della console, ma visti i risultati leggermente inferiori alle aspettative, nessuno ne fece un dramma.Shinobi è sempre stato un gioco abbastanza difficile e decisamente più ragionato di un qualunque Ninja Gaiden: Sega dovrebbe tenerlo bene a mente e piazzare un capitolo che possa onorare il suo glorioso passato, senza cedere a folli sperimentazioni.
Crash Bandicoot
Se oggi Naughty Dog è tra le più importanti e apprezzate software house al mondo, il merito è anche di Crash Bandicoot, universalmente riconosciuto come uno tra i massimi esponenti del periodo d’oro dei platform dell’era PSOne. Dopo tre capitoli che miglioravano di episodio in episodio, e quel Crash Team Racing dalla rigiocabilità infinita, la serie è passata da uno studio all’altro come se fosse un pacco di cui man mano ci si voleva liberare. La decadenza dopo l’abbandono di chi gli ha dato i natali è stata lenta e inesorabile, così come sempre più imbarazzante è diventata la qualità dei giochi, ormai solo uno sbiaditissimo ricordo di ciò che fu la prima e indimenticabile trilogia. Con Naughty Dog sempre più impegnata in progetti enormi, e con la licenza ancora saldamente in mano a una Activision completamente presa da ben altre priorità, l’unica speranza di rivedere un dignitoso ritorno di Crash è legata a un rilancio in grande stile davvero improbabile, o all’ennesimo passaggio di consegne a un team che merita sul serio di poter rimettere mano alla serie.
Forbidden Siren
Il creatore di Silent Hill – Keiichiro Toyama – dopo lo smantellamento del Silent Team venne assoldato da Sony, che gli chiese di creare un nuovo incubo in esclusiva per PlayStation 2. Il risultato fu Forbidden Siren, uno degli horror più difficili e terrorizzanti di sempre, un survival dall’atmosfera malatissima e terribile, che permetteva ai diversi protagonisti di “sintonizzarsi” con le creature per vedere attraverso i loro occhi e capire in che modo muoversi. C’erano delle mappe; ma la posizione, realisticamente, non veniva mai indicata: toccava al giocatore orientarsi, correndo il rischio di vedere se stesso, inerme, mentre veniva aggredito dagli Shibito.
La serie, che vanta un secondo capitolo molto più rifinito ed elaborato, e una riedizione riveduta del capostipite su PS3, chiamata Blood Curse, era in realtà una commistione tra horror e stealth ben riuscita. Essere visti da un non morto significava praticamente essere uccisi, e scappare altrove per liberarsi dalla minaccia era ancora peggio. Tutto ciò, aumentava esponenzialmente il livello d’ansia già altissimo, rendendolo a tratti insopportabile. 
Keiichiro Toyama, dopo Forbidden Siren, ha lavorato a Gravity Rush e attualmente è impegnato nello sviluppo del suo seguito. Visto che il maestro dell’orrore è ancora sotto l’ala protettrice di Sony, la possibilità di un ritorno in grande stile non è affatto da escludere.
Tenchu
Se pensate ai ninja come a dei supereroi in grado di sbaragliare chiunque con fantasiose arti magiche e una potenza sovrumana, anziché a delle silenziose spie al soldo del governo per combattere la corruzione, allora non avete avuto il piacere di conoscere Tenchu. Il gameplay di questa sottovalutata serie ruotava tutto attorno allo stealth puro e alla sapiente scelta dell’equipaggiamento all’inizio di ogni missione. Bisognava spostarsi tra tetti, giardini e palazzi tipici del Giappone feudale del sedicesimo secolo, avendo a disposizione un radar del tutto simile a quello visto in Metal Gear Solid. Le missioni consistevano nel portare in salvo ostaggi, giustiziare funzionari corrotti, ed epurare il paese dal male, mentre sullo sfondo si dipanavano le vicende legate ai Signori locali e ai ninja rivali. Dal 1998 al 2009 uscirono ben nove capitoli della serie, non tutti di certo memorabili. La licenza passò da Sony ad Activision, ed entrò infine in possesso di From Software, che ne detiene ancora i diritti. Tenchu Z era infatti molto più oscuro rispetto alle precedenti iterazioni, ma in questo momento la software house nipponica si sta dedicando corpo e anima a Bloodborne e non ha attualmente le risorse umane per rimettersi al lavoro sul franchise. Su ciò che accadrà dopo, c’è ancora un grosso punto interrogativo, ma la speranza di rivedere il profondo tatticismo della serie, rivisitato per l’occasione, è una speranza che non ci ha ancora abbandonato.
MediEvil
Sir Daniel Fortesque e il regno di Gallowmere ci mancano davvero tanto, così come quell’horror-comedy che ha fatto la fortuna di questa mai troppo osannata serie. Non è un segreto che il suo creatore sia stato fortemente ispirato da Nightmare Before Christmas di Tim Burton, al punto che chiese ai compositori di registrare delle musiche che fossero molto vicine allo stile tipico di Danny Elfman. 
Dal punto di vista del sistema di gioco, MediEvil sapeva bene come ricompensare i giocatori più esigenti, dando loro la possibilità di sbloccare nuove armi una volta riempito un calice presente in ogni livello con un numero sufficiente di anime. Ottenere tutti i calici, poi, sbloccava il vero finale, a dimostrazione del fatto che dietro la patina da gioco divertente e scanzonato c’era anche un buon livello di sfida. 
Il carisma del protagonista era unico, così come le sue abilità, tra cui staccarsi un braccio per combattere corpo a corpo o mettere la propria testa su una mano per infilarsi in pertugi ed esplorare zone altrimenti irraggiungibili.
