Parafrasi Videoludiche - Dark Souls

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a cura di Kable

“Non sei troppo grande per perdere ancora tempo con i videogiochi?”
Tale domanda, che ancora troppo spesso ci sentiamo rivolgere, potrebbe tutt’ora continuare ad essere considerata lecita, viste la premesse ad alto tasso di disinformazione dalle quali inevitabilmente scaturisce. Nonostante i passi in avanti compiuti negli ultimi anni, il problema di fondo che continua a investire il medium moderno per eccellenza è di natura culturale, complice anche lo scetticismo che da esso deriva e con il quale ogni giorno gli appassionati si trovano a dover fare i conti. Tutti coloro che hanno fatto dei videogames una delle costanti della propria vita, sanno bene che questi ultimi, nella loro accezione qualitativa più elevata, potrebbero rappresentare a tutti gli effetti una nuova forma d’arte. Specialmente in Italia, la percezione comune è invece questa: “si tratta di uno svago che ha la pretesa di voler assurgere ai piani alti della cultura”. 
Il discorso è complesso e spinoso, ma con questa nuova rubrica, Parafrasi Videoludiche, proveremo almeno a scioglierne i principali nodi concettuali tramite un sovvertimento di prospettiva. La nuova domanda che ci porremo è: può un videogame riuscire nel tentativo di esplorare, con la medesima sensibilità, i modelli artistici e di pensiero alla base di un’opera famosa, traendone la stessa forza comunicativa?
Tre versi
Daremo inizio alla nostra serie di esperimenti partendo da Dark Souls. Il nostro scopo sarà quello di capire se esso possa essere, parimenti a una forma d’arte universalmente accettata come tale – nello specifico la poesia – ugualmente rappresentativo della condizione esistenziale umana. Il termine di paragone immediato scelto per questa prima puntata sarà infatti “Ed è subito sera” di Salvatore Quasimodo, componimento simbolo dell’ermetismo italiano. Poesia composta, secondo i modelli propri del movimento artistico, di tre criptici versi, i quali faranno anche da titolo ai prossimi paragrafi. Sarà possibile infatti, grazie ai parallelismi a cui daranno luogo, tracciare delle ottime linea guida per indagare il cuore tematico stesso del fortunato titolo videoludico. 
Quella di Quasimodo è in effetti una lirica stringata e basata sull’essenza delle parole, due caratteristiche proprie anche delle modalità narrative di Dark Souls, la cui trama, mai esplicitamente presentata su schermo, non ha smesso di celare qualche novità di senso.
Ognuno sta solo sul cuor della terra
È la grande solitudine esistenziale, quella che traspare chiara da questo verso, la stessa che domina il cammino del non morto prescelto per adempiere alla più importante missione: “E l’uomo non vede la luce, ma solo notti eterne… E tra i viventi si distinguono i portatori del maledetto segno oscuro.” 
Il protagonista di Dark Souls non avrà mai, lo sappiamo, le epiche fattezze dell’eroe che indomito si ergerà contro le forze del male, sicuro dei propri mezzi, imperturbabile nel perseguire il suo fine ultimo. Non presenterà caratteri definiti, non possiederà una voce. È una figura universale, esemplarmente resa dall’ognuno del primo verso, quasi priva (complice anche la perenne sensazione di vacuità che domina l’atmosfera) di una concreta dimensione spaziale e temporale. Un alter ego capace di condurre quindi all’immedesimazione più pura proprio in virtù della sua ineffabilità. 
Il non morto prescelto rappresenterà in ultima analisi un soggetto collettivo, “l’ognuno”, simbolo di ogni uomo teso nella lotta per vincere la solitudine che inevitabile deriva da una fragile incomunicabilità. Una comune esperienza del dolore, anch’essa resa fin dall’inizio tangibile dalle ostiche meccaniche del titolo, che sottintenderà le fragilità generate da tale messa in discussione del valore del singolo.
Per tutto il cammino intrapreso al fine di ritrovare il senso ultimo della propria umanità, il protagonista sarà radicato nel cuore della propria solitudine, situazione che verrà resa metaforicamente dalla centralità del Falò del Santuario. Privo sin dal principio di indicazioni circa la sua meta precisa, avrà la possibilità di sperimentare ulteriormente quell’incomunicabilità e quella vaghezza che gli sono proprie anche attraverso il rapporto con le figure che incontrerà. Ognuna, proprio come lui, si presenterà infatti ambigua, incerta sul proprio futuro e spesso finirà vittima di sé stessa. È una verità apodittica quella sancita dal verso di Salvatore Quasimodo, perfettamente trasposta sul medium videoludico dalle idee di Hidetaka Miyazaki. Una verità della quale, tanto il lettore quanto il videogiocatore, finiscono inevitabilmente per prendere atto. 
Trafitto da un raggio di sole
“Ah salve! Non mi sembri un essere vuoto, anzi lungi dall’esserlo!… Ora che sono un non morto, sono venuto in questa grande terra… per cercare il mio Sole personale…” 
