Negli anni ’80 Sam Brenner, Will Cooper, Ludlow Lamonsoff e Eddie “The Fire Blaster” Plant erano ragazzi che, nelle sale giochi, salvavano il mondo, migliaia di volte, a 25 centesimi a partita. A distanza di 30 anni, Brenner viene chiamato dal Presidente Will Cooper per salvare il mondo da una misteriosa minaccia aliena, che attacca il Pianeta Terra sotto le sembianze di videogiochi anni Ottanta.
Dopo aver fatto da tappezzeria nel corso degli ultimi 30 anni – quasi defilata o raccontata al cinema con quel piglio quasi compassionevole o, ancora peggio, con trasposizioni sul grande schermo di noti franchise, molto spesso con risultati di dubbio gusto – la generazione dei videogiocatori e il mondo del gaming in generale hanno iniziato finalmente ad attirare le attenzioni di Hollywood. E se Ralph Spaccatutto ha fatto da apripista puntando su uno sguardo innovativo nei confronti del tema, Pixels di Chris Columbus – ispirato ad un omonimo corto animato del 2010, diretto dal regista Patrick Jean – tenta a modo suo di riabilitare quel mondo, un tempo popolato solo da nerd reietti della società (qui dipinti come eroi in grado di salvare il mondo), e di guardare al medium videoludico non più come strumento del male o di pochi eletti, ma come forma di intrattenimento a tutto tondo, che oramai è entrato a far parte della società contemporanea.
Attraverso la divertente interpretazione di un quartetto esilarante (Adam Sandler, Kevin James, Josh Gad e Peter Dinklage), la nuova pellicola di Columbus usa il morbido e appetibile linguaggio della commedia, strizzando l’occhio ai tanti giocatori che hanno consumato paghette di Natale e Pasqua in fila ai cabinati nei bar sulla spiaggia, nel tentativo di battere il record a Galaga o a Pac-Man. Un film, Pixels, che fa leva sui ricordi di chi è nato e/o è cresciuto negli anni in cui quella nuova forma di intrattenimento – oggi considerata da tutti noi una nuova forma d’arte – aveva iniziato a muovere i primi passi, risultando uno spassoso amarcord, con tante gustose citazioni che non mancano di strappare qualche lacrimuccia a chi quei giochi li ha consumati fino allo sfinimento.
Perché, va detto: la forza di Pixels risiede esclusivamente nelle tante citazioni, nei cameo (uno tra tutti, quello di Tohru Iwatani, creatore di Pac-Man), nelle battute nerdeggianti e nei tanti riferimenti che la pellicola inanella uno dietro l’altro, con il solo e unico scopo di strappare qualche risata (e ce ne saranno parecchie, a dire il vero) e far sì che gli ex nerd di una volta si girino a guardarsi e ad annuire divertiti. Ma l’operazione finisce qui: se da un lato Pixels, come dicevamo, può vantare un buon ritmo, dato certamente dalla mitragliata di battute offerte, in primis, dal sempre eccezionale Peter Dinklage (il cui personaggio sembra senza dubbio ispirarsi al controverso Mr. Awesome aka Roy Shilt, ex campione di Missle Command negli anni Ottanta), dall’altra si consuma e si perde in una trama piuttosto sempliciotta e banale, che fatica e arranca dietro il mirabolante uso degli effetti speciali. Se è vero che Pixels in qualche modo segna la “rivincita dei nerd”, dall’altra siamo convinti che il cinema abbia ancora qualcosa da imparare su questo mondo così complesso.
Lo stesso Chris Columbus – volontariamente o involontariamente, non lo sappiamo – in qualche modo cerca di mettere in luce questo aspetto, sfruttando una sequenza davvero interessante (forse l’unica un po’ più profonda all’interno della pellicola, ma che in realtà si rivela anche la proverbiale chiave di Volta del film), in cui Sam Brenner (Adam Sandler) – vedendo il figlio di Vanessa van Patten ( Michelle Monaghan) giocare a The Last of Us – lo reguardisce, affermando che il titolo è troppo violento per la sua età, a cui, però, il bambino risponde dicendo che – rispetto ai giochi “piatti” a cui lo stesso Brenner giocava quando aveva la sua età – i videogiochi moderni permettono di immedesimarsi in quei personaggi. Tralasciando la giusta osservazione sul PEGI, in realtà questa sequenza – seppur all’apparenza molto semplice – ci mette di fronte ad una questione davvero importante: al fatto che il videogioco, proprio come qualsiasi forma d’arte, ha visto una sua evoluzione, ma a cui il cinema – vuoi per vecchitudine – non riesce ancora a starci dietro perché ancora legata ai cliché che circondano il medium. E invece, nel corso di appena un trentennio, il videogioco è passato dall’essere un prodotto di pochi, con schemi molto semplici e di cui era possibile – in qualche modo – “controllare” il sistema, a prodotto diversificato, aperto a pubblici molteplici, ma che al tempo stesso ha avuto occasione di approfondirsi, di evolversi, di farsi via via sempre più complesso. Due generazioni di videogiocatori a confronto, senza che tuttavia nessuna sia migliore dell’altra, ma solo la naturale evoluzione di uno status.
Peccato che l’unica riflessione davvero interessante e degna di nota dell’intero film si diluisca e si confonda con un’accozzaglia di battute e citazioni che, per quanto divertenti, evidenziano quanto dicevamo prima: il fatto che il cinema – seppur abbia fatto un passo avanti rispetto a pellicole più superficiali sul tema – ha ancora parecchio da imparare sul videogioco. Se da un lato i nerd vengono sdoganati e normalizzati (a parte il personaggio di Adam Sandler, che risulta piuttosto un’irritante macchietta e specchio di un retaggio che vede i videogiocatori come degli sfigati un po’ falliti, ma tutto sommato simpatici), siamo convinti che siano necessari tanti e tanti altri film prima di vedere finalmente un prodotto che renda onore al medium videoludico, e che non sfrutti solo la nostalgia canaglia per fare leva sui cuori dei gamers. Un’occasione sprecata? Non proprio. Quanto meno abbiamo passato in rassegna tutti quei giochi (e ce ne sono parecchi) a cui vorremo rigiocare su un Mame, e trascorso un paio d’ore a spegnere il cervello.