Cambridge Studio, che ha dato i natali a MediEvil, è stato ristrutturato da Sony nel 2013 ed è diventato ufficialmente Guerrilla Cambridge, software house satellite che si è occupata dello sparatutto su PS Vita. Se non da loro, vedremmo molto bene un terzo capitolo sviluppato dal talentuoso Japan Studio, che negli anni si è dimostrato in grado di sfornare titoli dal grande valore artistico senza far sperperare a Sony enormi budget.
Dino Crisis
Tra i capolavori che Capcom un tempo era in grado di creare, c’era anche il bellissimo Dino Crisis, un survival horror classico coi dinosauri con una struttura di gioco del tutto simile a quella di Resident Evil. Dietro la serie c’era ancora una volta Shinji Mikami e tutto il suo team al completo, pertanto non stupisce che la qualità del titolo di debutto sia stata di gran lunga superiore a tutto ciò che arrivò poco dopo. Dino Crisis 2 era molto più improntato sull’azione e aveva degli elementi che stimolavano il giocatore e far fuori il maggior numero di nemici, che in alcun aree continuavano a venire fuori senza dare un attimo di respiro. Qualcosa stava definitivamente cambiando, la sensazione di panico e l’atmosfera del primo episodio avevano lasciato il posto a molto più dinamismo, e la deriva action cominciava a serpeggiare malignamente; tuttavia, la prova di Capcom si dimostrò ancora una volta grandiosa e il secondo episodio venne riconosciuto come un valido esponente della serie. Dino Crisis 3 esasperò ulteriormente la formula di gioco, accompagnando alle disastrose scelte di game design dei valori produttivi veramente sotto la media: il risultato fu un fallimento su tutta la linea, un titolo che col capolavoro del 1999 non aveva più nulla a che fare. I dinosauri si era estinti sul serio, e vennero cancellati dalla faccia della Terra da Dino Stalker, uno sparatutto in prima persona che nel 2002 si presentò nell’insolita veste di spin-off della serie. Fu una catastrofe totale, su cui è meglio non spendere nemmeno mezza parola. Desideriamo fortemente un ritorno di Dino Crisis, ma visto quanti danni di immagine Capcom sta facendo alle sue serie, e in cosa ha trasformato Resident Evil, forse sarebbe meglio mantenere vivo il ricordo di un passato che non tornerà mai più.
Shenmue
Se c’è stato un gioco-simbolo capace di esprimere tutto ciò che Dreamcast era in grado di offrire all’epoca, questo è indubbiamente Shenmue. Quando arrivò all’inizio del nuovo millennio, la serie creata dal leggendario Yu Suzuki introdusse per la prima volta quella che può essere definita a tutti gli effetti un’avventura dinamica. L’opera seminale di Sega, apripista dei videogiochi moderni come siamo abituati a conoscerli oggi, permetteva al giocatore di gestire il proprio modo di giocare e contribuiva a immergerlo completamente negli ambienti attraverso la grande libertà del sistema di avanzamento. Si tratta anche del primo gioco del genere ad aver adottato i QTE, un combattimento libero affinato al punto da somigliare a quello di un picchiaduro, e un sistema elaborato per riprodurre le condizioni atmosferiche. Oltretutto, la serie era arricchita da diversi mini-giochi e da un sostrato culturale e sociale che metteva in luce il cambiamento dei giovani giapponesi di fine anni ’80, che cominciavano a rifiutare le tradizioni in favore di una stile di vita incentrato sull’importanza del piacere personale. Tema, questo, su cui l’autore si è voluto imporre per plasmare la propria opera. Il secondo capitolo si concludeva facendo capire che la serie avrebbe avuto ben presto un seguito, ma la verità è che Shenmue è ormai un franchise estinto. 
Nonostante non sia nostra intenzione creare false speranze, va detto che il creatore si è detto interessato a prendere in considerazione l’idea di un seguito, qualora si venissero a creare tutte le condizioni necessarie. Shenmue 3 è da sempre stato richiesto a gran voce, ma finora, ogni desiderio si è perso nel vuoto.
Half-Life
Chiudiamo la nostra top 10 delle serie che rivorremmo con una menzione doverosa: il ritorno di Half- Life, richiesto all’unanimità da milioni di videogiocatori di tutto il mondo. L’importanza della saga è stata semplicemente inestimabile per l’intero settore, così come la tecnologia su cui è basato il suo sviluppo. Il Source Engine era una scatola delle meraviglie, il middleware havok ha permesso un livello di realismo delle collisioni e dei movimenti molto più rifinito, e la fisica teneva conto della composizione degli oggetti e della loro differente massa, così da dare al giocatore una controparte del mondo virtuale pressoché identico a quello della vita reale. Il gameplay veniva dunque pesantemente condizionato da questi algoritmi complessi, e Valve approfittò della grandiosa innovazione grazie a un’intuizione davvero geniale: l’introduzione della gravity-gun, capace di attirare a sé oggetti di diverso tipo e spararli anche a grande distanza; elemento, questo, che cambiò per sempre il modo di intendere l’interazione con gli ambienti di gioco. Ma Half-Life non è stato “solo” questo. Si è trattato anche di uno dei migliori esempi in assoluto di narrativa complessa, frutto di un’ambizione estrema, capace di includere al suo interno con grande naturalezza personaggi con una propria personalità, la narrativa ambientale, testi e sottotesti che toccano diverse tematiche importanti, un fascino spropositato e una cura per i dettagli semplicemente encomiabile. Half-Life 3, paradossalmente, è tra tutte quelle elencate la serie che ha maggiori possibilità di ritornare. Il problema, però, è la mancanza di volontà nel voler esaudire questa richiesta, come se davvero ci fosse una sorta di regola non scritta che impedisce a Valve di concludere una trilogia.
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