Dopo anni di siccità, in cui gli appassionati del genere sono stati lasciati a morire di sete, i cosiddetti cRPG sono tornati in grande spolvero, quasi come un acquazzone estivo, approfittando del vuoto che aveva caratterizzato gli ultimi due decenni per riappropriarsi di quella nicchia di giocatori fedelissimi, invero diminuita rispetto alla seconda metà degli anni ’90.
Pillars of Eternity aveva rappresentato, tanto nell’edizione PC quanto in quella console, uno dei migliori esponenti di questa seconda giovinezza, ed era lecito attendersi un seguito che battesse il ferro ancora caldo: Pillars of Eternity II Deadfire è sbarcato sui personal computer di tutto i mondo da una manciata di giorni, con il suo carico di aspettative e promesse.
Il titolo Obsidian ha riempito le nostre ultime giornate fino alle ore più piccole, e adesso siamo pronti a dirvi cosa ne pensiamo.
Salti mortali
Nessun team di sviluppo, e i ragazzi di Obsidian non costituiscono eccezione, potrebbe fare a meno a cuor leggero del talento di uno come Chris Avellone, uno dei writer più influenti della storia dei giochi di ruolo in formato digitale.
Questo sequel, a differenza del suo predecessore, non può contare sull’apporto dello sceneggiatore statunitense, e, a conti fatti, l’assenza è avvertibile soprattutto nel tono e nella godibilità della main quest, che pure si lascia seguire e riesce finanche ad appassionare, soprattutto nelle battute finali.
Probabilmente, ai quartieri alti di Obsidian, consci del vuoto creato dalla partenza di Avellone, hanno preferito arricchire l’offerta narrativa, rendendo Deadfire un opulento banchetto in luogo della singola, eccellente portata che era Pillars of Eternity: se quest’ultimo proponeva una questline principale ottimamente scritta e molto avvolgente, che metteva in ombra gli incarichi secondari, Deadfire, dal canto suo, propone una storia che impiega qualche ora di troppo ad ingranare, e che verrà probabilmente apprezzata di più dai veterani del prequel che non da coloro i quali volessero avvicinarsi al franchise a partire da questo secondo capitolo.
In compenso, come un lauto buffet con decine di prelibatezze, il numero e la qualità delle missioni secondarie sono cresciuti esponenzialmente, e, complice la frammentazione del mondo di gioco, Deadfire propone un gran numero di storyline secondarie talvolta più pregnanti di quella principale, ricolme di personaggi che avrebbero meritato più spazio e di scelte morali di non poco conto.
Quasi a voler strizzare l’occhio all’imperante richiesta di titoli open world, Obsidian disarticola la narrazione e ramifica le missioni, disperdendo, fatalmente, il focus ma mettendo in questo modo tanta carne al fuoco, in maniera tale da soddisfare diverse categorie di appassionati di giochi di ruolo.
Se questa scelta sia vincente o meno, spetterà ai nostri lettori dirlo, ma, da parte nostra, abbiamo apprezzato i due titoli più o meno allo stesso modo, sebbene in maniera diversa: il predecessore propone la campagna più coesa ed avvincente, il sequel compensa con side quest ottimamente scritte e tanto interessanti da allungare sostanzialmente il tempo di completamento del prodotto.
Per la cronaca, e rimaniamo volutamente sul vago perché spiegare per bene l’incipit di Deadfire porterebbe con sé inevitabili spoiler per il primo capitolo, questo sequel usa intelligentemente l’espediente della reincarnazione, consentendo di importare il proprio personaggio dal gioco precedente (oltre a crearne uno ex novo, naturalmente): dopo essersi ritirato a vita privata al termine delle vicende di Pillars of Eternity, il nostro avatar viene coinvolto, suo malgrado, nel risveglio dell’iroso dio Eothas, incarnato in una monumentale statua di adra emersa dalle profondità della terra.
Ma gli dei, si sa, oltre che volubili sono invidiosi, e l’intervento di un altro di loro (Berath, signore della morte) offrirà una seconda possibilità all’Osservatore, che si troverà catapultato su una piccola nave diretta verso l’arcipelago di Mortafiamma, che dà il titolo al gioco.
Da qui, sarà un susseguirsi di esplorazione, quest solving e combattimenti in pieno stile Obsidian.
