Per me l’estate, soprattutto da quando scrivo di videogiochi, è divenuta sinonimo di recupero, un po’ come la cena della domenica sera (o il pranzo del lunedì, a seconda di quanto si era esagerato nel cucinare il giorno prima): approfittando del diradarsi delle uscite e della maggiore quantità di tempo, utilizzo le settimane che dividono la fine dell’E3 dalla partenza per le vacanze per “giocare” a qualcosa per il puro piacere di farlo, senza avere il fiato sul collo di un embargo.
Sarà il caldo asfissiante, sarà che ho terminato da poco Mass Effect Andromeda, che avevo dovuto lasciare indietro nell’intensissimo inverno appena trascorso, ma ho partorito un pensiero sugli underdog, termine inglese che fotografa con la consueta brevità della lingua anglosassone quei giochi che non hanno goduto dell’attenzione (mediatica, del pubblico o di entrambi) che avrebbero meritato.
Questo è, allora, l’argomento di questa puntata di Occhio Critico.
Varie ed eventuali
Le motivazioni per cui un titolo non riesce a sfondare sul mercato e a godere della considerazione che avrebbe meritato possono essere innumerevoli, e raramente il fattore casuale è tra questi: il mercato videoludico, come tutti gli altri, segue logiche tutte sue, magari non condivisibili ma pur sempre logiche.
Gli attori in gioco, ovvero publisher, stampa specializzata e pubblico, sono i primi a sbagliare, com’è normale che sia: ci sono giochi che, banalmente, non hanno ottenuto il successo che avrebbero meritato perché pubblicati in periodi dell’anno affollatissimi, e finiti schiacciati sotto il peso di colossi quali Fifa, Call of Duty e Uncharted, altri che non hanno goduto di sufficiente spinta pubblicitaria, altri colpevolmente sottovalutati dalla critica, incapace di coglierne le qualità, ed altri ancora che, nonostante l’encomio della stampa di settore, sono rimasti comunque invenduti sugli scaffali fisici e digitali, vittima delle “bizze” del grande pubblico.
La lista è infinita, e anche limitando l’analisi solamente alle ultime due generazioni di console, la situazione appare assai variegata: Titanfall 2, a parere di chi scrive, ha portato in dote una delle migliori campagne single player degli ultimi anni, escludendo prodotti più vincolati alla narrativa come Metro e Wolfenstein (su cui torneremo), ma è passato quasi inosservato tra le grandi uscite autunnali, malamente piazzato proprio a ridosso dei big.
Mad Max e Dying Light, due dei titoli open world che personalmente ho apprezzato di più (soprattutto il secondo), non hanno goduto di un trattamento di primo piano a livello di marketing e spinta pubblicitaria, “accontentandosi” di vendere bene quando avrebbero potuto figurare nelle classifiche dei migliori del loro genere.
Un caso a parte meritano quei titoli fieramente “diversi”, che non si sono piegati alle logiche del mercato e hanno pagato la loro unicità con dei risultati abbastanza deludenti in termini di vendite: Catherine rimane un piccolo gioiello di narrativa e game design di cui difficilmente vedremo un seguito, tanto quanto Lost Odyssey, recentemente premiato dalla retrocompatibilità su Xbox One, coraggioso promotore di un combat system a turni in un mondo che sembra accettare solamente giochi di ruolo di matrice action.
E come non citare The Last Guardian, emozionale viaggio nel passato reperibile a pochi euro un po’ ovunque (prendetelo, a proposito)?
Domande senza risposte
Le sottocategoria nelle quali i giochi meno apprezzati del dovuto si possono suddividere, comunque, non finiscono qui: altre due delle più comuni sono le “vittime del momento” e i “fratelli minori”, peraltro quelle che mi stanno più a cuore.
Nella prima categoria rientrano i titoli che, semplicemente, sono usciti nel periodo sbagliato, distanti dai paradigmi dell’anno domini in cui vengono pubblicati, e anche solo per questo additati come “inferiori”.
Sì, perché il videogiocatore medio, purtroppo, fatica a distinguere il concetto di diversità da quello di qualità, implicando un peggioramento dell’esperienza di gioco per quei prodotti che escono dal seminato: in questo momento storico la categoria che più sta ingrossando le fila delle “vittime del momento” è quella degli sparatutto in prima persona che non si sono dimenticati del single player.
Uno dei momenti più alti dello scorso E3, per il sottoscritto, è stato l’annuncio, durante la conferenza Microsoft, di Metro Exodus: insieme alla rinata serie di Wolfenstein dei ragazzi di Machinegames, il lavoro del team ucraino 4A Games rimane uno degli ultimi baluardi dell’esperienza single player negli FPS.
