Sono passati ventidue anni e Isla Nublar si popola nuovamente; la lussureggiante isola ospiterà finalmente, come John Hammond aveva a suo tempo progettato, un parco per famiglie a tema dinosauri: la notorietà del parco inizia però presto a diminuire, così come le sue visite. Per risolvere il problema, i proprietari decidono di aprire una nuova, grandiosa attrazione. Ma tra le minacciose ombre dell’Isla Nublar, l’imprevisto è in agguato.
Abbiamo dovuto attendere ventidue lunghi anni per tornare a Isla Nublar e rivivere (quasi) le stesse emozioni vissute nel primissimo Jurassic Park firmato da Steven Spielberg. Seppur lontano dalla fascinazione che la pellicola originale del 1993 regalò a molti spettatori – la maggior parte all’epoca poco più che ragazzini, estasiati dalla magia di veder materializzarsi i dinosauri sul grande schermo – Jurassic World risveglia in noi il sopito interesse per i grossi lucertoloni preistorici, rileggendo in modo incredibilmente moderno alcune tematiche già presenti nell’originale spielberghiano e arricchendo la confezione con un sapiente utilizzo della CGI. Ma i vari T-Rex e Velociraptor riescono ancora a regalare gli stessi effetti al cardiopalma di un tempo?
Let’s start from the beginning…
La prima grande sfida che la nuova opera di Colin Trevorrow ha dovuto affrontare è stato l’arduo compito di riportare in auge una serie che, dopo il grande successo del primo film, ha assistito ad un lento ed inesorabile declino, partito nel 1997 con il più mediocre Jurassic Park – Il mondo perduto – rivelatosi un sequel non all’altezza del suo illustre predecessore – e culminato nel 2001 con il dimenticabilissimo Jurassic Park III. E’ per questo che Jurassic World parte dall’ambiziosa idea di proporsi come sequel diretto del film del 1993, quasi a voler cancellare i suoi successivi capitoli, infarcendo la storia con continui riferimenti ed easter egg alla pellicola di Spielberg. Anzi, in qualche modo si potrebbe addirittura sostenere che il nuovo film di Trevorrow sia una sorta di “mutazione genetica” – tema ricorrente nella pellicola, che approfondiremo tra poco – di Jurassic Park stesso, rivelandosi una versione ”più grande, più cattiva e più figa” (per citare una battuta del film) del suo illustrissimo predecessore.
Da questo punto di vista, Jurassic World risponde perfettamente a questi tre parametri, offrendo un prodotto che da un punto di vista registico è stato confezionato ad hoc, grazie al suo ritmo sincopato fatto di inquadrature frenetiche e all’eccellente uso della computer grafica che – per quanto sia molto presente – non offusca mai le intenzioni metaforiche che ricorrono all’interno della pellicola. Seppur, di fatto, Jurassic World parta da un soggetto molto lineare e semplice, le tematiche che si intrecciano al suo interno si aprono a molteplici livelli di lettura, permettendo al film (proprio come accaduto con l’originale spielberghiano) di essere fruito da spettatori più variegati, dal bambino ammaliato dall’immensità di questi animali preistorici allo spettatore più adulto, che riesce a rintracciare al suo interno elementi di ben altro spessore.
”C’è rimasto ancora un po’ di mistero in questo mondo, e possiamo goderne tutti al prezzo di un biglietto d’ingresso”. (King Kong)
Se la sfida di Jurassic Park era quella di rileggere in chiave moderna il mito di King Kong (Uomo vs Natura), dove l’uomo – essere ambizioso e arrogante – prova ad elevarsi e a sostituirsi a Dio ricreando in laboratorio i mitici animali giurassici grazie alla clonazione, ma tuttavia soccombendo alla natura stessa, in Jurassic World il concetto viene ulteriormente rielaborato e modernizzato. Divorato dall’avidità e dalla possibilità di attirare al parco quanti più nuovi visitatori per la pura bramosia di accumulare soldi, qui l’uomo-scienziato si spinge oltre, provando addirittura a creare in laboratorio una specie di dinosauro ex novo, l’Indominus Rex, assolutamente in-naturale e puramente artificiale (da qui il tema della “mutazione genetica”), il cui unico e solo scopo di vita è “uccidere per il puro gusto di farlo” (una frase che, pronunciata da un ex Marine ora addestratore di Velociraptor, ci fa sorridere e al tempo stesso riflettere sulla stessa natura ambigua dell’uomo). Chi è l’individuo alpha all’interno di Jurassic World? Chi domina chi? Nell’epico scontro tra Natura e uomo, chi avrà la meglio questa volta? Con questi affascinanti quesiti, Colin Trevorrow ci sballotta (proprio come all’interno della girosfera offerta ai visitatori del parco) in una corsa senza sosta verso un epilogo tutt’altro che banale, e che al tempo stesso restituisce, forse, una delle sequenze più toccanti dell’intera pellicola.
L’unico aspetto a lasciarci davvero indifferenti all’interno di Jurassic World è la caratterizzazione dei personaggi. Vuoti, stereotipati e simili ad un’accozzaglia di cliché, i protagonisti del film di Trevorrow non hanno la stessa profondità e fascino dei personaggi principali presenti in Jurassic Park, dove al posto della romance assolutamente fuori luogo e “buttata lì” tra la donna-in-carriera-passo-la-vita-al-cellulare Claire Dearing (Bryce Dallas Howard) e il buzzurro lupo solitario Owen Grady (Chris Pratt), spiccava senza dubbio l’amore per la natura e la scienza dei ben più profondi Alan Grant (Sam Neill) e Ellie Sattler (Laura Dern), restituendo personaggi tutt’altro che scontati e assolutamente ben delineati.
Nel complesso, Jurassic World è riuscito a restituire, dopo tanti anni, un degno successore dell’opera originale di Steven Spielberg. Con un ritmo che scorre senza sosta, seppur caratterizzato da uno script non particolarmente brillante, il film di Colin Trevorrow soddisfa, diverte e trascina lo spettatore per quasi due ore, come su di un’attrazione di Gardaland. Cancellando con un colpo di spugna i successivi due episodi della saga giurassica, Jurassic World è quel sequel che attendevamo da tempo e che, a dispetto della nostra veneranda età, è tornato a farci emozionare. Forse non tanto quanto la prima volta che abbiamo visto i mastodontici animali sul grande schermo nel lontano 1993, ma l’operazione può dirsi egregiamente riuscita.