Non serve aggiungere altro. A parlare, come molti avranno subito intuito, è proprio Solaire di Astora, il cavaliere intento ad adorare quel Sole che ritiene provenire dal suo Lord Gwyn. Niente di meglio, della parabola discendente dello speranzoso guerriero, per delineare il senso di questo secondo verso. 
Solaire, teso con tutte le proprie forze nella ricerca del suo Sole personale, finirà, se non riuscirete a salvarlo in tempo (cosa resa nuovamente molto complessa da percepire in virtù della tragica incomunicabilità succitata), per cadere in preda ad una disperazione che lo condurrà alla follia. La sua si configurerà come la più vana delle ricerche: l’inseguimento di quell’ideale felicità tanto agognata, rappresentata dal Sole di Lordran, che caratterizza ogni essere umano. 
Il Sole da lui venerato però finirà inevitabilmente per trafiggere con i raggi delle proprie illusioni le sue speranze. Lo porterà a sperimentare il dolore che l’inseguimento della perfetta felicità ad ogni costo riesce a creare quando ci si trova a fare i conti con la brevità della vita umana. 
Solaire è sicuramente il personaggio migliore per esemplificare tale concetto, ma a ben guardare, tutti gli NPC, la loro ricerca, il loro ruolo all’interno del mondo, sono dominati da tale sintomatica insufficienza. In Dark Souls, il contrasto tra luce ed ombra, non solo ad un livello puramente estetico ma anche profondamente etico, regna sovrano, rappresentandone di fatto il grande leitmotiv. 
Ognuno, e anche qui vediamo ritornare nuovamente l’universale del primo verso, finirà, a causa della precarietà di un’esistenza oscillante tra il dolore e la speranza di felicità, per perdere la bussola o, nel migliore dei casi, per rinchiudersi tragicamente in sé stesso nuovamente vittima delle proprie ombre. 
“Finalmente… l’ho trovato! Adesso… adesso ho il mio Sole! Io… io sono il Sole!”, queste parole, sussurrate da un Solaire che ci attaccherà a Lost Izalith, una volta in preda alla follia, sembrano proprio richiamare nuovamente il senso iniziale di solitudine esistenziale.
Ed è subito sera
La missione affidataci sarà quella di tenere viva la fiamma, ma il tramonto della speranza, di cui è vittima Solaire, sembra essere l’unica inevitabile conclusione. L’ombra, la sera, non segnerà solo il suo tragitto. In effetti sarà lo stesso cammino del nostro eroe a rivelarsi costellato di piccole illusioni che si configureranno però, nella loro ambiguità, come fugaci stazioni di felicità. Chi conosce bene il titolo è infatti al corrente di quanto la nostra stessa missione sarà in realtà mossa da un inganno perpetrato ormai da tempo immemore. E come accade in tanta letteratura, sarà proprio il serpente a farsi portatore della menzogna messa in atto, non solo nel nostro caso, dagli dèi. 
Frampt, la creatura primordiale che ci inviterà a prendere il posto di Lord Gwyn come prescelto, sarà tradito dal suo simile Kaathe, il quale ci renderà partecipi di quello che dovrebbe essere il vero destino da abbracciare con coraggio. La scelta del finale alternativo – la distruzione della Fiamma una volta per tutte – porrà fine a tutte le falsità grazie alle quali le divinità hanno conservato il potere sull’umanità. 
“Fu così che ebbe inizio il tempo degli uomini, l’Era dell’Oscurità… Guerriero non morto, ci troviamo a un crocevia. Solo io conosco la verità sul tuo fato”, sibilerà Kaathe, augurandosi che il buio torni a regnare e la vera natura del regno venga ripristinata. La scelta spetterà solo a noi. 
Un’ambiguità di intenti che, complice anche la fulmineità con la quale ci verrà rivelata la verità profonda del nostro viaggio, colpirà dritto al cuore della coscienza di ognuno di noi. E riuscirà a farlo perché, proprio come questo terzo ed ultimo verso, metterà in risalto quella che purtroppo si configura come l’unica cosa certa di ogni esistenza.
È sempre la sera, la morte, termine di ogni cosa, a porre fine con le sue ombre all’angoscia derivante dall’illusoria luce della speranza.
Abbracciare la consapevolezza della morte equivale a divenire più partecipi della propria umanità. Dark Souls questo lo insegna molto bene.

Non ho molto altro da dire in merito. Vorrei piuttosto ringraziare tutti quelli che, con curiosità ed impegno, si saranno prodigati nella lettura di questa nuova rubrica. Sono cosciente del fatto che non si tratti di un articolo immediato, ma spero di essere stato in grado di regalarvi qualche spunto di riflessione sul quale poter eventualmente discutere insieme anche in attesa dell’uscita del terzo episodio della serie. Nella prossima puntata, per chi fosse interessato, parleremo di un altro possibile nucleo tematico della serie prendendo spunto dal secondo episodio. Alla prossima!

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