Nel momento in cui le console, complice la diffusione della banda larga, hanno accettato di sacrificare le campagne single player sull’altare del multigiocatore, i due Metro e i due Wolfenstein hanno coraggiosamente puntato sulla narrativa, sull’atmosfera, su una costruzione di livelli decisamente differente dalla massa, offrendo campagne longeve, ben ritmate, godibili, che nemmeno troppi anni fa costituivano la regola ed oggi rappresentano l’eccezione.
Stessa storia per i JRPG e gli strategici a turni, con la speranza che il successo di titoli come Persona 5 e gli ultimi Fire Emblem usciti su 3DS rappresenti l’inizio di una tardiva inversione di tendenza.
I “fratelli minori”, dal canto loro, rappresentano la categoria più numerosa in assoluto e che affonda le proprie radici nel passato videoludico: dai secondi episodi di serie come Zelda, Super Mario Bros. (in occidente, s’intende) e Castlevania in poi, ogni franchise di successo ha avuto le sue pecore nere, che spesso, però, erano più vittima del successo dei loro fratelli che non fautori del proprio insuccesso.
Certo, il primo Dark Souls rimane il migliore e il terzo lo segue a ruota, ma perché sputare sul secondo capitolo, che preso in sé rimane un RPG di rara bellezza, soprattutto nella sua incarnazione Scholar of the First Sin?
Quanto è giusto lamentarsi di Bioshock 2, la cui unica colpa è di essere venuto dopo quel capolavoro senza tempo del primo capitolo?
C’è davvero bisogno di sottolineare le imperfezioni del terzo e quarto capitolo di Dead Rising quando, sull’altro piatto della bilancia, c’è così tanto di buono?
Domande come queste non trovano sempre risposte, o, se le trovano, sono retoriche, ma porsele rappresenta già un buon punto di partenza per evitare di perdersi dei giochi di qualità anche in futuro.
Cionondimeno, nonostante più di dieci anni passati nel settore, continuano a sfuggirmi le ragioni per cui Binary Domain, Vanquish e Quantum Break (e Alan Wake prima di lui, beninteso) non figurino ai vertici delle rispettive categorie.
Mistero buffo.
Dubbi personali
Chiudiamo questa breve carrellata, però, con un raggio di speranza: negli ultimi mesi, il mercato sta avendo la possibilità di riscoprire prodotti di grande qualità, che, per un motivo o per un altro, erano stati goduti solamente da fasce limitate di pubblico.
Fire Emblem Echoes, che ha saputo meritarsi un ottimo voto sulle nostre pagine meno di due mesi or sono, è il remake di un episodio relativamente oscuro del franchise, peraltro mai uscito dal Giappone.
Final Fantasy XII The Zodiac Age, che sto rigiocando con estremo piacere e che molti continuano a ritenere uno degli episodi meno riusciti della saga, potrà finalmente avere la luce dei riflettori che ha sempre meritato, come anche Dragon’s Dogma, una delle nuove proprietà intellettuali più interessanti della scorsa generazione di console, che presto rivedremo sulle ammiraglie Microsoft e Sony.
Insistenti voci di corridoio, peraltro, vorrebbero il ritorno su Switch di un titolo che ho adorato su Wii U, ma che abbiamo giocato in pochissimi, ovvero The Wonderful 101: i Platinum Games sono sinonimo di garanzia e il messaggio che passerebbe, in caso di edizione migliorata del loro bizzarro action game, è che i giochi di valore non passano inosservati, nemmeno se la console ospite ha avuto un destino poco felice.
Ultima menzione per un’altra delle mie IP preferite: Yakuza.
Dopo anni in cui i giochi della serie arrivavano in Europa con ritardi mastodontici (quando arrivavano) e senza un battage pubblicitario che potesse garantire l’allargamento dell’affezionatissima fanbase, Sega sembra essersi decisa a puntare forte sul franchise, regolarizzando le uscite, rimasterizzando i capitoli più vecchi e assicurando una certa continuità narrativa, fondamentale per una serie che ha fatto dello storytelling uno dei suoi punti di forza.
Un mondo dei videogiochi con più Kazuma Kiryu e più Goro Majima per tutti è un mondo dei videogiochi migliore, se chiedete a me.
Se poi mi dessero anche più Ryo Hazuki prima che mi si imbianchi la chioma…
A volte noi della stampa specializzata non li abbiamo capiti, a volte ve li abbiamo raccomandati in tutti i modi possibili e voi, invece, li avete colpevolmente ignorati.
In altre circostanze, qualcuno ne ha sbagliato il prezzo o il posizionamento sul calendario delle uscite.
Poi ci sono casi come Vanquish, Binary Domain o Quantum Break, che sfuggono alla mia comprensione.
Ad ogni modo, se è vero che la storia la scrivono i vincitori, tantissimi titoli che probabilmente non passeranno agli annali meritano comunque la vostra attenzione, e il fatto che li si possa reperire per due spicci non guasta: l’estate è lunga, voi a quale giocherete?
Non esitate a farcelo sapere nei commenti.