Dopo il suo licenziamento, Sam Bowen e la sua famiglia si trasferiscono in periferia in una casa infestata da forze maligne. Quando le apparizioni iniziano ad essere sempre più frequenti, la figlia più piccola, Madison, viene rapita e la famiglia è costretta a cercare di salvarla prima che scompaia per sempre.
Ed è così che la famiglia Freelings del film del 1982 viene sostituita dalla famiglia Bowen, costretta a lasciare la propria città natale a causa del licenziamento del pater familias (con tutti i risvolti sull’attuale crisi economica del caso); il tubo catodico, emblema del Poltergeist originale – e veicolo attraverso cui si manifestano le inquietanti presenze, una sottile critica dell’epoca alla “diabolicità” insita nel medium tv agli inizi degli anni Ottanta – si frantuma in una molteplicità di schermi, simboli della società contemporanea (smartphone, tablet, cellulari e TV al plasma) e oggi percepiti, guarda caso, come “il male assoluto” e qui finestra attraverso cui le anime dannate dell’aldilà catturano le “anime pure”; la medium della pellicola originale viene qui sostituita da un bizzarro presentatore di un reality show dedicato ai fantasmi. Insomma, Kenan gioca, rielabora, si diletta con alcune novità – in primis la simpatica trovata del drone per farci scorgere il mondo dell’aldilà – per fare suo il più possibile il film di Tobe Hooper. Ma la domanda è a monte: è riuscito in questa eroica impresa?
Sebbene il nuovo Poltergeist scorra in modo fluido e costruisca un buon climax all’interno dell’iter narrativo, questo risente tuttavia del peso dell’opera originale. Seppur il cast giochi un ruolo importante nella costruzione della tensione che si respira nel film (e in parte, ci riesce piuttosto bene, a partire dalla piccola Madison, aka Kennedi Clements, e dall’ottimo Jared Harris, qui nei panni di un sedicente cacciatore di spiriti), la rivisitazione curata da Kenan manca tuttavia di quel fattore X che gli permetta di compiere un salto, a partire dall’impossibilità per lo spettatore di creare una certa empatia con i personaggi qui raccontati. E se dalla sua il film evita beatamente la pratica atroce e inutile dei jump scare – un aspetto che abbiamo apprezzato – il nuovo Poltergeist manca di quell’effetto tensivo che tanto ci aveva fatto amare la pellicola originale, riducendosi in realtà ad una versione più hollywoodiana e ad alto budget di un episodio allungato e diluito della nota mini-serie Piccoli brividi, che noi bambini degli anni Ottanta ricordiamo bene.
Da un punto di vista registico, anche qui Kenan – forse troppo impegnato a non deludere e a non spiazzare eccessivamente i fan del film del 1982, riscrivendo frame dopo frame alcune sequenze cult dell’originale – non ha compiuto scelte che fanno gridare al miracolo, ma anzi ha ridotto il tutto ad un puro esercizio “scolastico”. Seppur abbiamo apprezzato la scelta stilistica del drone – forse una delle poche trovate originali e innovative da un punto di vista registico rispetto al suo predecessore – la novità di questo Poltergeist si riduce essenzialmente a questo, e ad alcune poche altre novità per adattare la pellicola ai ruggenti anni 10 del Terzo Millennio.Poltergeist è l’esempio lampante che la pratica del remake è un’irriducibile arma a doppio taglio. Se da un lato obbliga il (malcapitato) regista designato ad avere reverenzialità e ad omaggiare l’opera originale per non scatenare orde furenti di appassionati, e di fatto limita il suo lavoro a poche piccole innovazioni (spesso un po’ superficiali, come in questo caso), dall’altro il rischio di non essere mai all’altezza del suo predecessore è costantemente in agguato. E sfortunatamente l’opera di Kenan, per quanto nel complesso godibile, ricade in quella categoria dei remake riusciti a metà, che non possono fare altro che soccombere al suo predecessore.