Più accessibile, ma ancora non per tutti
Nonostante le vendite di Pillars of Eternity, tanto nella sua versione PC quanto in quella console, siano state più che soddisfacenti, in Obsidian devono aver pensato che fare qualche passo verso i non appassionati potesse essere una buona idea, anche perché, nel farlo, il team di sviluppo non ha sacrificato nulla di ciò che ha reso eccellente la grande maggioranza dei suoi giochi di ruolo, ovvero il world building e la cura riposta nel lore e nel sistema di combattimento.
Ma andiamo con ordine: il combat system, cuore pulsante della produzione, ricalca quello visto in precedenza, con gli scontri in real time che possono essere messi in pausa tattica in ogni istante, per impartire ordini ai membri del party, e le azioni che si susseguono a seconda delle priorità date in fase di programmazione dell’intelligenza artificiale amica.
E qui veniamo ad una delle due grosse novità: rispetto al predecessore, Deadfire consente di personalizzare a fondo il comportamento in battaglia dei propri alleati, così che non sia (quasi) mai necessario mettere il gioco in pausa per dire loro come agire: da vecchie volpi degli RPG sviluppati con l’Infinity Engine, confessiamo la nostra iniziale perplessità dinanzi a questa possibilità che invece, alla prova dei fatti, si è rivelata assai ben sviluppata.
Sebbene preparare il proprio party ad ogni evenienza richieda una quantità enorme di micromanagement, questa scelta sortisce il duplice effetto di semplificare (anche se mai in maniera eccessiva) la vita ai neofiti, consentendo loro di studiare a tavolino strategie anche complesse senza dover improvvisare durante gli scontri più ardui, e di esaltare le capacità tattiche dei veterani, che potranno comunque ricorrere in ogni istante alla pausa tattica ed impartire ordini cui verrà data priorità assoluta dall’IA dei companion.
Ci è capitato, durante le lunghe ore di test, di ripensare al Gambit System di Final Fantasy XII, tanto osteggiato al lancio ma invecchiato sorprendentemente bene, come dimostrato dalla rimasterizzazione uscita nei mesi scorsi su PS4: spendere del tempo nei menu ripaga eccome, consentendo di guadagnare tempo soprattutto durante i combattimenti “di routine”.
Altro elemento che differenzia il combat system è la riduzione dei membri attivi del party, che passano da sei a cinque, ovviando, in parte, alle situazioni più caotiche che si verificavano nel primo capitolo, quando poteva capitare di non poter castare magie ad area a causa del sovraffollamento di una certa parte dello schermo; nel contempo, anche questa scelta, riducendo sensibilmente il numero di variabili in gioco, può essere letta come un passo verso i giocatori meno hardcore, nella speranza di portare anche le nuove generazioni ad apprezzare l’immane lavoro di caratterizzazione del mondo di gioco e dei personaggi in esso contenuti.
Sebbene impatti assai meno sulle meccaniche di gioco di quanto non facciano le due novità poc’anzi citate, non si può non nominare anche l’introduzione delle battaglie navali, che avvicinano il titolo ai migliori momenti di Sid Meier’s Pirates e sostituiscono, almeno nelle intenzioni degli sviluppatori, la costruzione della fortezza vista nel precedente episodio: una volta a bordo della Sprezzante, ci si potrà cimentare in battaglie contro altre imbarcazioni, che prendono la forma di minigame la cui varietà scema inesorabilmente di ora in ora, man mano che si progredisce lungo la quest principale.
In un rigido sistema a turni è possibile muovere la propria nave fuori dal tiro dei cannoni nemici, aggirare gli stessi per assicurarsi un vantaggio o sprintare con il vento in poppa tra i colpi d’arma da fuoco per tentare un avventuroso abbordaggio, cui segue, inevitabilmente, una battaglia campale tra le due ciurme, con le medesime regole degli scontri terrestri “regolari”.
Soprattutto durante la seconda metà dell’avventura, si finisce con il cimentarsi in questi scontri più per accumulare risorse (sanno essere molto remunerativi in termini di bottino) che per il godimento che ne scaturisce. Di certo la loro inclusione non detrae dall’esperienza di gioco, ma potevano essere realizzate con maggiore cura e diversificate in maniera più consistente.
Come anticipato, il resto del nocciolo ludico è rimasto pressoché immutato, sebbene la morfologia stessa dell’arcipelago di Mortefiamma porti ad un’esplorazione più vivace, capace di regalare scorci mozzafiato ma anche buie caverne misteriose, quest secondarie nei posti più impensabili e bottini incustoditi negli angoli più remoti dell’isola meno visibile sulla mappa.
Chi ama perdersi in mondi ben realizzati, vasti, che sanno offrire sempre qualcosa anche quando meno ce la si aspetta, perderà il sonno dietro alle numerose isole di cui è composto l’arcipelago di Mortafiamma, così come tutti gli amanti dei cRPG in senso più ampio, ma la grandezza del lavoro di Obsidian sta anche (se non soprattutto) nell’aver migliorato la cosiddetta “quality of life”, andando incontro anche a quanti potrebbero essersi fatti fin qui scoraggiare dal gran numero di statistiche e di testo da leggere che questo genere porta in dote.
Classico sì, ma migliorato
Il pesante aggiornamento cui nel corso degli ultimi tre anni è andato incontro Unity, motore che muoveva già il primo capitolo, si riflette in un comparto tecnico decisamente migliore di quello del predecessore, che pure non era assolutamente da disprezzare: Deadfire consta di scenari realmente tridimensionali, con una corposità decisamente maggiore degli elementi di contorno e degli NPC, che facilitano anche il pathfinding dei compagni di squadra, assai meno problematico di quanto non fosse quello del titolo uscito nel 2015.
Abbiamo notato grossi passi avanti nel campo dell’illuminazione, molto più impattante rispetto al passato e una maggiore cura per i dettagli, partendo dalla già ottima base del prequel, tanto nel comparto animazioni quanto nel minor numero di compenetrazioni poligonali, ancora inevitabili in un titolo di questa portata ma mai troppo fastidiose.
Sparito il ritardo nel caricamento delle texture (anche su un PC non particolarmente performante come quello usato per questa recensione), l’ unica problematica riscontrata è da ricercarsi in un framerate non sempre stabile, che passa con disinvoltura da una media di sessanta a quaranta frame per secondo scarsi, soprattutto in occasione degli abbordaggi durante le battaglie navali e negli scontri più affollati della campagna principale.
In compenso, Deadfire si fa perdonare con la sua superba direzione artistica e una varietà di ambientazioni decisamente superiore non solo al primo capitolo ma anche alla media dei giochi di ruolo di stampo classico usciti nell’ultimo lustro: ognuna delle isole abitate dell’arcipelago che saremo chiamati ad esplorare è degnamente caratterizzata, con culture, vegetazione, fauna e perfino accenti completamente differenti l’una dall’altra.
E, a proposito del doppiaggio, anche sul versante audio c’è poco da lamentarsi: se la colonna sonora si “limita” ad eguagliare quella del capostipite, il doppiaggio risulta decisamente migliore, tanto nella quantità, con un numero enorme di linee di dialogo doppiate (parliamo di percentuali che sfiorano il 90% del totale) quanto nella qualità, con prove recitative di grande spessore e caratterizzazioni peculiari di ogni razza.
Chiudiamo con un accenno sulla longevità complessiva: quasi seguendo il “modello Bethesda”, Obsidian ha optato per una campagna principale leggermente più breve di quella di altri suoi prodotti (Pillars of Eternity in primis), offrendo in compenso un numero davvero esorbitante di quest secondarie, molte delle quali risultano anche meglio scritte della main.
Per questo, Deadfire si può portare a termine in circa trentacinque ore, ma, allo stesso tempo, offre contenuti che possono tenere impegnati per più del doppio del tempo.
Mondo di gioco vasto e molto variegato
Combat system ulteriormente rifinito
Grande libertà di gestione della IA alleata
Offerta ludica imponente
Quest secondarie ottimamente scritte…
Conservativo
…a tratti a scapito della main quest
Con Pillars of Eternity Deadfire i ragazzi di Obsidian si confermano artigiani dei giochi di ruolo vecchio stampo, dimostrando di potersi barcamenare (no pun intended) anche in assenza di quel mostro sacro di Chris Avellone.
Questo sequel è un prodotto uguale e nel contempo diverso dal precedente, visto che costruisce sulle solide basi gettate del capostipite ma propone un maggior numero di quest secondarie, una mappa assai più estesa e un’accresciuta libertà di movimento per il giocatore, a fronte di una storyline principale più dispersiva e leggermente meno incisiva che in passato.
Inutile dire che l’acquisto è assolutamente consigliato ai fan del prequel e a tutti quelli che hanno vissuto in prima persona l’epoca d’oro dei giochi di ruolo sviluppati con l’Infinity Engine, ma, grazie ad un paio di accorgimenti, ci sentiamo di raccomandare questo secondo capitolo anche a quanti non si siano mai avvicinati al genere, magari spaventati dal troppo testo da leggere o dalla mole di statistiche di cui tener conto.